L’accesso a cure e assistenza sanitaria rappresenta un onere sempre più gravoso per i cittadini e le famiglie italiane. Da un lato la difficoltà di accedere a prestazioni e servizi come conseguenza della pandemia. Dall’altro la rinuncia obbligata a causa dell’insostenibilità economica di quanto non è coperto dal Ssn o per l’inadeguatezza dell’offerta. Con ricadute pesanti sui caregiver.
A valle dei primi due anni della pandemia si iniziano a fare i primi bilanci delle conseguenze sul rapporto fra cittadini e sanità. Ciò che emerge è un generale aumento della difficoltà che le famiglie incontrano nell’accedere a servizi e prestazioni sanitarie, per ragioni economiche, burocratiche e di inadeguatezza dell’offerta, che non sempre corrisponde ai bisogni di chi sta male. Specialmente in terza età. Lo evidenziano due indagini: “La cura che (ancora) non c’è” di Cittadinanzattiva e il “Bilancio welfare delle famiglie italiane 2022” del Cerved.
Le cose che non funzionano
A seguito della pandemia il 52,4% dei pazienti ha indicato a Cittadinanzattiva che le criticità legate a diagnosi e cura sono aumentate. E, in particolare, quattro cittadini su dieci rilevano che ciò si manifesta soprattutto quando si deve effettuare una visita specialistica. Il motivo? Ambulatori chiusi che si traducono in liste d’attesa più lunghe del solito, anche quando si tratta di esami diagnostici e di ricoveri. Per non parlare del ritardo nel potersi sottoporre a interventi chirurgici, sperimentato da un terzo dei cittadini.
Note negative vengono segnalate anche per l’assistenza domiciliare integrata, non solo farraginosa per il 34% di chi ne deve usufruire, ma anche peggiorata per il 70% di essi rispetto a prima del Covid.
Tra le cose che lasciano a desiderare anche i tempi di autorizzazione e rinnovo per presidi, protesi e ausili che rendono il loro ottenimento da chi ne ha bisogno più difficile nel 70% dei casi.
Ciò che va bene
Non tutto però è da criticare. Secondo le associazioni di pazienti intervistate da Cittadinanzattiva una nota positiva merita il capitolo telemedicina, i cui servizi e programmi sono migliorati per il 58% di esse, proprio a seguito delle esigenze contingenti conseguenti alla pandemia stessa.
Inoltre, dopo il periodo più difficile del 2020, è segnalata anche la ripresa dei programmi di prevenzione della salute. Dalle vaccinazioni di routine per i bambini a quelle per gli adulti, passando per le attività di screening programmati, le cui segnalazioni di fermo passano dal 38% del 2020 al 32% del 2021.
Il nodo dei costi e la rinuncia alle cure
Le criticità di accesso alle diverse prestazioni per la salute non sono, purtroppo, le uniche a essere evidenziate dai cittadini. L’altro scoglio da affrontare quando si sta male sono i costi da sostenere quando esami, visite e cure non sono previste dal Ssn. O quando è necessario diventare solventi per avere tempistiche più celeri.
Cittadinanzattiva denuncia che il 45% dei pazienti paga di tasca propria quotidianamente l’acquisto di parafarmaci e integratori perché non rimborsati e che 4 cittadini su dieci mettono mano al portafoglio per visite private o esami diagnostici (33%). Lamentando anche un incremento dei costi per tutte queste prestazioni rispetto all’era pre-Covid. Tutti fattori che portano a una conseguenza particolarmente grave: secondo l’indagine dell’associazione civica, una persona su cinque è costretta a rinunciare alle cure perché troppo costose rispetto alle proprie disponibilità economiche. Sulla stessa linea l’analisi del Cerved che rileva come la rinuncia alle cure sia riportata da oltre la metà delle famiglie italiane (50,2%): nel 13,9% dei casi queste rinunce sono state rilevanti e nel 57% hanno riguardato i servizi di assistenza agli anziani.
Alcuni dati aiutano a comprendere l’entità dell’ostacolo che si para davanti ai cittadini, non solo a quelli meno abbienti: la retta per le Rsa può arrivare a 60mila euro all’anno, una badante ne costa 25mila e sono settemila i costi da sostenere in proprio per le protesi e gli ausili che non sono “passati” dalla mutua.
