Si può salvare il SSN da una deriva all’americana?

Cosa succede se il servizio pubblico viene devoluto sempre di più al privato? I rischi della privatocrazia e alcune proposte per evitarli sono stati discussi durante un convegno all'Istituto Mario Negri di Milano

Un recente articolo su JAMA a firma di Donald M. Berwick, intitolato “Salve Lucrum (salve profitto). La minaccia esistenziale dell’avidità nell’assistenza sanitaria americana”, sottolinea che “…se da un lato il profitto può svolgere un ruolo nel motivare l’innovazione e migliorare la qualità delle cure”, dall’altro “in sanità i comportamenti cleptocapitalistici che portano all’aumento dei prezzi, dei salari e del potere del mercato, finiscono poi per danneggiare i pazienti, le loro famiglie, le istituzioni e i programmi governativi”.

Si parla di un sistema sanitario profondamente diverso, quello americano, ma forse non quanto in passato. Perché sempre di più anche il nostro Servizio Sanitario Nazionale scivola verso il privato. Se ne è discusso nel dibattito “Salve lucrum: salvare il SSN dalla privatocrazia” organizzato dal Centro Studi di Politica e Programmazione Socio-Sanitaria dell’Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri di Milano.

I rischi della privatocrazia

Chiara Cordelli

“Privatocrazia e servizio pubblico: quali rischi”. Questo il tema dell’intervento di Chiara Cordelli, filosofa, professoressa associata di Scienze Politiche presso il Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università di Chicago, autrice di “Privatocrazia. Perché privatizzare è un rischio per lo stato democratico”. “Qualche anno fa ho scritto un libro gemello, “Lo stato privatizzato”, in inglese, da una prospettiva americana, senza pensare di scriverne uno sull’Italia – ha spiegato -. Una volta tornata qui, ho fatto alcune verifica per capire se gli argomenti del volume si potessero in qualche modo estendere al nostro Paese e sono rimasta molto sorpresa dai dati che ho trovato. Innanzitutto il 60% dei fondi pubblici finisce in mano ai privati, in sanità, per l’acquisto di servizi medici e farmacologici; più del 50% di istituzioni sanitarie che si occupano di malattie croniche è in mano ai privati; più dell’80% delle istituzioni di assistenza territoriale residenziale è in mano ai privati“.

Negli anni abbiamo assistito a un’incalzante privatizzazione di funzioni pubbliche essenziali

Non si tratta, ha precisato la professoressa, di un caso isolato: “Il fenomeno della privatizzazione in sanità rimane un piccolo tassello di un cambiamento istituzionale molto più ampio, di scala globale: non solo America, Europa, ma anche in alcuni Paesi africani e asiatici troviamo dalla fine degli anni ’70 in particolare con un inizio inglese sotto Margaret Thatcher, poi sempre di più negli anni ’90 con la progressiva privatizzazione di funzioni che comprendono perfino il combattimento militare o la gestione delle prigioni: un’incalzante privatizzazione di funzioni pubbliche essenziali”.

Ma cosa significa privatocrazia? “Nel libro italiano ho usato questa definizione per identificare una modalità di amministrare le funzioni pubbliche che si distanzia dal modello socialdemocratico tipico del Dopoguerra, in base al quale, semplificando, governare significava spendere e amministrare direttamente, ma che non corrisponde a una progressione verso lo Stato minimo tanto amato da libertari e anarchici, perché non vediamo una riduzione della spesa pubblica complessiva o una riduzione delle dimensioni del governo e dello Stato. Si assiste invece a una redistribuzione del potere politico all’interno del sistema amministrativo, in cui il potere viene delegato a privati che vengono chiamati ad agire come amministratori pubblici, a pari merito gli con enti pubblici. Si trasforma lo Stato al suo interno, si privatizza lo stato internamente. Per questo ho preferito “privatocrazia” al termine privatizzazione, che secondo me confonde perché fa pensare a un modello già completamente americano, in cui si delega interamente al privato, mentre qui il privato è chiamato ad agire come braccio del pubblico“.

