Il percorso di cura del paziente cardiologico, tra ospedale e territorio

La gestione integrata di questa tipologia di pazienti rappresenta una sfida della nuova sanità, tra PNRR e DM 77. Ne parliamo con Mattia Altini (Direttore Assistenza ospedaliera Regione Emilia Romagna), Fabio Pieraccini (Responsabile Farmacia Ospedaliera, Osp. Morgagni e Bufalini) e Marcello Galvani (Direttore UO Cardiologia, Osp. Morgagni, Forlì)

Il percorso del paziente tra ospedale e territorio in cardiologia richiede la collaborazione di diversi professionisti sanitari, che lavorano in sinergia per garantire la migliore assistenza possibile al paziente.

La gestione integrata del paziente cardiologico, che prevede un’attenzione costante alle sue esigenze a livello ospedaliero e territoriale, rappresenta una delle sfide più importanti dell’assistenza sanitaria moderna, resa ancora più attuale dalla riforma della sanità territoriale che si sta sviluppando a seguito del Pnrr.

Raccogliamo qui l’esperienza della Regione Emilia-Romagna, nella quale sono state condotte esperienze pilota di gestione del paziente con infarto recente o eventi cardiovascolari multipli, coinvolgendo alcuni referenti regionali che si occupano di scelte di politica sanitaria, accesso e distribuzione del farmaco e clinica: Mattia Altini (Direttore dell’Assistenza ospedaliera della Regione Emilia Romagna), Fabio Pieraccini (Responsabile Farmacia Ospedaliera dell’Ospedale Morgagni di Forlì e del Bufalini di Cesena) e Marcello Galvani (Direttore Unità Operativa di Cardiologia, Ospedale Morgagni, Forlì).

Intervista a Mattia Altini, Direttore dell’Assistenza ospedaliera della Regione Emilia Romagna

In base alla sua esperienza, come si può definire un percorso ottimale di gestione del paziente cardiologico tra ospedale e territorio, per agevolare la corretta presa in carico degli episodi acuti ma anche il successivo follow up in modo da favorire la cura del paziente nel distretto più vicino?

Per iniziare dobbiamo chiederci per quale motivo stiamo lavorando sugli approcci di prossimità territoriale. La nostra idea si rifà a Muir Gray, al tema del valore: stiamo lavorando per collocare il bisogno del cittadino nel luogo giusto di cura e con l’asset professionale più adeguato. Perché il rischio, che abbiamo già corso nel passato, è quello di usare sempre la portaerei per far atterrare anche dei piccoli Cessna: fuor di metafora, la risposta ospedaliera può essere a volte sovradimensionata rispetto ad un bisogno che potrebbe essere gestibile in un altro ambito.

Stiamo lavorando per collocare il bisogno del cittadino nel luogo giusto di cura e con l’asset professionale più adeguato

L’idea che i nostri professionisti ospedalieri, insieme ai territoriali, in un approccio da microreti professionali, riescano a collocare la risposta al bisogno giusto in ambito territoriale significa semplificazione, prossimità. Questo, dal nostro punto di vista, attraverso i percorsi significa identificare quali sono le attività che possono essere svolte sull’ambito territoriale e, conseguentemente, da chi possano essere svolte.

Il tema che noi affrontiamo è: fino a dove arriva la medicina generale? Fino a dove arrivano le cure primarie? E dove è necessario un approccio specialistico? In questo senso, stiamo costruendo dei modelli di “movimentazione professionale” per rispondere a questo bisogno.

In Regione Emilia-Romagna la rete delle Case della Salute è già molto strutturata. Come noto, con il Pnrr e la riforma del DM 77 dalle Case della Salute si passa alle Case di Comunità, nell’ottica del miglioramento della qualità e di un approccio sempre più integrato.  Implementare un percorso di gestione del paziente cardiologico all’interno delle Case di Comunità, con competenze ad hoc e in prossimità del paziente, quali benefici può generare per il paziente e per il sistema nel suo complesso? L’ottimizzazione del percorso potrebbe avere riscontri positivi in termini di maggiore capillarità dei servizi e migliore appropriatezza dell’accesso alle strutture sanitarie (es. Pronto Soccorso o Casa di Comunità)?

Per il Servizio sanitario, utilizzare al massimo valore le proprie risorse professionali, tecnologiche e strutturali significa sostenibilità

Per il Servizio sanitario, utilizzare al massimo valore le proprie risorse professionali, tecnologiche e strutturali significa sostenibilità. Se tutte le volte che è necessario verificare il follow-up di un paziente, ad esempio nell’ambito del percorso di neoplasia o per le terapie ipolipemizzanti, lo costringo a recarsi in ospedale, magari percorrendo 100 km, con la necessità di coinvolgere per l’assistenza un familiare che deve rinunciare ad un giorno di lavoro, inquinando il pianeta, questo non genera valore ma disvalore.

