Il cammino verso la scienza aperta è in salita

Per rendere la conoscenza scientifica disponibile per tutti la strada è ancora lunga e passa attraverso la revisione della proprietà intellettuale sulle pubblicazioni scientifiche e l’abolizione dei brevetti su alcuni farmaci salvavita, a partire dai vaccini. Questa è la proposta del movimento Open Science, che da anni si batte per una scienza aperta

Qualche settimana fa, Moderna ha annunciato che farà causa a Pfizer e BioNTech per aver violato la proprietà intellettuale sulla tecnologia alla base dei vaccini contro SARS-CoV2. Secondo l’azienda statunitense, infatti, la casa farmaceutica americana e l’azienda di biotecnologie tedesca avrebbero copiato la piattaforma tecnologica alla base del sistema dell’Rna messaggero. In un comunicato, Moderna spiega che sarebbero state due le violazioni alla proprietà intellettuale: la prima riguarda una “modifica chimica” che fa sì che il vaccino non provochi una risposta immunitaria indesiderata. Gli scienziati di Moderna l’avrebbero dimostrata per primi con esperimenti sull’uomo già nel 2015.

La seconda violazione riguarderebbe invece il modo in cui entrambi i vaccini colpiscono la proteina spike.

Nel 2021 si è discusso molto dell’opportunità di liberare dai brevetti i vaccini contro Covid-19. Questa soluzione avrebbe avuto due vantaggi immediati: la produzione sarebbe aumentata, poiché più aziende avrebbero potuto lavorare in contemporanea, e l’accesso al farmaco sarebbe stato garantito anche ai Paesi più poveri, che sono stati penalizzati dal costo dei vaccini e dalla loro disponibilità (le Nazioni occidentali hanno acquistato fin da subito grandi quantità di dosi, lasciando a bocca asciutta o quasi il resto del mondo).

Tuttavia, benché oltre 60 Paesi abbiano sostenuto questa posizione, la proprietà intellettuale è stata mantenuta, soprattutto per le perplessità sollevate dall’Unione europea e dalla Germania, secondo le quali la carenza di materie prime e di know-how avrebbe ostacolato il raggiungimento degli obiettivi, rischiando di immettere sul mercato prodotti di bassa qualità.

Questo è solo l’ultimo capitolo – quello più evidente – della lunga battaglia che alcuni gruppi stanno portando avanti a favore di una scienza aperta, dove la conoscenza sia a disposizione di tutti e non debba sottostare a logiche commerciali.

L’Open Science

L’Open Science è un movimento che si batte per una scienza aperta: a partire dal libero accesso a dati e pubblicazioni scientifiche alla revisione della proprietà intellettuale in Roberto Casoambito farmaceutico. “Con la diffusione di internet, sono aumentati gli strumenti per rendere operativa la scienza aperta. Risalgono all’inizio degli anni ‘90 i primi archivi dei pre-print come arXiv. Poi, purtroppo, il sogno di una scienza aperta si è infranto con un sistema di valutazione che accentra il potere in alcuni soggetti privati”. Roberto Caso è professore associato di Diritto privato comparato all’Università di Trento e presidente di Aisa, l’Associazione italiana per la promozione della Scienza Aperta.

Sono due i fenomeni che il movimento Open Science vorrebbe arginare: la crescita del potere degli editori delle riviste scientifiche e la tendenza a utilizzare i diritti in esclusiva.

“Oggi il mercato della comunicazione scientifica è in mano a pochi grandi gruppi che hanno costruito un business su una conoscenza che dovrebbe essere pubblica – afferma Caso – Questo ha due conseguenze immediate: un sistema di diffusione della conoscenza chiuso garantisce l’accesso solo a chi ha abbastanza risorse da permettersi di pagare gli abbonamenti. E, in seconda battuta, chi ha un potere così grande può indirizzare la ricerca, creando per esempio nuove riviste frutto di alcune “mode””.

Il presidente di Aisa sottolinea il paradosso che regge queste riviste: “Gli articoli sono proposti da scienziati, che non sono retribuiti per il loro lavoro. La peer-review è effettuata da altri ricercatori, che mettono gratuitamente a disposizione il proprio tempo. Poi, però, il frutto di tutto quel lavoro, che è stato finanziato con fondi pubblici, è aperto solo a chi può permettersi di pagare i costosi abbonamenti delle riviste”.

