In un anno e mezzo di pandemia la sorveglianza epidemiologica della Covid-19 si è evoluta insieme alla conoscenza graduale del virus, ma non sono mancate le difficoltà: dai parametri “ballerini” usati per decidere le restrizioni (in un primo tempo si usava solo Rt, poi l’incidenza, poi i tassi di ospedalizzazione e altri parametri), passando per un tracciamento dei contagi che ha tagliato fuori buona parte degli asintomatici. Il tutto basandosi sui dati forniti da 21 enti regionali diversi e che raccolgono i dati in modo diverso. L’Istituto Superiore di Sanità, insieme al Ministero della Salute, svolge un prezioso compito di coordinamento, ma non può controllare tutti. E dopo 18 mesi dall’inizio dell’emergenza sanitaria ancora non esiste un protocollo unico e omogeneo di raccolta dei dati.
Sorveglianza epidemiologica: come funziona in Italia
La sorveglianza epidemiologica nel nostro Paese è coordinata dal Ministero della Salute che monitora, tra le altre patologie, oltre 50 malattie infettive, in collaborazione con il Dipartimento di Malattie Infettive dell’Istituto Superiore di Sanità che svolge a sua volta alcune sorveglianze speciali su una decina di patogeni.
Per avere un’idea dei vari monitoraggi effettuati si può visitare il portale di informazione “Epicentro”, nato nel 2000 sotto la guida del Laboratorio di Epidemiologia e Biostatistica (LEB) dell’ISS, quale strumento di lavoro per gli operatori di sanità pubblica.
Ministero della Salute e Istituto Superiore di Sanità sono affiancati dalla rete di sorveglianza regionale
Il Ministero della Salute e l’Istituto Superiore di Sanità non portano avanti la sorveglianza da soli ma si affidano a una rete regionale composta da strutture sanitarie e medici che segnalano i vari casi di malattie infettive monitorati periodicamente. Dall’influenza, al morbillo, passando per le arbovirosi (le infezioni provocate dalle zanzare) fino ai batteri resistenti agli antibiotici.
Sars-Cov-2 è un virus nuovo, sotto tutti gli aspetti. Anche quelli della sorveglianza, evidentemente. Perché nonostante il sistema di monitoraggio sulle malattie infettive sia rodato da tempo, per controllare l’evoluzione e tracciare i contagiati della Covid-19 ci si è dovuti inventare tutto il sistema. E non è stato semplice. Non lo è tuttora.
Sorveglianza epidemiologica: il caso della Covid-19
In Italia esistono due principali fonti di informazione sull’epidemia Covid-19: la Protezione Civile e l’ISS. I dati di queste istituzioni possono differire perché il tipo di dati e la modalità di raccolta sono diversi.
La Protezione Civile pubblica quotidianamente informazioni aggregate sul numero totale di test positivi, decessi, ricoveri in ospedale e ricoveri in terapia intensiva in ogni Provincia d’Italia. Questi dati sono forniti dalle regioni/PA al Ministero della Salute.
Sars-Cov-2 è un virus nuovo, sotto tutti gli aspetti. Anche quelli della sorveglianza
L’ISS, invece, chiede alle Regioni di fornire dettagli individuali su tutti i casi, compresi i dati demografici, lo stato clinico e le comorbidità. I dati aggregati sono più rapidi e facili da raccogliere, mentre i dati individuali richiedono più tempo ma permettono un’analisi più dettagliata e accurata.
Una delle critiche fatte alle istituzioni che si sono occupate di sorveglianza è stata quella di non aver fornito fin da subito i dati disaggregati a chi li richiedesse al di fuori delle istituzioni (società scientifiche, giornalisti, etc..). Per molti mesi (fino ad agosto del 2020) non è stato infatti possibile sapere quale fosse il percorso di analisi ed elaborazione che porta ai bollettini che leggiamo quotidianamente di ricoveri, i decessi, i tamponi, ecc.
