All’Università di Padova è stata individuata una nuova potenziale strategia terapeutica per la malattia di Huntington, una grave patologia neurodegenerativa di origine genetica per la quale non esistono ancora terapie efficaci. È quanto emerge dallo studio “Genome-wide screening in pluripotent cells identifies Mtf1 as a suppressor of mutant huntingtin toxicity” appena pubblicato su «Nature Communications» dal gruppo di ricerca guidato dal Professor Graziano Martello del Dipartimento di Biologia dell’Università di Padova, responsabile del Laboratorio di cellule staminali pluripotenti e finanziato dalle Fondazioni Telethon e Armenise-Harvard.
Alla base della malattia di Huntington c’è un difetto genetico che porta all’accumulo di una proteina chiamata huntingtina, che nel tempo si traduce nella morte progressiva delle cellule di specifiche zone del cervello. I sintomi iniziali possono essere bruschi mutamenti dell’umore, apatia e depressione, a cui si aggiungono disturbi progressivi dell’equilibrio e del coordinamento motorio. Il difetto genetico responsabile è noto da oltre 30 anni e, grazie al lavoro di ricercatori di tutto il mondo, sono stati chiariti numerosi aspetti del processo neurodegenerativo che ne consegue. Tuttavia, ad oggi, non disponiamo ancora di una terapia in grado di contrastarne i danni.
«Volendo usare un’analogia – spiega Graziano Martello – siamo come di fronte ai tornado: sappiamo come si formano e perché, ma non abbiamo gli strumenti per controllarne il comportamento ed evitare che causino distruzione. Traslando l’esempio su questa malattia ci siamo quindi concentrati sulla ricerca di nuovi bersagli terapeutici. Partendo dal concetto generale che tutte le nostre cellule hanno meccanismi di protezione contro diverse forme di stress, abbiamo polarizzato la nostra attenzione su alcuni geni per valutarne la funzione “protettiva” nei confronti della malattia di Huntington».
Utilizzando come modello della patologia cellule staminali cresciute in laboratorio, i ricercatori dell’Università di Padova hanno scandagliato l’intero patrimonio genetico umano alla ricerca di geni in grado di proteggere le cellule malate.
«Ne abbiamo identificato uno, chiamato Mtf1, che ha dimostrato questa capacità protettiva in diversi modelli di malattia di Huntington, quali il pesce zebra o il topo, nei quali era stata introdotta la stessa mutazione genetica responsabile della patologia nell’uomo – sottolineano Giorgia Ferlazzo, che ha dedicato il suo dottorato in Medicina Molecolare a questo progetto, e Anna Gambetta, ricercatrice e collaboratrice del professor Martello -. In entrambi i casi abbiamo visto che fornendo questo gene alle cellule, tramite vettori virali o le “istruzioni” genetiche sotto forma di RNA messaggero (mRNA), si otteneva un miglioramento o addirittura l’arresto dello sviluppo della malattia».
«Questi risultati positivi – commenta Sonia Amato, dottoranda in Neuroscienze e co-autrice dello studio – sono stati confermati anche in un modello “umano”, cioè in cellule neuronali malate ottenute a partire da cellule staminali umane ricavate da un campione donato da un paziente. Anche in questo caso Mtf1 si è dimostrato in grado di ridurre alcuni dei difetti caratteristici della malattia di Huntington: un risultato incoraggiante, che ci spinge a continuare su questa strada per sviluppare in futuro una nuova strategia terapeutica».
«La strada per arrivare a una terapia nei pazienti è però ancora molto lunga. Innanzitutto dovremo migliorare la modalità di somministrazione di questi geni terapeutici nell’uomo. Nei modelli animali abbiamo usato vettori virali o mRNA, ossia quegli strumenti diventati di uso comune per i vaccini contro il COVID-19 – conclude Graziano Martello –. Ora ci interessa capire se questi strumenti siano adeguati anche per la cura di malattie neurodegenerative. Abbiamo già brevettato la nostra scoperta e ora intendiamo fondare una start-up con la sola missione di trasformare queste scoperte scientifiche in un nuovo approccio terapeutico, colmando così il gap che esiste tra ricerca universitaria e sviluppo industriale».
Finanziato dalla Fondazione Telethon, lo studio ha visto la collaborazione di diverse università e centri di ricerca, italiani ed europei.