In un articolo comparso sul British Journal for the Philosophy of Science, gli autori suggeriscono un superamento dell’attuale modello basato sulla peer-review a favore di un sistema aperto che sfrutti gli archivi che già esistono per alcune discipline

In un articolo comparso sul British Journal for the Philosophy of Science, gli autori suggeriscono un superamento dell’attuale modello basato sulla peer-review a favore di un sistema aperto, che sfrutti gli archivi che già esistono per alcune discipline, relegando alle riviste la possibilità di offrire approfondimenti o raccolte tematiche a valle della pubblicazione dei singoli articoli.

Questa soluzione permetterebbe, tra le altre cose, di scardinare il meccanismo del “publish or perish” a vantaggio del reale impatto che una ricerca può avere sulla comunità.

“Fin dai tempi di Galilei, lo spirito critico nasce dalla discussione rispetto a quanto viene pubblicato. Un sistema che abolisca la peer-review a favore dell’uso di repository pubbliche permetterebbe di recuperare questo aspetto: la comunità scientifica potrebbe reagire – molto più di quanto faccia oggi – alla pubblicazione dei diversi studi che, essendo slegati da logiche commerciali, potrebbero essere inferiori numericamente rispetto a oggi, ma relativi alla buona ricerca”, sostiene Caso.

I brevetti

Fino al 1978, in Italia non esisteva la proprietà intellettuale in ambito farmaceutico e chiunque poteva realizzare il proprio prodotto galenico, copiando qualcosa che già esisteva. Il brevetto nasce proprio per stimolare l’innovazione e la ricerca: aziende e medici non devono più limitarsi a replicare qualcosa che già esiste, ma cercare di migliorarlo e trovare nuove soluzioni.

A dispetto delle aspettative, però, in Italia i brevetti non hanno portato ai risultati sperati: come ricorda il farmacologo Silvio Garattini nel suo libro “Brevettare la salute?”, in Italia dal 1978 in poi non sono avvenute grandi scoperte e, dai primi anni 2000, quasi tutti i laboratori di ricerca preclinica delle aziende si trasferiscono altrove, in Nazioni meno costose, con una burocrazia più leggera e un maggior supporto alla ricerca scientifica.

A essere brevettato non è solo il principio attivo, ma anche alcune tecnologie necessarie per produrre un farmaco. Può così succedere che, allo scadere dei vent’anni, non sia possibile per altre aziende produrre un farmaco generico perché mancano dei passaggi fondamentali

Oggi i brevetti garantiscono un monopolio alla casa farmaceutica che ne è titolare, che spesso dura ben oltre i vent’anni previsti: a essere brevettato, infatti, non è solo il principio attivo, ma anche una serie di tecnologie necessarie per produrre un farmaco. Può così succedere che, allo scadere dei due decenni, non sia possibile per altre aziende produrre un farmaco generico perché mancano alcuni passaggi fondamentali.

A distanza di alcuni decenni dalla loro introduzione, poi, i brevetti non sembrano essere quel motore per l’innovazione auspicato: la rivista indipendente “Prescrire International” ogni anno classifica i farmaci approvati nell’Unione europea in base alle loro caratteristiche innovative. Nel 2021, su 108 sostanze approvate, solo 17 hanno dimostrato un vantaggio terapeutico. Il trend è in leggero aumento rispetto agli ultimi dieci anni, grazie alla tecnologia dell’mRna. Gli autori dell’indagine sottolineano però che, negli altri casi, si tratta soprattutto di adattamenti di farmaci esistenti.

Il meccanismo di tutela della proprietà intellettuale serve soprattutto per garantire all’industria un ritorno sull’investimento effettuato: decenni di ricerca (svolta dall’azienda farmaceutica o, più spesso, da piccole biotech o da università pubbliche) vengono ripagati nel momento in cui un farmaco ottiene l’autorizzazione per essere immesso sul mercato.