Quindi, l’approccio che stiamo immaginando per il Sistema sanitario vuol dire usare bene le risorse della collettività, per il cittadino vuol dire prossimità di cura, semplicità, minor coinvolgimento dell’asset familiare, più facilità nell’accesso ai servizi e forse anche più rapidità.

Su quali aree terapeutiche state immaginando questi percorsi, e quali sviluppi vedete?

Noi abbiamo una lunga tradizione di PDTA e percorsi clinici a tutto tondo, relativi all’ospedale e al territorio. Chiaramente questi percorsi erano stati pensati in un’epoca nella quale la risposta territoriale aveva delle caratteristiche di minore intensità. Ora li stiamo ripensando alla luce del DM 77 e stiamo lavorando su tutte le cronicità (diabete, scompenso cardiaco, oncologia): cioè su tutto ciò che ha bisogno di un intervento sistematico, ripetitivo nel tempo e che vorremmo raccordare tra la medicina territoriale e quella ospedaliera, in un approccio più “da concerto” che “da solista”.

Intervista a Fabio Pieraccini, Responsabile Farmacia Ospedaliera dell’Ospedale Morgagni di Forlì e del Bufalini di Cesena

Dal punto di vista della farmacia ospedaliera, quali sono le criticità della gestione del paziente cardiologico tra ospedale e territorio e con quali strumenti potrebbero essere superate?

Per fare fronte alle “nuove epidemie”, come l’OMS definisce le cronicità, si affacciano nuove parole d’ordine – assistenza multidimensionale e multiprofessionale, globalità dei bisogni, gestione proattiva – che impongono di ripensare l’organizzazione dei servizi.

Le maggiori criticità si registrano durante le transizioni di cura del paziente, e anche in questo il farmacista ospedaliero può contribuire a ridurre le frammentazioni che spesso si riscontrano nel percorso

Da ciò, anche nella gestione delle terapie croniche del paziente cardiologico tra ospedale e territorio, l’esigenza di rivisitare criticamente i percorsi assistenziali e di sperimentare nuove formule organizzative dell’assistenza basate sul concreto affermarsi di una gestione integrata, costruita sulla falsa riga di percorsi assistenziali condivisi che mettano in luce e valorizzino i contributi delle varie componenti professionali lungo il continuum di cura del paziente. Le maggiori criticità si registrano durante le transizioni di cura del paziente, e proprio per questo anche il farmacista ospedaliero può contribuire a ridurre le frammentazioni che spesso si riscontrano nel percorso assistenziale agendo da interfaccia tra professionisti ospedalieri e territoriali nella continuità dei trattamenti farmacologici.

Inoltre, un maggior coinvolgimento del farmacista ospedaliero nella governance con un approccio sistemico e integrato di tipo “disease management” consente di mettere in luce anche aspetti critici legati ad una non corretta assunzione delle terapie prescritte.

Una gestione maggiormente rivolta al territorio, ad esempio per il rinnovo della prescrizione o per la distribuzione dei farmaci, potrebbe andare incontro alle esigenze di questi pazienti, favorendone un accesso più appropriato alle strutture e una maggiore capillarità della cura?

Per alcuni farmaci di prescrizione specialistica ormai consolidata è necessario definire una rete tra ospedale e territorio per garantire maggiore prossimità delle cure ai pazienti.

In particolare per i pazienti in terapia da più tempo e stabili. A tal proposito risulta molto utile anche il coinvolgimento degli specialisti territoriali per allargare la possibilità di prescrizione anche a chi sta sul territorio. Nella nostra Azienda tale modalità è stata avviata per alcune categorie di pazienti tra cui il paziente cardiologico.

Probabilmente anche a seguito della pandemia, oggi sempre più ci si orienta verso queste modalità di presa in carico del paziente che riducono gli accessi agli ospedali favorendo percorsi territoriali coinvolgendo anche i medici di medicina generale come è stato fatto per le note AIFA 97, 99, 100. In futuro, come previsto anche nel PNRR e DM 77, dovranno svilupparsi strutture di cure intermedie come case di comunità, ospedali di comunità per dare una risposta concreta e di prossimità soprattutto ai pazienti con patologie croniche.