“Il punto è che dobbiamo fidarci dei dati così come ci vengono comunicati – ha affermato Antonello Maruotti, Professore Ordinario di Statistica presso l’Università LUMSA di Roma -. L’unico ente ad avere dati disaggregati è l’istituto Superiore di Sanità e la Fondazione Bruno Kessler che affianca l’ISS nell’elaborazione delle informazioni. L’altro problema è l’eterogeneità delle regioni. Credo che questa pandemia abbia fatto capire che il federalismo sanitario debba essere rivisto profondamente. Ogni giorno elaboriamo dati che provengono da 21 regioni/province autonome che fanno tamponi in modo diverso. Per molti mesi non c’è stata omogeneità nel computo del numero di tamponi effettuati: chi conta i molecolari, chi gli antigenici, chi li fa sui sintomatici, chi come screening. Senza dati di qualità non si possono fare analisi perfette”.
In Italia, la sorveglianza Covid-19 ha avuto inizio con la Circolare ministeriale n. 1997 del 22 gennaio 2020 che conteneva i primi criteri e le modalità di segnalazione dei casi di infezione da SARS-CoV-2 condivisi con l’Istituto Superiore di Sanità.
Il 27 febbraio 2020 la Protezione Civile, attraverso l’Ordinanza n. 640, ha affidato la sorveglianza epidemiologica e microbiologica per Covid-19 all’ISS.
Il sistema è quindi coordinato dal Dipartimento Malattie infettive dell’ISS. A livello locale, ogni Regione/Provincia Autonoma ha identificato uno o più referenti.
Il test diagnostico per individuare SARS-COV-2 viene eseguito prioritariamente per i casi clinici sintomatici e paucisintomatici e ai contatti a rischio familiari e/o residenziali sintomatici. Pertanto, molto spesso restano fuori gli asintomatici.
Come si legge sul sito di EpiCentro, nella sezione dedicata alla pandemia, i laboratori regionali informano del risultato le Aziende Sanitarie Locali (ASL), che coordinano il flusso di dati tra i casi, gli ospedali, i medici di medicina generale (MMG) e i pediatri di libera scelta (PLS) al fine di raccogliere informazioni dettagliate su ogni individuo positivo al test.
Un dato interessante: nella fase iniziale dell’epidemia i laboratori regionali inviavano all’ISS tutti campioni positivi a Sars-CoV-2 per la conferma della diagnosi; oggi che i laboratori regionali hanno le capacità tecniche per eseguire la diagnosi correttamente, le Regioni inviano solo un ristretto numero di campioni, per la caratterizzazione genetica.
Un sistema da reinventare
L’epidemiologia in Italia funziona bene ed è costellata di eccellenze che ci riconoscono anche all’estero. Ma con la pandemia qualcosa non ha funzionato come ci si sarebbe aspettato, a cominciare dalla condivisione dei dati che ha generato diverse critiche nei confronti dell’ISS e della Protezione Civile che nei primi mesi non potevano (per legge) comunicare i dati in forma disaggregata, come richiesto dalla comunità scientifica. Ci è voluta un’ordinanza della Protezione Civile, la 691 del 4 agosto 2020, per consentire questa condivisione.
Per Elena Stanghellini, Professoressa di Statistica all’Università degli Studi di Perugia, esiste un distacco fra la ricerca epidemiologica che viene effettuata nelle università, di ottimo livello per collocazione editoriale e visibilità internazionale, e la sua ricaduta nel sistema sanitario nazionale. “Un esempio per tutti – afferma – sempre in tema di Covid-19: per molto tempo i dati pubblicati (sul sito della protezione civile, ndr) davano i saldi. Saldi dei ricoveri, saldi delle terapie intensive. Ora, questo modo di pubblicare le informazioni non permette un’attività di previsione. Ad esempio, un saldo piccolo può essere dovuto a due fenomeni molto diversi: molti ricoveri e molti dimessi, oppure pochi ricoveri e pochi dimessi. Dal punto di vista epidemiologico sono due situazioni completamente diverse”.
Senza contare che i dimessi, specie dalle terapie intensive, erano spesso per decesso e non per guarigione.
