«Sviluppare menti che siano disponibili al confronto: questo è il ruolo fondante delle Università»

Cristina Prandi, prima donna alla guida dell’Università di Torino in oltre 600 anni, racconta a TrendSanità il significato della sua elezione, le difficoltà incontrate come donna nella scienza e il ruolo dell’università pubblica come baluardo contro disuguaglianze e disinformazione

Per la prima volta in oltre sei secoli di storia, l’Università di Torino ha una donna al vertice. Cristina Prandi, docente di Chimica organica, ha infranto un soffitto di cristallo silenzioso ma resistente, segnando un punto di svolta nella governance accademica italiana.

In questa intervista rilasciata a TrendSanità racconta con lucidità e passione il significato simbolico della sua elezione, le difficoltà incontrate lungo un percorso professionale spesso sbilanciato sul piano di genere, e la visione di un’università pubblica come presidio civile, baluardo contro la disinformazione e luogo di crescita delle coscienze. Un dialogo che è anche un invito alle giovani donne: la scienza è anche casa vostra.

Professoressa Prandi, lei è la prima donna alla guida dell’ateneo piemontese da 600 anni a questa parte: ritiene di essere riuscita a rompere un soffitto di cristallo? Come ci si sente?

«Sì, perché di fatto è successo proprio questo. Mi sento molto emozionata in questo ruolo, anche se non è stato un tema prioritario nella campagna elettorale. Però indubbiamente quando poi arriva il risultato ci si rende conto anche della portata di questo risultato. C’è molta emozione e molta consapevolezza di quello che questo significa». 

Che cosa significa esattamente per lei?

«Intanto è simbolico, è un messaggio e di questo sono molto contenta perché è un messaggio più forte di tante parole: si può far capire alle ragazze in generale, ma anche a quelle che vengono da un percorso come il mio, in cui è particolarmente difficile e abbiamo ancora delle disparità di genere, che si può fare. Che si possono raggiungere degli obiettivi, dei ruoli importanti e, nel mio caso, rispetto a una sfera personale è stato anche possibile conciliare l’aspetto familiare e personale. Mi rendo conto che per le nuove generazioni questo è molto importante, e hanno ragione loro, lo voglio precisare. Credo che abbia proprio questo valore simbolico come messaggio».

“Si può fare”: le donne possono raggiungere ruoli apicali anche nella scienza e nell’università

La sua carriera si è snodata all’interno di un ambito maschile come quello della chimica. Molte donne che riescono a raggiungere i propri obiettivi nel lavoro affermano di aver dovuto faticare almeno il 30% in più dei colleghi uomini per mostrare il medesimo valore: è stato così anche per lei?

«Sì, soprattutto in una fase della mia vita coincisa con la maternità. In quel momento ho fatto veramente un notevole sforzo. Stiamo parlando di 25 anni fa. Adesso le cose sono migliorate, però allora c’era assolutamente il pregiudizio che la maternità fosse completamente totalizzante e quindi non compatibile con un’attività di ricerca, perché è un’attività molto intellettuale e richiede una forte concentrazione. Questo l’ho vissuto personalmente. Mi è capitato ancora recentemente di essere testimone di un contesto culturale che, nonostante in qualche modo voglia andare verso una parità di genere, rimane discriminante da un punto di vista culturale. Mi spiego meglio con un esempio. La donna che si assenta da una riunione alle quattro del pomeriggio perché deve andare a prendere i bambini all’asilo continua a essere vittima di un pregiudizio; l’uomo che, soprattutto se è in una posizione già avanzata di carriera, fa la stessa cosa viene invece in qualche modo fatto oggetto di elogio, valutato come moderno. Nella sostanza, credo che da un punto di vista culturale ci sia ancora molto da lavorare». 

Quali ostacoli ha trovato lungo la sua strada? Sono state sfide diciamo “naturali” o massi posti sul sentiero dai suoi detrattori?

«Niente di particolarmente grave, devo dire, tanto è vero che con un po’ di pazienza li ho superati. Però certamente il rallentamento della produzione scientifica per vari motivi c’è ancora. Ho letto recentemente una pubblicazione scientifica che riguarda il cosiddetto fenomeno della “child penalty”, che ha ancora un impatto prevalentemente sulle donne. Se si osservano i dati, per esempio per una donna scienziata madre c’è un rallentamento della produzione scientifica che comincia a riprendere il normale corso più o meno al settimo anno del bambino. Diversamente, le stesse osservazioni sui papà, negli stessi ambiti lavorativi, non indicano nessuna flessione nella produzione scientifica. Il che significa che nei fatti questa cosa succede».

L’ambiente accademico è noto per essere fortemente competitivo. Ancora oggi esistono le baronie, che sono prettamente patriarcali. Qual è stata la sua esperienza in questo senso? Leviamoci i sassolini dalla scarpa: ci sono le baronie? 