È un processo presenta dei pericoli. “Negli anni del Dopoguerra si è verificata una crisi di legittimità dello Stato amministrativo: crescendo sempre di più, la burocrazia è stata sempre di più percepita dai cittadini come elefantiaca e inefficiente. Terreno molto fertile per quella oggi chiamiamo ideologia neoliberale, cioè l’idea che introducendo meccanismi di mercato nell’amministrazione pubblica si potessero raggiungere un risparmio e quindi una diminuzione delle tasse, una crescita della concorrenzialità del mercato e di conseguenza un miglioramento della qualità dei servizi e maggiore efficienza. In questo contesto si sono innestate negli anni ’90 le politiche di austerità e la partnership pubblico-privato è stata vista come una strategia utile per aumentare l’austerità e allo stesso tempo continuare a fornire i servizi che i cittadini vogliono e si aspettano, poiché molte spese legate al partenariato, almeno in alcuni Paesi, non vengono nemmeno registrate in bilancio come spesa pubblica.

Le “promesse” della privatizzazione in molti casi non sono state rispettate

Queste promesse della privatizzazione spesso non sono state rispettate. Per quanto riguarda il risparmio, ci sono pochi dati ma di frequente si è visto che quando si calcolano i costi di monitoraggio e supervisione i benefici di molte forme di esternalizzazione non superano i costì. Per quanto riguarda la concorrenza, in molti casi, tra cui la sanità, si è registrata una tendenza al monopolio, in parte per economie di scala, cioè servono molti fondi per acquistare macchinari e mantenerli: solo i grandi riescono a entrare nel mercato e poi “soffocano” tutto il resto. Non essendoci un aumento della concorrenza, anche l’argomento della qualità dei servizi perde parte della propria forza. Ancora, come emerso in Lombardia, quando parliamo di qualità dei servizi, dobbiamo anche chiederci quali servizi, perché quelli meno lucrativi, come la prevenzione, sono penalizzati. Perdendo la prevenzione importanza, tutto il sistema diventa anche meno sostenibile perché le cure costano di più”.

Eppure, nonostante si tratti di argomenti importanti, secondo Cordelli, se intendiamo la privatizzazione della sanità come parte della privatocrazia dobbiamo porci una domanda ancora più fondamentale di quella sull’efficienza e sui risultati: “Uno stato privatocratico si può dire democratico e può pertanto governare legittimamente? Se per ipotesi arrivasse uno Stato come la Germania e proponesse di assumersi in toto la gestione del nostro servizio sanitario, pur magari piacendoci l’idea di una maggiore efficienza, molti di risponderebbero di no, perché siamo uno Stato democratico e ci vogliamo autogovernare: un potere coloniale che viene da fuori, anche se potesse dare migliori risultati, lascerebbe molti insoddisfatti perché c’è l’idea che le istituzioni debbano essere non solo efficienti ma anche democraticamente legittime”.

Secondo Cordelli c’è un conflitto fondamentale irrisolvibile fra privatocrazia e legittimità democratica

Nel libro, l’esperta sostiene che ci sia un conflitto fondamentale irrisolvibile tra privatocrazia e legittimità democratica, ovvero con uno Stato democratico in cui si assicurano le condizioni di libertà, uguaglianza e giustizia sociale senza dominio, cioè senza che nessuno debba dipendere dalla volontà privata, arbitraria e unilaterale di un altro. “Ritengo che il fondamento democratico sia incompatibile con una modalità di amministrazione della cosa pubblica che usa la privatizzazione sistematica come meccanismo per la pianificazione e l’erogazione di servizi essenziali, inclusa la sanità. Perché ci possa essere una legittimità democratica, le forme di potere politico, e con questo non intendo solo il potere coercitivo ma anche prendere decisioni discrezionali importanti, ad esempio allocare risorse pubbliche o servizi fondamentali come l’istruzione o la sanità, servono determinate condizioni. Una è l’autogoverno democratico, per quanto ciò possa avvenire anche in modo indiretto; inoltre le decisioni devono essere prese in maniera rappresentativa, cioè sulla base di considerazioni che mettano al centro l’interesse pubblico. La privatocrazia inficia entrambe queste condizioni.

Non solo: l’amministrazione di funzioni fondamentali deve essere sottomessa a norme di responsabilità e accountability, ma più aumenta la privatizzazione, più le istituzioni perdono non solo la capacità di svolgerle, ma anche il controllo direttivo e la possibilità di accesso alle informazioni, diventando dipendenti dai privati. Inoltre si indebolisce anche l’attaccamento affettivo alle istituzioni che è necessario per la vigilanza civica: più si privatizza e più è difficile per i cittadini vedere abusi di potere; più i cittadini vedono il privato come erogatore di servizi essenziali che dovrebbero rappresentare lo Stato, meno hanno ragioni per votare o per partecipare alla vita pubblica”.

