In Italia, il mercato dei prodotti maturi, sia per i biosimilari che per i farmaci generici, sta affrontando due fenomeni che lo rendono particolarmente problematico.
Il primo fenomeno riguarda l’aumento dei costi lungo tutta la filiera produttiva, che incide in modo significativo soprattutto sulle imprese focalizzate sulla produzione di farmaci a brevetto scaduto. Questo perché tali aziende operano con margini più ristretti sui singoli prodotti, rendendo i costi di produzione – inclusi quelli relativi al personale e alle materie prime – ancora più gravosi. Negli ultimi anni, questi costi sono aumentati notevolmente, anche a causa di tassi di inflazione elevati che hanno caratterizzato non solo l’Italia, ma anche il resto dell’Unione Europea e gli Stati Uniti.
In sistemi come quello italiano, l’inflazione ha avuto un impatto asimmetrico
Tuttavia, in sistemi come quello italiano, l’inflazione ha avuto un impatto asimmetrico. In settori in cui i prezzi finali possono essere liberamente stabiliti in funzione dei costi, l’aumento dei costi produttivi è stato trasferito sui consumatori. Nel settore farmaceutico, invece, dove i prezzi sono prevalentemente negoziati o stabiliti attraverso gare pubbliche i produttori non hanno potuto adeguare i prezzi finali in modo proporzionale all’aumento dei costi. Questo ha ulteriormente ridotto i margini delle aziende, e il risultato, soprattutto nel caso dei farmaci generici, è stato la sospensione di diverse linee produttive. Ciò ha portato, tra le altre, a carenze di antibiotici, anestetici o antitumorali di vecchia generazione – farmaci che, pur non essendo nuovi, sono ancora essenziali.
Il secondo fenomeno che influisce negativamente sul mercato è la gestione delle gare da parte degli enti preposti al procurement. Non si tratta solo di gare al prezzo più basso, che, se ben strutturate, potrebbero avere un senso per farmaci con lo stesso principio attivo. Il problema risiede, piuttosto, nel modo in cui queste gare vengono condotte: spesso non si tiene conto della sostenibilità economica a lungo termine nella doppia ottica del sistema pubblico e del mercato dei fornitori. Quando si stabilisce il prezzo base d’asta, bisognerebbe considerare quale prezzo possa garantire una competizione attiva nel tempo, evitando di strangolare le imprese con condizioni economiche insostenibili che portano inevitabilmente a ristabilire svantaggiose condizioni di oligopolio o monopolio.
Per chiarire meglio: se fissiamo un prezzo che da un lato permetta di offrire sconti e quindi generare un risparmio per l’ente appaltante, ma dall’altro lato sia sufficientemente elevato da mantenere l’interesse delle imprese, consentendo loro di continuare a considerare il mercato attrattivo, allora avremo raggiunto un risultato ottimale. Uno degli obiettivi fondamentali del sistema di acquisti pubblici è infatti questo: non si tratta solo di ottenere il prezzo più basso possibile, che di per sé non è neanche l’obiettivo primario, ma anche di garantire che il mercato rimanga competitivo e affidabile nella capacità di soddisfare il bisogno pubblico. Stabilire il prezzo di partenza o il prezzo massimo implica una responsabilità diretta su come il mercato si svilupperà successivamente.
Obiettivo del sistema di acquisti pubblici non è ottenere il prezzo più basso ma garantire competizione e affidabilità del mercato per soddisfare il bisogno pubblico
Secondo gli ultimi dati pubblicati da Nomisma per il 2022, emerge che, per ogni lotto di gara su farmaci a brevetto scaduto, vengono presentate in media solo due offerte. Questo dato riflette una realtà in cui, laddove ci si aspetterebbe una competizione tra sette, otto o nove imprese (come era normale osservare fino a circa dieci anni fa), di fatto rispondono solo due aziende per singolo lotto. Si tratta di un fenomeno preoccupante, che appare in contrasto, ad esempio, con le aspettative generate dagli accordi quadro sui biosimilari.
L’accordo quadro sui biosimilari è stato concepito dando per scontata la partecipazione di un numero adeguato di imprese alla competizione: ad esempio, su dieci aziende, ne vengono selezionate tre, con l’obiettivo di offrire ai medici la possibilità di personalizzare la scelta del trattamento all’interno di questo gruppo. Questo dimostra che, nelle intenzioni del legislatore, non fosse neanche immaginabile una situazione in cui meno di quattro imprese si contendessero il mercato: quindi, se da un lato si vuole attivare una competizione premiante per le offerte migliori, si vuole lasciare ai clinici una capacità di ri-personalizzazione della domanda, potendo scegliere tra i tre migliori offerenti. Peraltro, l’idea di imporre la scelta del prodotto meno costoso tra i tre non è prevista dall’accordo quadro, ma è una sua interpretazione discrezionale (e sbagliata) introdotta da alcune Regioni. Naturalmente, per prodotti con un buon margine di sostituibilità, è lecito attendersi un utilizzo prevalente del prodotto più economico, semmai richiedendo una giustificazione clinica per la scelta di alternative più costose. Ma non possono esserci costrizioni che limitino l’utilizzo dell’accordo quadro nella sua corretta interpretazione.