PNRR e DM 77 prevedono lo sviluppo di strutture di cure intermedie sul territorio e anche il processo di erogazione del farmaco deve seguire questa logica di orientamento

Analogamente anche il processo di erogazione del farmaco deve seguire questa logica di orientamento.

Una modalità che consente di poter erogare capillarmente sul territorio medicinali con prescrizione specialistica per terapie ormai consolidate a pazienti stabili è certamente la distribuzione per conto (DPC) perché consente di garantire sia l’aspetto economico del farmaco “ospedaliero” ad alto costo sia appropriatezza e sicurezza di impiego se effettuata con criterio, adeguata formazione ai farmacisti territoriali e una rete informativa efficiente delle prescrizioni specialistiche.

Quali cambiamenti potrebbero essere necessari per la farmacia ospedaliera, anche in termini di risorse e competenze?

L’approccio farmacologico al paziente cardiologico oggi ha necessità di specifiche competenze anche da parte del farmacista ospedaliero sia nella fase di implementazione di nuovi protocolli terapeutici innovativi ma anche per valutazioni di “farmacoutilizzazione” di real life molto utili per stabilire e verificare come viene impiegata la “risorsa farmaco” soprattutto nei trattamenti cronici.

È necessario sviluppare e promuovere momenti formativi dedicati e integrati con gli specialisti di branca finalizzati all’aderenza terapeutica e alla “medication review”.

Per questo è necessario sviluppare e promuovere momenti formativi dedicati ed integrati con gli specialisti di branca finalizzati all’aderenza terapeutica e anche alla “medication review”. Recenti dati sull’impiego dei farmaci ipolipemizzanti confermano che circa l’80% dei pazienti a più alto rischio non raggiungono i target terapeutici e proprio su questo dobbiamo interrogarci per capire meglio dove agire e dove migliorare i percorsi di presa in carico di questi pazienti.

È necessario trovare il modo adeguato per raggiungere tutti i pazienti a rischio attraverso una rete ospedale territorio che coinvolga tutti i professionisti sanitari compresi i farmacisti anche in percorsi di medicina di iniziativa e in programmi di prevenzione.

Intervista a Marcello Galvani, Direttore Unità Operativa di Cardiologia, Ospedale Morgagni, Forlì

Quali sono le criticità della gestione del paziente cardiologico tra ospedale e territorio e con quali strumenti si potrebbero superare?

La presa in carico dei pazienti dimessi implica che i pazienti considerati stabili in un arco temporale definito vengano affidati per il follow up successivo al territorio

La mia prima considerazione riguarda le risorse disponibili che, nel caso dell’ospedale, sono fisse. È facile che, nel tempo, per una serie di fattori, molti dei quali anche noti, possano addirittura ridursi piuttosto che aumentare. Essendo le risorse fisse ed essendo la possibilità di visitare i pazienti in maniera adeguata legata al tempo necessario per valutarli, è evidente che l’ospedale ha la possibilità di seguire nel tempo solo un limitato numero di pazienti. Ciò è destinato ad accadere nonostante le malattie cardiovascolari stiano riducendo il loro impatto epidemiologico.

Come doverosamente deve essere fatto, la presa in carico dei pazienti dimessi implica che i pazienti considerati stabili in un arco temporale definito vengano affidati per il follow up successivo al territorio.

Ad esempio, il percorso di cura della malattia coronarica prevede che venga assicurato un controllo a 30 giorni e successivamente un controllo ad un anno, anche se quest’ultimo può essere effettuato da figure professionali differenti (Cardiologo ospedaliero vs. Cardiologo del territorio) a seconda del contesto organizzativo. Il controllo a un anno ha infatti un particolare significato poiché rappresenta il momento nel quale si decide se passare da una terapia orientata alla fase post acuta (in particolare la doppia anti-aggregazione piastrinica) a una fase più cronica che può prevedere o meno il prolungamento della terapia antitrombotica.

Questo snodo è fondamentale per decidere quali pazienti eventualmente il cardiologo ospedaliero debba continuare a tenere in carico, perché giudicati più gravi e quindi destinati a una terapia rinforzata e prolungata, e quali invece essendo più stabili possono essere indirizzati al medico di medicina generale.

Il secondo aspetto è legato agli obiettivi di riduzione di colesterolo LDL che devono essere perseguiti per ottenere i migliori esiti clinici a distanza. A questo proposito è importante che la misurazione dei lipidi, in particolare del colesterolo LDL, venga effettuata con una tempistica adeguata a decidere quale tipo di terapia è opportuna.

