Metaverso e realtà virtuale per combattere il declino cognitivo

Può un’attività considerata ancora per gran parte ludica avere delle ricadute importanti in ambito clinico? Sono tanti i tentativi che si stanno facendo in questo senso. Uno dei più promettenti è frutto di una collaborazione tra il NICO e il Politecnico di Torino

Camminare in una foresta senza lasciare il proprio ufficio, oppure sperimentare cosa si prova su un ghiacciaio o su una nave dal proprio salotto. Sono solo alcune delle potenzialità che la realtà virtuale ci offre: per immergersi in un ambiente basta indossare un visore e guardarsi attorno. A quel punto i muri di uffici e case spariscono per lasciare spazio a alberi, neve o mare, a seconda dello scenario che si è scelto.

Utilizzatissima per i videogiochi o la sperimentazione fine a se stessa, da alcuni anni questa tecnologia sta crescendo anche in ambiti meno ludici.

Un esempio è l’uso nella didattica sperimentato all’Università di Torino. In questo caso è stata ricostruita la sala settoria dell’università. «Si tratta di un ambiente virtuale condiviso all’interno del quale fare analisi, studio e insegnamento», ha spiegato dal palco di Health for Dreamers Corrado Calì, ricercatore del NICO. Calì è un neuroscienziato e nel metaverso il suo avatar e quelli di colleghi e studenti hanno la possibilità di “navigare” all’interno di neuroni e altre strutture cerebrali che nella realtà sono grandi pochi micron, ma nel metaverso diventano molto grandi.

«Possiamo manipolare in modalità collaborativa dei dataset molto complessi», ha affermato, mostrando al pubblico quello che stava vedendo grazie al visore.

Misurare la flessibilità cognitiva

Oltre allo scopo didattico, il metaverso si può utilizzare anche per motivi di studio

«Abbiamo un progetto in collaborazione con Politecnico di Torino per una piattaforma nel metaverso tipo quella sviluppata per la didattica dove abbiamo creato un ambiente collaborativo all’interno del quale fare una sorta di escape game», afferma l’esperto a TrendSanità.

Corrado Calì durante una dimostrazione a Health for Dreamers

Il team ha sviluppato un gioco con test comportamentali per testare la flessibilità cognitiva. La volontà è di applicarlo sugli anziani per quantificare in modo oggettivo il decadimento fisiologico e per sviluppare un’esperienza che sia più collaborativa e interessante possibile per permettere agli anziani che vivono in contesti isolati di interagire virtualmente con altre persone (altri anziani, ma anche medici o specialisti).

«Per il momento la piattaforma è stata testata su giovani, perché dovevamo validare i test psicologici – spiega Calì -. A breve speriamo di coinvolgere anche gli anziani».

Sebbene il sistema sviluppato sia il più user friendly possibile e le persone coinvolte siano in salute, si prevede un affiancamento per spiegare il funzionamento del nuovo strumento. «Le persone si muoveranno all’interno di una foresta e dovranno affrontare i vari test. Tra i problemi tecnici da affrontare, quelli “tipici” della realtà virtuale: quello che riguarda la potenza computazionale degli occhiali e la riduzione dei problemi di airsickness».

Nel primo caso si tratta di capire il tipo di strumento utilizzabile: i visori collegati al computer permettono un’ambientazione più realistica perché sfruttano la potenza di calcolo del pc stesso, mentre quelli stand alone sono meno verosimili. 

Per “airsickness” si intende invece un malessere simile al mal d’auto. L’utilizzo dei visori può creare una leggera sensazione di nausea e giramento di testa legati a problemi al sistema vestibolare.

Quale futuro per la realtà virtuale

La realtà virtuale (VR) esiste dal 1957 e ha avuto alterne fortune. Negli ultimi 20 anni è diventata più accessibile e anche gli scienziati si sono incuriositi.

«Adesso la tecnologia cresce a un rate molto più alto rispetto a quella che è la sua applicazione – nota Calì -. La VR è una tecnologia che risale agli anni ‘50. Ha avuto un piccolo incremento nell’utilizzo dello sviluppo negli anni ‘90, poi si è fermato ed è di nuovo cresciuto a partire dal 2012. Io penso che nei prossimi 10 anni l’utilizzo aumenterà parecchio, pur restando ancora un po’ limitato».

Anche la classe di utilizzatori è ancora un po’ acerba: «Credo che dovremmo far maturare la classe di professionisti che stanno imparando ad utilizzare questi strumenti per poi portarli al livello successivo, facendo diventare questa tecnologia uno standard organizzativo».

Questo sarà possibile anche se, come successo negli ultimi anni, i costi continueranno a scendere: «Oggi un buon visore costa poco più di 300 euro, un prezzo accessibile per una struttura che voglia acquistarne una decina per esempio. Solo 10 anni fa l’accesso era più proibitivo: parliamo di un costo a visore che oscillava tra i 1.000 e i 5.000 euro». 

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Michela Perrone
Giornalista pubblicista