Si può riparare il cervello?

Parliamo di approcci rigenerativi per le malattie neurodegenerative con Annalisa Buffo, vice direttrice del Neuroscience Institute Cavalieri Ottolenghi (NICO)

È possibile riparare il cervello? Parliamo di approcci rigenerativi per le malattie neurodegenerative con Annalisa Buffo, vice direttrice del Neuroscience Institute Cavalieri Ottolenghi (NICO), in occasione dell’UniStem Day 2023 del 10 marzo, l’evento sulla scienza e sulle cellule staminali rivolto agli studenti delle scuole superiori.

Ma a che punto sono questi studi e quali prospettive aprono?

Potremmo dire in fase ancora preliminare, ma molti ricercatori ci lavorano attivamente, dunque la prospettiva è di sviluppi molto concreti. Per spiegarmi meglio posso dare un’idea di quali sono i filoni principali della ricerca in questo ambito. I meccanismi di plasticità sono uno degli aspetti ancora oggi giorno più studiati nell’ambito della ricerca fondamentale nelle neuroscienze: si studiano i meccanismi cellulari e molecolari che sostengono questi fenomeni di rimodellamento del sistema nervoso e si cerca di capire quali sono i fattori fondamentali sui quali si può fare leva. Se si è capito per esempio che l’attività dei circuiti stessi è un fattore favorente la plasticità e il recupero di funzione, segue lo sviluppo di diversi tentativi di stimolazione non invasiva del cervello stesso che servono per aprire delle finestre di plasticità e permettere ai nostri circuiti di imparare delle nuove funzioni o di potenziarne alcune magari un po’ indebolite a causa dei danni.

Altri ambiti di ricerca, sempre nell’ambito della plasticità, mirano a discriminare i fattori essenziali e più potenti, nonché specifici, che potrebbero consentire di sviluppare dei trattamenti farmacologici per potenziare questa plasticità a partire dall’evidenza che viene dagli studi cosiddetti preclinici: dalla scoperta che lo stile di vita l’esercizio fisico volontario, ma anche la dieta e oggigiorno la scoperta che anche i microbi che abitano il nostro intestino sono in comunicazione con il cervello e in qualche maniera ne influenzano la capacità di funzionare bene e di modificarsi di fronte a cambiamenti ambientali. Ecco, la ricerca vuole provare a capire se ci sono dei fattori specifici e potenti e selettivi da usare per sviluppare dei trattamenti che favoriscano la plasticità in funzione della riparazione cerebrale.

Un altro filone di ricerca è più legato alla bioingegneria e all’elettronica. Immaginiamo la situazione di un paziente tetraplegico o paraplegico che ha subito un danno, come un incidente, e ha una lesione del midollo spinale per cui ha perso la possibilità di muovere i propri arti, per esempio inferiori, comandati dagli emisferi cerebrali. Gli approcci ingegneristici costruiscono dei ponti, che sono dei dispositivi che mettono in comunicazione gli emisferi, quindi la parte del cervello che è la sede della produzione dei comandi per l’esecuzione di movimenti volontari, con il midollo spinale, che invece è una porzione del sistema nervoso che comanda più direttamente la contrazione muscolare. Questi studi sono già stati applicati anche sull’uomo, ma non sono ancora delle terapie perché questo è avvenuto solo su alcuni casi molto selezionati.

La ricerca sulle cellule staminali è esplosa negli ultimi decenni

Il terzo filone è quello che nasce dallo studio delle cellule staminali. La ricerca in quest’ambito ha avuto un’esplosione negli ultimi decenni e ha permesso di capire innanzitutto che ci sono diversi tipi di cellule staminali, ma soprattutto ne ha decifrato un po’ le proprietà. Questo ha consentito, insieme agli studi sullo sviluppo del sistema nervoso, di identificare dei “trucchi” che permettono, in provetta, di partire da una cellula staminale embrionale umana che ha tante potenzialità, cioè può diventare tante cellule del nostro corpo e, grazie all’esposizione a fattori specifici, derivare da questa cellula particolari tipologie di neuroni umani. Questo tipo di ricerche ha anche permesso di sviluppare la tecnologia di riprogrammazione, per cui noi oggi a partire da una cellula somatica, da una cellula che costituisce per esempio il mio derma, possiamo ottenere delle cellule staminali che hanno il mio patrimonio genetico o il vostro, e derivare diversi tipi di cellule del nostro corpo, inclusi i neuroni.

La ricerca ha fatto ancora di più: oggi siamo in grado di trasformare direttamente una cellula della pelle in un neurone, sempre in provetta o nel cervello vivo in alcuni modelli sperimentali. Queste scoperte rappresentano una potenzialità straordinaria e la conoscenza delle proprietà staminali ha permesso nell’ambito delle malattie neurodegenerative e delle lesioni del sistema nervoso di sviluppare due approcci diversi.