Anche senza considerare i casi-limite, la spesa media per i servizi di welfare (che includono anche quelli per l’istruzione dei figli) affrontati dalle famiglie italiane è molto importante: 5.317 euro all’anno, che incide per il 17,5% sul reddito familiare netto secondo i calcoli del Cerved. Che sottolinea come la spesa di welfare delle famiglie – 136 miliardi di euro nel 2021 – varia più rapidamente del Pil: +6,8% dal 2017 al 2018, -14,6% dal 2018 al 2020, +11,4% nel 2021. Con un trend di continua crescita nel settore salute, da 33,7 miliardi nel 2017 a 38,8 nel 2021 e in quello dell’assistenza agli anziani, 25,3 miliardi (2017) – 29,4 miliardi (2021).
Commenta Andrea Mignanelli, amministratore delegato di Cerved: “L’industria del welfare è un settore trainante per la crescita del Paese. Ai 136,6 miliardi di spesa delle famiglie si aggiungono 21,2 miliardi del welfare aziendale e collettivo, per un valore pari al 9% del Pil. Gli investimenti pubblici e privati sono decisivi per rinnovare il nostro sistema di welfare, generando nuovi modelli di servizio capaci di rispondere alla domanda delle famiglie. Con il nostro Rapporto abbiamo voluto dare un contributo concreto per misurare la domanda di servizi, nel momento in cui con il Pnrr abbiamo le risorse per proiettare nel futuro il nostro sistema di welfare”.
Eppure, nonostante le difficoltà oggettive e pratiche e quelle economiche, la famiglia in senso lato continua a rimanere il principale paracadute che esprime la solidarietà intergenerazionale degli italiani.
Caregiver: tutto sulle loro spalle
Il riflesso di una sanità sempre più costosa per le tasche dei malati si ripercuote sulla figura di chi se ne prende cura: il famoso caregiver. Che nel 98% dei casi è un familiare, nel 76% donna.
Un impegno costante e a lungo termine, dal momento che in gran parte è relativo a pazienti cronici, e che può arrivare stravolgere la vita stessa di questi familiari. Oltre 20 ore a settimana dedicate a prendersi cura del proprio caro malato. Un’attività che dura per 5-10 anni nel 30% dei casi, ma può arrivare anche a 20 anni e oltre per un caregiver su cinque.
E il burden socio-economico di questa situazione è tutt’altro che trascurabile. Soprattutto considerando che gran parte dell’assistenza al malato è fornita da parenti in età lavorativa – il 47,6% ha fra i 51 e i 65 anni, il 27% 36-50 anni – che arrivano a dover lasciare la propria occupazione a causa del livello di impegno temporale ed emotivo richiesto da questa attività di assistenza.
Ciò che servirebbe, dicono i caregiver, è lo snellimento della burocrazia necessaria per accedere a beni e servizi sanitari, così da convertire il tempo trascorso a riempire moduli in tempo di qualità da dedicare al malato. Ma non solo. Otto caregiver su dieci chiedono maggiori agevolazioni e permessi rispetto alla legge 104.
In altre parole occorre stilare e attuare politiche sociali che favoriscano la conciliazione tra vita professionale e vita familiare. Soprattutto nell’ottica futura che vede l’aumento della popolazione in terza età e, conseguentemente, della necessità di assistenza socio-sanitaria.
“Le risorse che stanno arrivando con il Pnrr sono preziose ma vanno accompagnate con misure che ne consentano solidità strutturale anche dopo il 2025. Si tratta innanzitutto di dare ovunque e uniforme attuazione, tanto al livello regionale, quanto a quello aziendale, ai Pdta e al Piano nazionale delle cronicità e monitorare il raggiungimento degli obiettivi previsti; di finanziare e monitorare il rispetto dei Livelli Essenziali di Assistenza su tutto il territorio, al fine di ridurre le diseguaglianze tra regioni e assicurare a tutti i cittadini pari diritti. Tutto questo è importante che sia fatto attraverso un confronto costante con i cittadini e le associazioni di tutela dei diritti dei pazienti che, in questo anno e mezzo di pandemia, hanno mostrato di essere un fondamentale tassello del welfare del nostro Paese”, chiosa Anna Lisa Mandorino, segretaria generale di Cittadinanzattiva.