«Sicurezza sul lavoro: le sanzioni aggravano il problema, occorre investire (per davvero) sulla prevenzione»

La parola a Maurizio Di Giusto, presidente della Commissione di albo nazionale dei Tecnici della prevenzione negli ambienti e nei luoghi di lavoro (TPALL), le figure che avrebbero le competenze per occuparsi della questione ma che non sempre trovano il corretto sbocco

«All’indomani di tragedie come quella di Firenze sentiamo parlare di inasprimento delle sanzioni e maggiori controlli da chi ha responsabilità decisionale. Un maggior numero di professionisti che svolgano attività di vigilanza è sicuramente importante, ma ciò che serve è diffondere una cultura della sicurezza e della prevenzione, che deve entrare nel tessuto sociale, produttivo e lavorativo». Commenta così a TrendSanità Maurizio Di Giusto, presidente della Commissione di albo nazionale dei Tecnici della prevenzione negli ambienti e nei luoghi di lavoro (TPALL).

Che si parli di sanità, salute o sicurezza, il leitmotiv è sempre lo stesso: si interviene in maniera punitiva una volta che gli eventi accadono e non si pensa mai abbastanza a costruire un impianto che permetta di prevenire i problemi. 

Parlando di sicurezza sul lavoro, i dati provvisori dell’Inail dicono che nel 2023 sono state 1.041 le morti sul posto di lavoro e 585.356 gli infortuni denunciati.

Numeri, questi ultimi, che probabilmente sono in difetto: «Studi internazionali dimostrano come le sanzioni non risolvano il problema, ma possano anzi incentivare le mancate denunce o far crescere quelle denunciate come cadute accidentali in casa, oppure ad abbandonare i lavoratori infortunati davanti ai Pronto soccorso. Tutto per paura di incorrere in un provvedimento», continua Di Giusto.

I costi della non sicurezza

Maurizio Di Giusto

Da qui la necessità di agire in modo proattivo: «Intanto bisognerebbe parlare di sicurezza sul lavoro sempre, non solo quando si perde la vita: anche incidenti e malattie professionali incidono sul lavoratore e sulla sua famiglia, così come sul contesto sociale nel quale quelle persone vivono – ricorda il presidente TPALL -. Tutto questo senza tralasciare il costo in termini economici, oltre che sociali, della non sicurezza sul lavoro».

Da qualche anno l’Inail mette a disposizione delle aziende il software Co&Si che permette, tra le altre cose, di stimare i costi sostenuti dal datore di lavoro per la salute e sicurezza sul lavoro in azienda e il potenziale risparmio che una PMI potrebbe ottenere con una buona gestione della salute e della sicurezza. Il programma mostra infatti gli infortuni di un’“azienda tipo” in base a alcuni parametri come categoria merceologica, grandezza e località geografica. In questo modo chi si trova nello stesso range può capire quanto risparmierebbe con un adeguato percorso di prevenzione qualora dovessero verificarsi degli incidenti

«Il nostro impianto normativo è ottimale, all’avanguardia a livello europeo – osserva Di Giusto -. Il problema è riuscire a rendere applicabili norme che avrebbero bisogno di supporto, soprattutto nelle realtà più piccole. Con la parcellizzazione delle attività tra appalti e subappalti è ovvio che l’ultima impresa che si costituisce per ricevere quel lavoro lo fa a costi ben distanti da quelli iniziali e spesso a essere sacrificata è proprio la sicurezza».

Per il presidente TPALL «noi dovremmo invece riuscire a trovare un sistema che permetta agli enti come i Dipartimenti per la prevenzione, che sono gli organi deputati al controllo nelle aziende sanitarie, non solo di vigilare, ma anche di fornire supporto alle PMI. Le aziende più piccole infatti spesso non riescono a sostenere nemmeno i costi gestionali normali e la sicurezza è l’ultimo dei loro problemi. Andrebbero aiutate». 

La percezione del rischio

Quando c’è, la percezione del rischio è individuale e legata alla cultura della prevenzione del singolo lavoratore. «Spesso cozza però con le direttive, gli indirizzi e i tempi dell’azienda. O con l’abitudine che si acquisisce con l’esperienza e che porta ad avere troppa sicurezza in sé anche quando si svolgono attività pericolose». 

E poi c’è la formazione: «È uno degli elementi cardine, ma è tutt’altro che immediata, a partire dagli elementi più banali: come raggiungere per esempio i lavoratori che non parlano l’italiano?»

E ancora: la legge prevede che la formazione debba essere erogata durante l’orario di lavoro. Mentre il dipendente la svolge, quindi, non è operativo per l’azienda. «Ecco quindi che spesso la formazione non viene erogata sul campo, ma svolta in maniera fittizia con professionisti compiacenti che attestano percorsi non fatti. In questo senso rispettare l ‘obbligatorietà per ogni impresa di comunicare all’organo di vigilanza i momenti formativi potrebbe essere un primo passo».

La giusta formazione deve essere presente anche in chi effettua i controlli: sono necessari professionisti capaci di correlare gli aspetti tecnici, organizzativi e gestionali agli effetti che le scelte hanno sulla salute dei lavoratori. «È importante che l’Ispettorato del Lavoro, quando si occupa di sicurezza, abbia profili con le competenze adeguate – nota Di Giusto – Un paio di anni fa è stato bandito un concorso per oltre mille persone e non è stata richiesta una professionalità specifica: era accettato qualunque diploma di laurea. Da presidente del TPALL non posso non ricordare che esiste un corso di laurea ad hoc che prepara professionisti con le competenze necessarie per verificare ed accertare il livello di sicurezza sul lavoro».

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Michela Perrone
Giornalista pubblicista