In un primo approccio, le cellule staminali sono usate come vettori di sostanze prodotte spontaneamente da queste cellule, che hanno effetti benefici quando c’è un danno nel sistema nervoso

In un primo approccio, le cellule staminali, che sono dei progenitori di cellule nervose prodotte in provetta in maniera molto controllata e selezionata oppure di altri tipi di cellule staminali, per esempio le cellule mesenchimali, sono usate come vettori di una pletora di sostanze prodotte spontaneamente da queste cellule, che hanno effetti molto benefici quando c’è un danno nel sistema nervoso. Mi riferisco a studi che, dopo molta ricerca preclinica, sono ora passati alla clinica, con la possibilità di usare per esempio dei progenitori neurali umani e delle cellule mesenchimali per rallentare la progressione di certe malattie. Ad esempio per la sclerosi multipla è già stata studiata sull’uomo in studi clinici in fase iniziale con risultati promettenti.

La seconda modalità di utilizzo delle cellule staminali è a scopo di sostituzione cellulare sempre nell’ambito delle malattie neurodegenerative. Gli antesignani in questo senso sono stati gli studiosi del morbo di Parkinson, in particolare in Europa alcuni gruppi svedesi che hanno imparato nel corso del tempo, partendo da cellule staminali umane embrionali, a produrre quei neuroni che degenerano nel morbo di Parkinson, che sono neuroni che usano come neurotrasmettitore la dopamina; e hanno imparato ad produrli così bene che hanno potuto dimostrare che il trapianto di questi neuroni, in modelli animali della malattia, produce molti benefici e ricostruisce anche la circuiteria necessaria che era stata perduta. Ora, grazie a questi studi, sono avviati tre studi clinici che utilizzano neuroni umani dopaminergici prodotti in provetta per testare la loro capacità terapeutica in pazienti in soggetti colpiti dal Parkinson. Questi tre studi sono uno europeo (appena partito), uno statunitense e uno giapponese, perché quello che l’esperienza passata ha insegnato è che lo scambio, l’interazione tra laboratori diversi nel mondo può portare a definire delle applicazioni e strategie molto più efficaci rispetto al lavoro in isolamento dei diversi laboratori.

L’obiettivo del progetto su cui lavora il NICO è mettere a punto strategie per la riparazione di reti cerebrali complesse, come quelle colpite nella malattia di Huntington

Su questa applicazione delle cellule staminali lavoriamo anche noi al NICO. La malattia che ci interessa si chiama morbo di Huntington, una malattia a base genetica che porta alla degenerazione irreversibile di neuroni presenti negli emisferi in una porzione profonda del cervello che si chiama striato. In collaborazione con Elena Cattaneo dell’Università di Milano, all’interno di un grande consorzio europeo che include dieci gruppi di ricerca, noi studiamo, ancora in fase preclinica, se e come neuroni umani striatali riescono a sopravvivere se trapiantati nel modello animale di questa malattia, se si integrano con i circuiti preesistenti, perché anche questo non è scontato, e se ripristinano le funzioni che sono state perdute.

Nell’ambito delle malattie che colpiscono il sistema nervoso le strategie di sostituzione cellulare si stanno sviluppando, ma ci sono altri ambiti in cui sono molto più avanzate: il primo farmaco costituito da cellule staminali riconosciuto in Europa, che si chiama Holoclar, permette di eseguire dei trapianti di cornea a partire dal tessuto corneale prodotto in provetta da cellule umane derivate paziente-specifico. Questo farmaco è stato riconosciuto nel 2015 come primo farmaco cellulare europeo per applicazioni di sostituzione cellulare.

Ora l’obiettivo è di produrre in provetta neuroni umani con delle proprietà in più rispetto a quelle standard dei neuroni umani

Nel mondo dei danni al sistema nervoso non siamo ancora a quel livello, ma la ricerca evolve molto velocemente, per cui ci si può aspettare delle evoluzioni importanti nei prossimi anni. Per chiarire il concetto dell’evoluzione veloce di questi aspetti della ricerca, posso dire che mentre fino a 4/5 anni fa l’obiettivo principale di tutti i ricercatori che vogliono sviluppare degli approcci di sostituzione cellulare per curare i danni del sistema nervoso e quindi la perdita dei neuroni era produrre in provetta dei neuroni umani che fossero il più simili possibile a quelli veri, ora l’obiettivo è di produrre in provetta dei neuroni umani che possano avere delle proprietà in più rispetto a quelle standard dei neuroni umani.

Si lavora cioè per sviluppare delle cellule che, per esempio, possono essere modulabili nelle loro attività, perché un paziente che riceve un trapianto di queste cellule magari in una certa fase della malattia ha bisogno che i nuovi neuroni lavorino tarati sul “livello 10”, ma può accadere che, nella progressione della malattia o nell’invecchiamento del paziente, quei neuroni, per continuare a svolgere la funzione richiesta, debbano essere tarati sul “livello 20” o sul “livello 5”, e allora lo sforzo della ricerca, come in questo esempio, è quello di produrre dei neuroni che siano in qualche maniera migliori delle cellule vere, ovvero sotto il controllo degli operatori, per incrementarne o diminuirne il funzionamento secondo gli approcci innovativi dell’idea della medicina personalizzata.

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Adriana Riccomagno
Giornalista professionista in ambito sanitario