Esiste un distacco fra la ricerca epidemiologica e la sua ricaduta sul SSN
Statistici e epidemiologi hanno chiesto più volte i dati in forma disaggregata, ma ci è voluto del tempo, come abbiamo visto, prima di ottenere qualche risposta con l’ordinanza della Protezione Civile n. 691 del 4 agosto 2020 che prevede si possano comunicare i dati raccolti ai centri di competenza nell’ambito scientifico e di ricerca, nonché verso enti di particolare rilevanza scientifica, nazionali ed internazionali, e verso le pubbliche amministrazioni, in forma aggregata o anonimizzata. L’accesso può essere richiesto attraverso un modulo per motivi scientifici e di ricerca che devono essere sempre specificati.
Insomma, non sono dati che possono essere comunicati a chiunque ma solo ad enti di ricerca, pubbliche amministrazioni e società scientifiche. E forse ha anche senso, visto che i dati bisogna non solo leggerli ma anche saperli interpretare.
Chi controlla i controllori?
L’ISS ha creato una piattaforma informatica dedicata, che consente la raccolta dei dati sia attraverso un’interfaccia web collegata alla piattaforma stessa sia attraverso l’invio di un dataset. Il Dipartimento di Malattie infettive dell’ISS processa e analizza i dati della piattaforma e li rende disponibili per consentire l’analisi dell’epidemia in tutto il Paese.
Il sistema di sorveglianza è progettato per includere tutti i casi di Covid-19 confermati in laboratorio.
Ma qui occorre iniziare a fare dei distinguo.
L’ISS coordina il monitoraggio e analizza i dati che arrivano, non può controllare i controllori
Ogni Regione va per conto suo. L’offerta dei tamponi, come abbiamo detto, non è omogenea: in alcune Regioni si testano solo i sintomatici, in altre si fanno screening, in altre si usano sia i tamponi molecolari sia gli antigenici.
Ad oggi, dopo un anno e mezzo dall’inizio della pandemia, ancora non esiste un protocollo ufficiale di raccolta dati, ognuno fa quello che può.
E chi controlla il controllore? Chi controlla che le Regioni comunichino i dati in modo corretto?
Per una Regione finire in zona arancione o rossa può essere un disastro, politico ed economico. Come si fa a lasciare alle regioni sole il monitoraggio dei casi?
L’ISS coordina il monitoraggio e analizza i dati che arrivano, non può controllare i controllori, non ha il potere di farlo.
Si torna quindi al tema della fiducia. Dobbiamo fidarci.
E ora che la variante Delta sta cominciando seriamente a far risalire i contagi, per valutare la gravità della situazione non si misurerà solo l’incidenza dei casi (numero dei positivi ogni 100.000 abitanti) ma anche il numero dei ricoveri in ospedale e nei reparti di terapie intensiva: tutti dati forniti dalle stesse regioni, non da enti terzi.
“L’ISS è un ente di ricerca che collabora con il Ministero della Salute, ma le attività sul territorio di prevenzione e diagnosi sono delegate alle Regioni – ha ribadito Patrizio Pezzotti, Direttore del reparto di Epidemiologia, Biostatistica e Modelli Matematici dell’ISS – Noi, in accordo con Ministero della Salute, proponiamo dei protocolli d’azione che poi vengono recepiti attraverso la conferenza Stato Regioni. Ma ogni ente regionale ha un suo modello organizzativo e quindi questo può comportare una diversa gestione delle attività di sorveglianza e prevenzione. Nelle Regioni che, ad esempio, avevano una organizzazione dei servizi più incentrata sull’assistenza ospedaliera che su quella territoriale, il tracciamento è stato probabilmente più difficoltoso. Al contrario, nei territori dove l’assistenza a livello comunitario era più forte, il tracciamento con ogni probabilità è andato meglio”.
Il punto, infatti, non è tracciare solo la persona che si infetta. Non siamo di fronte a un tumore o a una patologia cronica in cui la sorveglianza epidemiologica può limitarsi alla persona malata. In caso di malattie infettive gravi come la Covid-19, occorre tracciare tutti coloro che sono venuti in contatto con il malato. E bisogna farlo velocemente.
Testing e contact tracing servono a questo, ma come ribadisce l’esperto dell’ISS, queste attività funzionano laddove esistono già risorse abituate a lavorare sul territorio.