In che modo voi cardiologi ospedalieri che avete sempre gestito in prima persona i pazienti nella loro cronicità, potete collaborare efficacemente con i colleghi territoriali trasferendo la vostra expertise, al fine di essere più “liberi” per gestire il paziente acuto? E quindi efficientare le risorse umane della vostra struttura?

Il numero dei cardiologi territoriali è scarso e molto eterogeneo a seconda dei luoghi

Innanzitutto dobbiamo cominciare a definire che cos’è il territorio, cioè quali sono le figure professionali che agiscono sul territorio. Considerando i problemi cardiologici che richiedono attenzioni a lungo termine, dovremmo parlare di cardiologi territoriali, e qui c’è un primo problema. Lo vediamo anche all’interno della nostra Regione: il numero di questi professionisti è scarso, in assoluto, e comunque eterogeneo a seconda dei luoghi. Certamente una adeguata specialistica sul territorio risolverebbe molti di questi problemi soprattutto se, come di regola già accade da noi, al cardiologo territoriale è trasferita anche la possibilità di prescrivere autonomamente i farmaci che sono soggetti a Piano Terapeutico. Questa sarebbe la soluzione ottimale che però difficilmente è realizzabile.

Nella realtà, diventa centrale il ruolo delle Case di Comunità e di coloro che operano o opereranno al loro interno.

In generale, quello che voglio sottolineare è la necessità che i nuovi modelli organizzativi non puntino esclusivamente sul medico di medicina generale ma lo vedano piuttosto come un coprotagonista.

Il cardiologo che vede a un anno di distanza dall’evento coronarico acuto il paziente deve esplicitare in modo formale quello che ritiene essere il destino successivo di questo paziente. Che deve essere diverso a seconda delle condizioni: se, per una serie di ragioni, ad esempio il fatto che la disfunzione cardiaca conseguente all’infarto rimane rilevante e quindi il paziente deve essere seguito per prevenire l’evoluzione verso lo scompenso cardiaco, oppure se la situazione coronarica è stata “aggiustata” ma non risolta, orbene questa tipologia di pazienti è opportuno continui ad essere seguita dal cardiologo ospedaliero.

I nuovi modelli organizzativi non dovrebbero puntare esclusivamente sul medico di medicina generale ma dovrebbero vederlo come un coprotagonista

Per il paziente che invece viene considerato stabile è necessaria maggiore chiarezza, ovvero se, come abbiamo fatto fino ad ora, debba essere riaffidato alle cure del medico di medicina generale o se, al contrario, alla luce di questi nuovi modelli organizzativi che dovrebbero essere operativi in un tempo ragionevolmente breve, quali siano le figure professionali più adatte, infermieristiche da un lato e mediche dall’altro, a prenderlo in carico.

In termini di risorse e competenze quali cambiamenti potrebbero essere necessari per implementare in maniera efficace questo percorso?

Vorrei esporre una mia opinione che va al di là della prevenzione secondaria estendendosi anche alla prevenzione primaria delle malattie cardiovascolari.

Le Case di Comunità, dotate del necessario personale medico e infermieristico, possono diventare il luogo che garantisce l’aderenza non solo alle terapie ma anche alle iniziative di prevenzione

Se questo modello basato su Case di Comunità e presenza infermieristica al loro interno diventa una realtà diffusa e omogenea, cioè fornisce veramente la garanzia di una equità di accesso alla cura per tutti i cittadini, diventando il luogo ideale dove, da un lato, continuare a seguire il paziente che già ha avuto un evento cardiovascolare ma, dall’altro lato, identificare il paziente a più alto rischio cardiovascolare. E in questo caso il lavoro del medico di medicina generale risulta fondamentale, pur richiedendo un salto di qualità. E la casa di comunità può diventare il luogo che garantisce l’aderenza alle cure di prevenzione, in particolare l’aderenza a terapie per riduzione del colesterolo LDL che, come sappiamo, vengono assunte malvolentieri e in maniera erratica da chi ha già avuto un evento cardiovascolare, ed ancor di più da chi non l’ha avuto.

L’aderenza alla cura potrebbe essere perseguita e garantita proprio attraverso l’azione infermieristica all’interno delle case della comunità, dopo una corretta selezione del paziente da parte del medico di medicina generale.

Questo modello potrebbe assumere un valore concreto se, per questi pazienti a rischio molto alto o estremo, la scelta fosse la somministrazione periodica e per via iniettiva dei potenti farmaci più potenti (inibitori PCSK9 e SIRNA) ora disponibili.

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Rossella Iannone
Direttrice responsabile TrendSanità