Se oltre un terzo dei lotti va deserto, aumentano le procedure negoziate e le richieste d’offerta, e il risultato finale non è affatto conveniente
Se oltre un terzo dei lotti continua a rimanere deserto, si assiste a un conseguente aumento esponenziale delle procedure negoziate e delle richieste d’offerta (RdO). Questo accade perché, quando si constata l’assenza di concorrenza, si finisce per contattare direttamente le imprese e accettare il prezzo che propongono.
Ma a questo punto, è stato davvero vantaggioso puntare a continui ribassi? Forse in due gare su tre si riesce a ottenere un risparmio, ma nell’altra si è costretti a ricorrere a una RdO e il risultato finale non è affatto conveniente. Inoltre, si rischia di importare prodotti dall’estero e di incorrere in carenze di fornitura.
I due temi più urgenti e preoccupanti che emergono sono, quindi:
- l’aumento dei costi da parte delle imprese, che si scontra con l’insensibilità di chi si occupa di programmazione e di istruire le gare, e spesso non si conducono analisi di mercato adeguate;
- nella definizione dei prezzi base d’asta, c’è una chiara carenza nella fase istruttoria per determinare quali sarebbero i prezzi compatibili con la permanenza – laddove possibile – di una buona competizione sul mercato dei fornitori. L’obiettivo dovrebbe essere mantenere viva la concorrenza nel mercato, ma senza un’adeguata comprensione delle dinamiche dei prezzi, questo obiettivo rischia di essere compromesso.
In questo contesto, non solo si deve affrontare il tema dei prezzi base d’asta, ma le normative sugli acquisti richiedono alle imprese di adottare principi di sostenibilità, ad esempio ambientale. Questi principi, che sono apprezzabili e condivisibili sotto un profilo di responsabilità morale del mercato, dal punto di vista economico comportano però un’organizzazione e delle politiche interne più costose. Tuttavia, tali politiche non dovrebbero essere compromesse dalla continua pressione a ridurre i prezzi finali. Che senso avrebbe un fornitore che rispetta l’ambiente e i suoi dipendenti ma che non può offrire il prodotto senza andare in perdita?
Come si può sperare di incentivare un’impresa più etica, sostenibile, “green” e paritaria internamente, senza riconoscere che tali impegni devono necessariamente avere un impatto sul prezzo finale? Se non lo hanno, l’impresa dimostra di non riuscire a sostenere quella linea di business. Se un’impresa chiude, non può essere né “green”, né sostenibile, né inclusiva. È fondamentale comprendere che queste politiche richiedono una consapevolezza rispetto ai costi: essi non sono semplicemente costi, ma investimenti necessari che devono essere recuperati in qualche modo e la cui responsabilità va quanto meno condivisa tra imprese e sistema pubblico.
Per promuovere imprese più etiche, sostenibili, ecologiche e inclusive, è fondamentale considerare tali impegni nel determinare il prezzo finale dei prodotti
Le imprese, infatti, dispongono di un potere considerevole, rappresentato dalla possibilità di esercitare l’exit option (uscire dal mercato). Si tratta di una scelta difficile e dolorosa ma che può restare comunque una realtà: l’azienda, qualora si trovasse costretta a operare con margini troppo ridotti o addirittura in perdita, opterebbe per ridimensionare una linea di business o abbandonare del tutto un determinato mercato. Questo è un punto che non può essere ignorato.
Dal punto di vista dei finanziatori dell’impresa, infatti, non c’è interesse a sostenere operazioni rischiose o poco remunerative. Di fronte a condizioni economiche sfavorevoli, la scelta è di orientarsi verso altri mercati o puntare su prodotti nuovi e innovativi, laddove possibile.
Pertanto, è essenziale ampliare l’accesso ai farmaci e anche generare risparmi una volta scaduto il brevetto, ma ciò non deve avvenire al costo di distruggere il mercato. La logica dell’impresa, infatti, è diversa da quella di un ente del SSN: se le condizioni diventano insostenibili, potrebbero decidere di ridimensionare le sedi italiane o ritirarsi dal mercato.
È essenziale ampliare l’accesso ai farmaci e generare risparmi una volta scaduto il brevetto, ma ciò non deve avvenire al costo di distruggere il mercato
Questa mancanza di visione strategica è preoccupante. Dovremmo chiederci: cosa vogliamo dal mercato dei prodotti maturi? Sicuramente vogliamo risparmi, ma ancora di più, vogliamo che quei farmaci continuino a essere accessibili e che esista concorrenza tra le imprese. La competizione tra le aziende è essenziale, mentre una strategia che spinga le imprese fuori dal mercato rischia di creare una situazione simile a un oligopolio o a un monopolio di fatto, senza però i vantaggi di una copertura completa della domanda.
La differenza tra un vero monopolio (come quello del farmaco ancora coperto da brevetto) e questa situazione “forzata” è sostanziale: nel primo caso, almeno si garantisce la disponibilità di un farmaco. In questo scenario, invece, il risultato potrebbe essere una carenza di farmaci. Quando un farmaco è protetto da brevetto, l’azienda produttrice ha alcuni anni per pianificare e organizzare la produzione. Ma una volta scaduto il brevetto, il panorama cambia: tutti possono teoricamente produrre quel farmaco, ma nessuno sarà disposto a investire in uno stabilimento produttivo in grado di soddisfare tutta la domanda potenziale per poi vedere ridotti i propri margini al minimo.
Quindi, se il sistema non è regolato in modo adeguato, rischiamo non solo di non ottenere risparmi, ma di affrontare gravi carenze di farmaci essenziali. È una questione che richiede una riflessione più strategica e un orientamento di lungo termine.