Occorre tracciare tutti, e in modo obbiettivo
Il fatto di contare solo i sintomatici è stata più che altro una scelta di opportunità: “Soprattutto nella prima ondata è stato offerto il tampone molecolare solo ai sintomatici per il semplice fatto che la capacità diagnostica era limitata. I casi sintomatici sono quindi stati più diagnosticati”, ha detto Pezzotti.
Ma su questo punto ci sono diverse correnti di pensiero.
“Testare solo i sintomatici aiuta a gestire l’emergenza, ma non a prevenirla – ha affermato Elena Stanghellini – perché non si arrestano le catene dei contagi che si creano attraverso gli asintomatici. Sia l’indice Rt sia l’incidenza non sono stati calcolati in modo sistematico ed omogeneo. E credo che un sistema efficace di controllo e prevenzione debba includere anche la possibilità di tracciare gli asintomatici in maniera rigorosa. Sembra infatti esistere una contrapposizione fra metodi di individuazione e prevenzione e strumenti probabilistici di quantificazione dei contagi”.
Il tracciamento degli asintomatici continua ad essere una questione dibattuta
In realtà, esistono moderne tecniche di campionamento che permettono di raggiungere entrambi gli obiettivi. E potrebbero essere utili per controllare in modo oggettivo i vari controllori, le Regioni. Una di queste, proposta da Stanghellini insieme ad altri colleghi fin dall’inizio della pandemia (proposta evidentemente caduta nel vuoto) è il campionamento adattivo ad ondate ripetute.
È un sistema piuttosto semplice: in ogni Regione, si testa un campione di qualche migliaio di persone scelte in maniera casuale. La dimensione del campione deve essere proporzionale alla numerosità della popolazione. In caso di positività, si tracciano i contatti dei positivi e si fanno tamponi anche a questi. Bastano già questi due livelli per espandere il dato e capire l’incidenza. Si tratterebbe di un dato più oggettivo da confrontare con i dati che emette la Regione ogni giorno e che nessuno controlla.
“Questo schema di campionamento permette non solo di quantificare, identificare e prevenire la formazione di catene di contagio – ha sottolineato la professoressa Stanghellini – ma anche di raccogliere informazioni sui luoghi del contagio, orari, condizioni atmosferiche, e sulle caratteristiche delle persone asintomatiche (età, genere, stili di vita)”.
Non si fa nulla di tutto questo. E il tracciamento avviene ancora a livello manuale, a differenza poi di altri Paesi dove invece è anche digitale: “Il fallimento dell’app Immuni è solo la punta dell’iceberg, – evidenzia Maruotti – se fatto bene, con il tracciamento digitale avremmo potuto diminuire Rt di un punto. Noi invece continuiamo a farlo in modo manuale”.
Gli indici usati per monitorare la pandemia
Incidenza, tasso di positività, Rt, sono tutti termini che da un anno e mezzo a questa parte sono entrati prepotentemente nella quotidianità. Serviti ogni giorno nei vari tg, articoli di giornale, post, ma capire al volo questi concetti di statistica e di epidemiologia non è banale.
Prendiamo il tasso di positività che ci snocciolano quotidianamente i principali media. Questo tasso ci dice quanti tamponi positivi sono stati rilevati sul totale dei tamponi effettuati in un tale giorno. È un tasso che ci riporta un dato calcolato su una base per niente omogenea: i tamponi non sono tutti uguali, i test usati non solo sempre gli stessi e non si fanno solo su casi sospetti ma anche come campagne di screening.
Incidenza, tasso di positività, Rt sono entrati nella quotidianità, ma rappresentano concetti complessi
“È un indicatore che semmai ci dice quanto si sta diffondendo l’epidemia, ma non restituisce un’idea precisa ed omogenea di quella che è l’offerta dei tamponi”, ribadisce il dottor Pezzotti dell’ISS.
Anche l’incidenza, vale a dire il numero di tamponi positivi ogni 100mila abitanti, è un parametro da usare con cautela: “Perché non incentiva le Regioni a fare un numero elevato di tamponi – ammette Stanghellini – Quello che occorre fare è invece affiancare, all’indicatore sulla incidenza, un numero minimo di tamponi per unità di popolazione. Solo così si avrebbe una reale idea dell’evoluzione del fenomeno e della sua progressione nella popolazione”.