Sebbene oggi sembri complicato scardinare questo sistema, ci sono alcuni esempi alternativi che hanno dimostrato buoni risultati. Uno è italiano: “L’istituto Mario Negri di Milano ha scelto di non brevettare le proprie ricerche – ricorda Roberto Caso – Questo serve per evitare conflitti d’interesse, ed essere più liberi”. Un secondo modello per perseguire l’Open Science arriva invece dal Canada: “Qui Richard Gold e i suoi collaboratori hanno attuato una sorta di Creative Commons per quanto riguarda i beni biologici e biomedici, rinunciando ai brevetti e al controllo dei dati della ricerca di base in campo neurologico, per poter mettere queste informazioni a disposizione di tutti. Il modello è un buon compromesso perché prevede il coinvolgimento di privati, ma a valle del processo di ricerca”.

Entrambe queste soluzioni hanno potuto essere attuate grazie a una consistente donazione privata iniziale, ma sono spunti interessanti da cui partire per ragionare su modelli alternativi di proprietà intellettuale.

Gli aspetti legislativi

“L’Unione europea ha ben presente il problema dell’Open Science e sta producendo una serie di studi a questo proposito – afferma Caso – Non si tratta di un’istituzione chiusa: il dibattito sulla proprietà intellettuale è vivace. La Carta di Nizza, il documento che stabilisce i diritti fondamentali dell’Unione, contiene però al suo interno un richiamo esplicito alla proprietà intellettuale, cosa che per esempio non abbiamo nella Costituzione italiana. Questo è indicativo della direzione che, almeno all’epoca, l’Ue ha deciso di abbracciare”.

A livello nazionale, invece, è stato pubblicato il Piano nazionale della scienza aperta, un documento programmatico che individua 5 “assi di intervento” per favorire l’attuazione della scienza aperta nel nostro Paese:

Aisa, che è nata nel 2015, fin da subito ha portato avanti due battaglie: la modifica al diritto d’autore delle pubblicazioni scientifiche e il vaccino libero

– le pubblicazioni scientifiche

– i dati della ricerca

– la valutazione della ricerca

– la partecipazione

– l’apertura dei dati della ricerca su SARS-CoV-2 e Covid-19

Aisa, che è nata nel 2015, fin da subito ha portato avanti due battaglie: la modifica al diritto d’autore delle pubblicazioni scientifiche e il vaccino libero. “Nel primo caso abbiamo proposto, sulla scorta di quanto già introdotto in altri Paesi europei, il diritto di ripubblicazione dei propri scritti in modalità aperta, su una repository istituzionale”, spiega Caso. Secondo questa impostazione, gli studi sarebbero comunque pubblicati sulle riviste scientifiche, ma gli autori potrebbero, qualora lo desiderassero, mettere a disposizione di tutti questa conoscenza, magari a distanza di alcuni mesi dalla pubblicazione iniziale . “I ricercatori non sono pagati per pubblicare sulle riviste scientifiche, quindi non è chiaro in che cosa consista la cessione del diritto d’autore all’editore – evidenzia Caso – Chiaramente questa modalità comporterebbe investimenti da parte della università e dei centri di ricerca per costruire archivi open”.

Una versione light di questa proposta è stata presentata al Senato dal deputato del Movimento 5 Stelle Luigi Gallo nel marzo 2019: “La discussione purtroppo si è arenata e la questione è rimasta lettera morta”, sospira Caso.

Sui vaccini, invece, la proposta di Aisa è liberare alcuni farmaci salvavita da brevetto, vaccini in primis: in questo modo si garantirebbe la produzione a tutto il pianeta e si salvaguarderebbe l’accesso anche da parte dei Paesi non occidentali. “Con il Covid abbiamo visto che Cuba è riuscita a sviluppare un farmaco per immunizzare la sua popolazione che, sebbene sia prodotto con tecnologie più tradizionali rispetto a quelle a Rna, è riuscito a proteggere gli abitanti dell’isola. Questo vaccino è nelle mani della sanità pubblica. È vero che i cubani sono un numero limitato, quindi più gestibile, ma è sicuramente un esempio cui guardare con interesse. La verità – conclude Caso – è che per provare a cambiare il mondo occorre innanzitutto riuscire a immaginare che può esistere un mondo diverso”.

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Michela Perrone
Giornalista pubblicista