«Molto meno di una volta. Il mio Ateneo è molto grande, quindi ci sono delle aree culturali molto diverse: nella mia area direi molto meno di una volta. C’è però di nuovo un aspetto che io definirei prevalentemente culturale, per cui le colleghe donne occupano quello che noi chiamiamo il lavoro accademico “domestico”. In pratica tutti quei ruoli legati ad aspetti organizzativi o ad aspetti di cura: quindi tutoraggio, mentorship, meno strategici e decisionali, molto pesanti perché sono organizzativi. Su questo secondo me bisogna ancora lavorare». 

Lei ha raggiunto un traguardo molto importante, che la vede ai vertici di una prestigiosa università. Così come è accaduto di recente anche alla sua collega Marina Brambilla, che oggi è alla guida dell’Università degli Studi di Milano. Chi si sente di dover ringraziare per averla sostenuta? E a chi, invece, deve dire un bel “vedi che ce l’ho fatta” nonostante tutto!

«Devo dire che prevale il sentimento di ringraziamento. C’è una fila lunghissima di persone a partire dalla mia famiglia che è stata disponibile, perché l’impatto sulla dinamica e sulla vita familiare non è trascurabile. Una squadra che si è raccolta intorno a me e che mi ha convinta a candidarmi, che mi ha aiutata e motivata.

La maternità non deve più essere un ostacolo alla carriera scientifica: la paternità obbligatoria potrebbe essere di aiuto

L’ho detto più volte ed è vero: la mia carriera non è stata particolarmente rapida. Ho fatto tutti i passaggi uno per uno lentamente. Però periodicamente in questa carriera ho trovato delle persone che credevano in me e non tanto dei detrattori».

Sul suo sito cristinaprandi.org si legge “In un’epoca in cui molti sembrano ormai scettici circa il ruolo e il valore del sapere, l’università pubblica è un luogo strategico. Difenderlo significa combattere un’autentica battaglia civile e culturale”: in che modo intende difendere il sapere? E in che modo combatterà contro il dilagare delle fake news anche in ambito scientifico?

«Sul primo tema, credo fermamente che noi dobbiamo difendere gli atenei pubblici puntando principalmente sulla qualità: qualità della formazione, dell’offerta formativa, della ricerca. Non sono ambiti scollegati tra di loro perché il prestigio dell’ateneo deriva anche dai risultati della ricerca. Credo che la nostra missione sia quella di offrire agli studenti che si iscrivono e conseguono un titolo negli atenei pubblici il massimo valore possibile di questo titolo che conseguono in termini di prestigio. Noi siamo all’interno di un sistema di atenei nazionali italiani prestigiosi, storici, e dobbiamo continuare a lavorare su questo. Altrimenti si verifica quello che sta accadendo già in alcuni Paesi all’estero, in cui si sviluppano due sistemi universitari: uno pubblico di bassa qualità perché mancano risorse e che nel tempo diminuisce la qualità; e uno invece privato al quale può accedere evidentemente solo chi rientra in una certa fascia di reddito. Ritengo veramente che la migliore difesa del sistema pubblico sia proprio quella di puntare sulla qualità».

Si rende conto che la sua idea si scontra con una impronta del nostro attuale esecutivo che non rema proprio in questa medesima direzione?

«Sì, non va esattamente in questa direzione. Però credo che l’azione deve essere duplice: da una parte essere comunque sempre molto fermi con il ministero (dell’Università e della Ricerca, ndg) e con il governo rispetto al fatto che il sistema universitario necessita di finanziamento. Rispondendo noi a questo investimento con la qualità e con un altro canale attraverso cui riusciamo ad attrarre risorse da bandi competitivi, bandi pubblici, fondi europei ma anche collaborazioni con privati, in modo da non essere completamente dipendenti dal finanziamento ministeriale, che non è ricco e soprattutto è irregolare».

Torniamo alle fake news…

«Per quanto riguarda le fake news in ambito scientifico come Ateneo abbiamo già avviato da tempo una serie di iniziative. Voglio solamente citare due azioni concrete che intendo potenziare e ulteriormente valorizzare. La prima è una piattaforma che si chiama “Frida”.  È una piattaforma di divulgazione scientifica in cui c’è una connessione diretta tra i risultati della ricerca e quello che pubblichiamo: non sono solo articoli, ma anche organizzazioni di eventi in cui c’è un filo diretto con il ricercatore. La seconda è il recente lancio nella nostra università di una rivista internaOtto, discorsi diretti” che si occupa anche di divulgazione scientifica generale».

L’università pubblica è un presidio civile: va difesa investendo sulla qualità

Oggi si parla sempre più, per fortuna, del ruolo della donna nelle scienze. Qual è oggi e quale può realmente essere questo ruolo nel prossimo futuro?