“Un indicatore non può diventare un obbiettivo – sottolinea Maruotti – altrimenti smette di essere un buon indicatore”. Perde la sua oggettività, per intenderci. Diventa meno credibile, perché le Regioni pur di non finire in fasce peggiori, fanno meno tamponi. Semplice e inquietante allo stesso tempo.
Un indicatore non deve diventare un obbiettivo, altrimenti perde la sua funzione
“Il tema del tracciamento è ancora oggi attuale – riprende Stanghellini – data la presenza delle varianti. I vaccini, come è noto, sono molto efficaci nel prevenire l’evoluzione grave della malattia, ma non altrettanto nel fermare i contagi che, molto probabilmente, avvengono, oggi ancora di più, in forma asintomatica”.
E parliamo dell’indice Rt, il più usato e tormentato. Intendiamoci: Rt è un indice fondamentale in epidemiologia. Misura la trasmissibilità del virus (cioè quante persone può infettare un soggetto positivo): sopra 1, ci dobbiamo preoccupare.
Anche sull’uso di questo indicatore ci sono diverse scuole di pensiero e alcuni statistici hanno messo in discussione il modello usato da ISS e Fondazione Kesslerper calcolare l’indice Rt.
Maruotti, insieme ad alcuni colleghi, ha pubblicato uno studio in cui si mettono in discussione le ipotesi alla base del modello usato per la sorveglianza di questa epidemia. Accuse forti. Su cui ISS ha poco da commentare: “Lavoriamo con Fondazione Kessler da decenni – sottolinea Pezzotti – è un ente di livello internazionale su modelli di diffusione epidemica”.
Rt è stato usato soprattutto nelle prime fasi della pandemia. In quelle successive si sono considerati anche altri indicatori (indice occupazione terapie intensive, ospedalizzazioni, etc..) molto più comprensibili dalla gente comune rispetto all’Rt.
Non sono ancora chiare le ragioni di certe chiusure
“A settembre dovremo riaprire le scuole – spiega Maruotti – ma non abbiamo dati precisi. Prendiamo decisioni sulla base dell’emotività. E per uno statistico questo è inaccettabile”.
Per Stanghellini e Maruotti, e tanti altri loro colleghi, decisioni drastiche come la chiusura delle scuole sono state prese completamente “al buio”, usando gli indici in modo non sempre corretto.
Per Pezzotti le cose non stanno proprio così: “Parlare di evidenze in questo momento è difficile, le misure sono state prese in una fase di esperimento sociale, la colpa non ce l’ha la scienza. E le decisioni vanno prese anche in assenza di certezze”.
Parlare di evidenze in questo momento è ancora difficile
“L’ambiente scolastico – prosegue Pezzotti – anche sulla base delle regole definite da INAIL e ISS, non sembrava essere spesso il luogo dove avvenivano i contagi. Tuttavia, la socialità che ruota intorno alla scuola era verosimilmente una delle cause principali: palestre, attività sportive, ristoranti (ad esempio, i giovani delle scuole superiori vanno spesso a mangiare al fast food per pranzo), sono tutte attività che possono aver generato focolai di trasmissione. Quindi, da parte dei presidi, delle ASL, delle Regioni e del governo centrale è stato fatto un ragionamento ad ampio spettro. Riducendo o vietando la scuola in presenza, i decisori hanno cercato di limitare l’impatto sulla diffusione del virus che avrebbero causato le attività correlate.”
Queste diverse scuole di pensiero e contrapposizioni fanno emergere un’immagine di un’Italia divisa anche nell’epidemiologia. Assistiamo ogni giorno a querelle tra scienziati e medici che hanno idee contrapposte sull’evoluzione del virus e la gestione della pandemia. Probabilmente l’epidemiologia non riesce a sottrarsi a questo gioco tra le parti, che forse è stimolante per la comunità scientifica, ma risulta certamente confusionario per i cittadini, che di indici e scienza sanno ben poco, e vorrebbero solo informazioni chiare, fuori da qualsiasi contesa, per capire perché non possono andare al cinema, o a scuola. E invece possono fare la fila alla cassa del supermercato.