Per la futura sanità territoriale è fondamentale la formazione dei medici

La sanità territoriale in Italia affronta una sfida cruciale. Nonostante le risorse allocate dal PNRR, il cambiamento è ancora lontano. La formazione dei medici di medicina generale richiede un core curriculum omogeneo e competenze digitali

Il DL Enti Pubblici proroga fino al 31 dicembre 2026 la facoltà delle singole regioni o province autonome di elevare, portandolo fino a 1.000 (invece che fino a 850), il numero massimo di assistiti in carico presso i medici di medicina generale aventi anche nell’ambito del ruolo unico dell’assistenza primaria un incarico ad attività oraria di 24 ore settimanali.

“La sanità territoriale è all’ennesimo banco di prova”. A dirlo è Manuela Petino, Coordinatrice del Dipartimento di Medicina Generale del Segretariato Italiano Giovani Medici (S.I.G.M.). “Lo ripetiamo da tempo, eppure il cambiamento è a più di un passo dall’essere attuato, nonostante una parte cospicua delle risorse del PNRR sia dedicata allo sviluppo della rete dei servizi territoriali”.

In base a quanto definito dalla Missione 6 Salute del Piano, le Case di Comunità e gli Ospedali di Comunità costituiscono il luogo di cura deputato a fornire l’assistenza sanitaria di prossimità in virtù di un approccio multidisciplinare che includa anche interventi di carattere sociale e di integrazione sociosanitaria. L’auspicio è che non rappresentino un modello meramente strutturale ma che siano realmente in grado di dare risposta ai rinnovati e crescenti bisogni di salute della popolazione nel contesto di un servizio sanitario gravato dalla sempre maggiore prevalenza delle patologie croniche e delle multi-morbilità, dalla carenza di personale, dalla scarsa integrazione tra ospedale e territorio e dal conseguente sovraccarico dei Pronto Soccorso.

La sfida che le Cure Primarie devono affrontare ormai da tempo è quella di fornire risposte adeguate a bisogni di salute sempre più complessi, che richiedono una presa in carico globale dei pazienti cronici e fragili attraverso il passaggio da un modello ‘ospedalocentrico’ ad un modello assistenziale proattivo e interdisciplinare che abbia quale fulcro le cure primarie e quale regista il medico di medicina generale.

Il progetto delle Case di Comunità presuppone, pertanto, una riforma in toto dell’assistenza sanitaria territoriale, a partire dalla formazione dei medici di medicina generale.

Per formare un medico di famiglia servono almeno dieci anni ed un percorso formativo all’altezza

Per formare un medico di famiglia servono almeno dieci anni ed un percorso formativo all’altezza, incentrato su un core curriculum omogeneo sul territorio nazionale che tenga conto delle competenze specifiche necessarie, incluse le competenze nel campo della digitalizzazione, altro pilastro centrale all’interno del Piano di riforma.

È sempre più un problema anche di numeri. Strettamente connesso alla realizzazione delle Case di Comunità e all’applicazione ed implementazione dei nuovi modelli sul territorio è il nodo del personale. Quali investimenti sulle figure che saranno impiegate all’interno di queste strutture?

I medici di famiglia stanno diminuendo in modo preoccupante. L’allarme è ormai chiaro, da tutte le Regioni, e i dati sono fortemente significativi a riguardo. Ne mancano quasi 2900 ed entro il 2025 ne perderemo oltre 3400. Ondata pensionistica, ricambio generazionale disomogeneo e altalenante, scarsa attrattività per la professione, mancata programmazione, crescente complessità dei fabbisogni di salute e della gestione del lavoro.

Le criticità, evidenti ormai da anni, sono emerse drammaticamente durante la pandemia scoperchiando da un lato le falle dell’assistenza territoriale e dall’altro la necessità di un piano di riforma non più procrastinabile. Il PNRR, e con esso il DM 77/2022 (Regolamento recante la definizione di modelli e standard per lo sviluppo dell’assistenza territoriale nel Servizio sanitario nazionale), chiede che le Istituzioni agiscano concretamente in questa direzione.

L’Italia è uno dei pochi Paesi in Europa a non avere un percorso di tipo accademico in medicina generale

Da anni come rappresentanti dei giovani medici sosteniamo che tra gli obiettivi da raggiungere vi sia il rinnovamento, in primo luogo culturale e scientifico, e quindi organizzativo e strutturale, della medicina generale, rimasta ancorata ad un modello formativo anacronistico, non universitario, frammentato in corsi regionali estremamente disomogenei e poco professionalizzanti”, afferma Petino. Si tratta, peraltro, di un caso isolato, dal momento che l’Italia è uno dei pochi Paesi in Europa a non avere un percorso di tipo accademico in medicina generale.

È necessaria una medicina territoriale in grado di rispondere ai bisogni del paziente, centrando la propria pratica quotidiana sulla promozione della Salute e sulla medicina di prossimità, vicina ai pazienti e alla loro realtà, anche familiare e sociale.

È fondamentale che il ricambio generazionale in atto diventi un’opportunità per superare vecchie logiche e costruirne di nuove, attraverso un dialogo costante tra i professionisti della salute e tra di essi e le Istituzioni, su un piano che sia culturalmente e deontologicamente più alto della banale contrattazione sindacale.

Ancora, è necessaria una medicina territoriale non chiusa in sé stessa, deburocratizzando la gestione dell’ambulatorio e recuperando competenze cliniche di alto spessore. Perché capacità di analisi, sintesi e ricerca sono essenziali per un medico che lavorerà a contatto con l’estrema eterogeneità del territorio, che richiede una formazione adeguata sin dal percorso universitario, nel quale invece, attualmente, l’insegnamento della medicina generale e delle cure primarie è spesso relegato a brevi moduli all’interno di altri settori disciplinari o addirittura assente.

Conclude Petino: “Come possiamo pensare di credere ancora in un Sistema Sanitario Pubblico, universalistico ed accessibile a tutti, se non a partire dalla medicina territoriale? Gli scenari epidemiologici e sociosanitari stanno cambiando: il numero di persone anziane affette da patologie croniche è sempre più alto, i nuclei familiari si snelliscono, spesso gli anziani vivono da soli, in RSA o muoiono in ospedale. Il tradizionale approccio si è rivelato fallace”.

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Carmine Iorio
Laureato in Farmacia. Dottorando in Etica della Comunicazione, della ricerca scientifica e dell’innovazione tecnologica, Università degli Studi di Perugia