Si entra quindi in un circolo vizioso, in cui anche a livello di politiche è sempre più difficile per lo Stato porre un freno alle istanze del privato. Ed esponendo al rischio di ingerenze da parte della politica nell’amministrazione della salute. Secondo l’esperta, lo strapotere del privato dovrebbe allora essere costituzionalmente limitato per proteggere gli interessi dei cittadini.

Perché evitare una deriva all’americana

Giuseppe Remuzzi

Punto di partenza dell’intervento di Giuseppe Remuzzi, direttore dell’Istituto Mario Negri di Milano, è stata proprio la Costituzione, e in particolare l’articolo 32, secondo cui è la Repubblica a dover tutelare la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività. Un diritto fondamentale che tuttavia nello stato attuale delle cose è disatteso, facendo emergere, ha spiegato Remuzzi, un problema culturale laddove si avalla una società che fonda il benessere della popolazione sul libero mercato e dà sempre più credito e più potere a un sistema orientato al profitto, finendo per rispondere alle esigenze degli azionisti invece che ai bisogni degli ammalati.

In altre parti del mondo, avere un malato in famiglia significa spendere tutto e indebitarsi

Il titolo del suo era “Perché e come evitare una deriva all’americana”: “A noi sembra normale che un malato possa avere un trapianto di cuore o di fegato e le cure più avanzate per il cancro senza spendere un euro”, ha affermato. “Ma in altre parti del mondo non è così: avere qualcuno malato in famiglia significa spendere tutto e indebitarsi”.

La proposta di una quarta riforma

Cavicchi

Secondo Ivan Cavicchi, medico e filosofo, professore di Filosofia della scienza e sociologia dell’organizzazione sanitaria alla Facoltà di medicina dell’Università di Tor Vergata di Roma, l’unico modo per invertire questa deriva è avviare una quarta riforma che riparta dalla legge 833 del 1978, correggendo gli squilibri causati dalle controriforme attuate negli anni ’90 e che ne hanno deviato l’evoluzione.

Il primo squilibrio riguarda la rottura del rapporto tra economia e sanità, per cui oggi la sanità viene concepita come un costo in antitesi alla produzione di ricchezza del paese. Va trovata una nuova alleanza di compossibilità che li renda privi di contraddizione. Il secondo squilibrio riguarda la riduzione al minimo essenziale della spesa per la prevenzione. Il terzo squilibrio riguarda il rapporto tra pubblico e privato. In quarant’anni, secondo Cavicchi, il pubblico è passato da una condizione di monopolio a una di gregario, dove il privato ha preso il sopravvento, annullando ogni forma di democrazia. La situazione è aggravata dal fatto che il privato è fortemente agevolato fiscalmente creando una concorrenza sleale verso il pubblico. Un altro sbilanciamento, grande errore della riforma sanitaria, è che sono stati riordinati i servizi senza modificare le prassi professionali che c’erano nel sistema mutualistico, danneggiando il sistema.

L’idea della quarta riforma propugnata da Cavicchi punta a rimettere in equilibrio questi aspetti per sanare la situazione con l’obiettivo, poi, di rimettere in pista una programmazione sanitaria vera, concepita per obiettivi piuttosto che seguendo logiche locali e regionali come accade oggi, in modo da facilitare un rapporto organico tra economia e sanità; di riaffermare il principio per cui le tutele integrative devono essere a carico del singolo e non compartecipate dal pubblico, esplicitato dall’articolo 46 della Legge 833, dedicato alla “Mutualità volontaria”: “La mutualità volontaria è libera. È vietato agli enti, imprese ed aziende pubbliche contribuire sotto qualsiasi forma al finanziamento di associazioni mutualistiche liberamente costituite aventi finalità di erogare prestazioni integrative dell’assistenza sanitaria prestata dal servizio sanitario nazionale”.

Ancora, di sollecitare un finanziamento straordinario alla sanità, per abbattere il tetto alle assunzioni, ma solo a patto che si sia disposti a superare gli squilibri del passato.

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Adriana Riccomagno
Giornalista professionista in ambito sanitario