«Abbiamo bisogno di più scienziate ed è curioso il fatto che su alcune discipline scientifiche abbiamo ormai raggiunto la parità di genere: sono tutti gli ambiti biomedici, ma anche a Chimica per esempio in realtà adesso in entrata abbiamo una parità di genere. Ci sono degli ambiti ancora un pochino ostici come Fisica e Informatica, dove ci sono pochissime ragazze. Questo è un aspetto che riguarda prevalentemente l’orientamento in ingresso, ma l’orientamento già a partire dalla scuola materna che in qualche modo superi questi bias di genere e orienti a una scelta più ad ampio raggio.

Non so se ci può essere un contributo in ambito scientifico che è legato all’essere donna. Forse no; la scienza va trattata come tale. Ci può essere forse una sensibilità diversa rispetto ad alcuni aspetti della scienza, per esempio in ambito medico tutta la parte che riguarda la medicina di genere che è veramente al centro del dibattito odierno, deriva evidentemente (dalla sensibilità femminile rispetto a questi temi». 

Anche le facoltà che sono tradizionalmente di maggior appannaggio maschile ora sono sempre più frequentate dalle ragazze, tanto che abbiamo raggiunto in alcuni casi la parità di genere. Che consigli lei si sente di dare alle bambine e alle giovani che vogliono approcciare le materie STEM con successo?

«Intanto bisogna dar loro un messaggio di fiducia. Sicuramente nella percezione comune l’ambito STEM è percepito come delle materie difficili da affrontare, difficili da studiare. Questo è un primo pregiudizio che credo debba essere superato con un’iniezione di fiducia e con delle azioni culturali rivolte già ai bambini piccoli. Ritengo che il principale ostacolo sia la difficoltà combinata di un impegno totalizzante che le ragazze anche da giovani percepiscono sin da subito come non compatibile con una vita personale, che sia familiare o comunque compatibile con altre cose. Questo è un pregiudizio che è assolutamente da sfatare, perché ostacola molto l’iscrizione alle materie STEM». 

Veniamo a un altro tema molto importante: quello del gender gap, non solo scolastico, ma anche lavorativo. Opportunità e stipendi sono ancora più sfavorevoli alle donne rispetto che agli uomini: cosa fare per raggiungere una maggiore equità?

«Il gender gap è un aspetto che ho approfondito e che è tipicamente italiano e riguarda la legislazione italiana, che prevede una maternità obbligatoria di 5 mesi. Credo che il nostro sia uno dei Paesi in cui la maternità obbligatoria è più lunga, sia in Europa che al di fuori. Questo è un bene da una parte, perché quindi abbiamo la massima tutela della maternità. Dall’altra però diventa immediatamente un limite che porta a una discriminazione nel momento in cui si fa un colloquio di lavoro e devi essere assunta. Perché come donna diventi immediatamente meno competitiva rispetto a un uomo, a volte anche non a parità di curriculum. Questo è un aspetto molto importante, dobbiamo tenerlo presente. In Italia è stata introdotta la paternità, volontaria. Fortunatamente c’è un numero sempre maggiore di giovani uomini che la chiedono, però questo aspetto rimane ancora discriminante. Personalmente sono molto drastica rispetto all’introduzione di misure transitorie – che però servono per accelerare dei processi di cambiamento. Direi paternità obbligatoria, però entro i due o i tre anni di vita del bambino. In questo modo riduci immediatamente questa discriminazione che si verifica quando si fanno colloqui di lavoro».

Un’ultima domanda, sul futuro: si può fare cultura in modo nuovo, così che le nuove generazioni possano mettere a confronto diverse prospettive e modi di vedere il mondo in senso più critico e al contempo scevro da preconcetti che oggi, purtroppo, sono forieri di aspri conflittualità? 

«L’università naturalmente è una fucina di idee, dove le idee si confrontano e possono portare a nuovi esiti. Credo che questo sia il ruolo fondante delle università: sviluppare menti critiche scevre da ideologie. Menti che siano disponibili al confronto. Dobbiamo difendere il luogo dove avvengono i dibattiti e dove le persone ascoltano. Penso che sia non solo un dovere, ma anche un privilegio delle università, e noi dobbiamo assolutamente difenderlo.

Il dibattito deve essere libero sempre e fondato sul saper ascoltare e sempre imparare. Un po’ come accade con le basi del metodo scientifico peraltro, che potremmo dire si possa applicare anche in altri ambiti, più delicati perché coinvolgono la vita politica dei cittadini. Insegnare a imparare ad ascoltare l’altro, anche se l’opinione è diversa della tua e soprattutto aprire al dibattito e continuamente imparare. Questo è il ruolo dell’università, secondo me».

Fotografia da https://www.cristinaprandi.org/chi-siamo (Cristina Prandi © 2025)

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Carlo M. Buonamico
Giornalista professionista esperto di sanità, salute e sostenibilità