Formazione, cultura, competenze digitali. Misurazione dei risultati e dei costi. Ma anche sapersi mettere in discussione, rivedere percorsi e processi e usare il buon senso.
Questa è la ricetta per applicare la telemedicina in Italia, almeno secondo quello che ci dicono gli esperti.
Ne abbiamo parlato lo scorso 13 aprile in una Live dedicata a cui hanno partecipato Sergio Pillon, Medico, esperto di salute digitale e Coordinatore della Trasformazione Digitale della ASL di Frosinone e Paolo Locatelli, responsabile scientifico dell’Osservatorio Innovazione Digitale in Sanità del Politecnico di Milano.
In un anno oltre 200 iniziative di telemedicina sono state attivate
A oltre un anno dall’inizio della pandemia, sono state attivate oltre 200 iniziative nelle varie Asl italiane per erogare servizi di telemedicina. Anche i medici di base e i pediatri di libera scelta si stanno dando da fare in questo senso. Le linee di indirizzo del 2014 e le indicazioni Nazionali per le prestazioni della telemedicina approvate a fine 2020 rappresentano il perimetro normativo entro il quale si può attivare la telemedicina. Le indicazioni approvate lo scorso dicembre definiscono inoltre le modalità di rendicontazione e tariffazione e, al momento, le televisite possono essere attivate solo per i controlli e i follow up, non per le prime visite. E hanno lo stesso costo di quelle effettuate in presenza.
Ma indicazioni e linee guida a parte, a che punto siamo?
Cresce la fiducia verso la telemedicina
In questo anno e mezzo abbiamo assistito a un’esplosione della telemedicina, che da Cenerentola si è trasformata in Regina della Sanità Italiana.
Secondo le interviste svolte dall’Osservatorio del Politecnico di Milano a giugno 2020, per i medici di medicina generale il 30% delle visite ai pazienti cronici potrebbe essere gestibile in televisita; secondo i medici specialisti il 24%.
Questa prima evidenza mostra quanto sia cambiata la percezione rispetto al periodo precedente la pandemia da Covid-19. Anche i cittadini sembrano essere disposti a usare questa tecnologia: 1/3 degli italiani si dice pronto per la televisita.
In alcune aree la telemedicina coinvolge anche caregiver e familiari
“Nell’autunno dell’anno scorso – sottolinea Locatelli – abbiamo rilevato che l’utilizzo di soluzioni sperimentali di televisita all’interno delle aziende sanitarie è passato dal 15% al 35%, mentre per il telemonitoraggio c’è stato un incremento significativo dal 27 al 37%”.
In questo periodo molte aziende sanitarie hanno attivato soprattutto servizi di televisita, all’inizio usando anche piattaforme non pensate specificatamente per questi utilizzi, come Skype, perché già integrate con i sistemi aziendali. Nel tempo poi le aziende si sono orientate verso l’acquisto di soluzioni con piattaforme dedicate.
“Tra gli ambiti di maggior utilizzo – riprende Locatelli – ci sono la gestione di cronicità, in cui la televisita e il telemonitoraggio sono facilmente applicabili, soprattutto nell’ambito cardiologico, reumatologico e neurologico. Ma abbiamo rilevato un certo utilizzo anche in settori che non erano così intuitivamente pensabili come prime applicazioni, come ad esempio la medicina fisica riabilitativa (sempre nella gestione delle cronicità) oppure la neuropsichiatria infantile, in questo caso facendo leva su caregiver e familiari”.
Software o medical device?
Uno dei numerosi nodi da sciogliere per l’utilizzo sereno di questa tecnologia è la sua inclusione o meno nel mondo dei dispositivi medici: il Regolamento Europeo sui Dispostivi medici 2017/745 diventerà operativo tra un mese e prevede che molti software medicali diventino medical device, necessitando quindi di essere sottoposti a tutto l’iter di certificazione CE. Le indicazioni Nazionali del 2020 ribadiscono che i software usati nell’ambito della telemedicina dovranno essere certificati.
Ma una piattaforma di comunicazione per effettuare una televisita può essere considerata un dispositivo medico?
Se la televisita integra un dispositivo che monitora determinati parametri e trasmette i dati a una centrale o al medico, allora il software deve essere certificato come dispositivo medico. Ma se la televisita è solo una videochiamata tra medico e paziente in cui non ci sono elaborazioni di dati sanitari, questo software non deve essere certificato. Per questo tipo di interazione, piattaforme come Skype sono più che sufficienti.
“Se durante la visita – sottolinea Pillon – misuro la pressione del paziente, e integro il tutto con un medical device apposito, a questo punto l’integrazione con questo dispositivo medico rende tutto un medical device. Se all’interno della televisita faccio una teleauscultazione è ovvio che sto usando un dispositivo medico”.
Proprio per dirimere questioni come quella di cui si discute, l’Istituto Superiore di Sanità insieme con il Ministero della Salute hanno costituito l’Osservatorio SAMD (software as medical device).
L’obiettivo principale dell’Osservatorio è la definizione di metodologie per la classificazione e la valutazione di software stand-alone come dispositivi medici (SaMD) e dei software non DM (SnMD), ma comunque di interesse per la salute, per favorire la sorveglianza e un’adozione regolata.
L’interoperabilità è un requisito chiave per il fascicolo sanitario elettronico
Parlando di piattaforme, non si può non citare l’interoperabilità, vale a dire la capacità dei vari sistemi informativi delle Aziende Sanitarie di poter “parlare” fra di loro e poter scambiare dati in completa sicurezza. Su questo fronte c’è ancora molto lavoro da fare, soprattutto sul fascicolo sanitario elettronico.
Ma come ricorda Sergio Pillon, a inizio marzo è stato approvato un decreto sul riordino delle competenze dei ministeri (decreto-legge 1° marzo 2021, n. 22 ) che, tra le altre cose, attribuisce al Presidente del Consiglio compiti di promozione e coordinamento in materia di innovazione tecnologica e transizione digitale. E a quanto pare è una bella notizia.
“Il decreto – spiega l’esperto – ha istituito il Comitato interministeriale per la digitalizzazione presieduto dal Presidente del Consiglio o dal Ministro competente per la digitalizzazione. Il comitato, che dovrà occuparsi anche di fascicolo sanitario elettronico e banche dati sanitarie, è considerato un asse strategico nazionale. Questo apre degli scenari interessanti di coordinamento nazionale, incluso quello della cybersecurity. In Italia, infatti, c’è un organismo nazionale, il “Computer Incident Security Response Team” che sta ragionando sulla sicurezza digitale dei dati in sanità: sono forse troppo importanti per lasciarli alla semplice competenza regionale”.
L’esperienza sul campo: il caso della Asl di Frosinone
Al di là dei tecnicismi, la vera sfida è essere operativi il prima possibile e iniziare a usare la telemedicina laddove sia possibile e soprattutto abbia senso farlo.
Pillon racconta la sua recente esperienza come responsabile della trasformazione digitale della Asl di Frosinone: “Al mio arrivo ho trovato una quindicina di progetti presentati da colleghi di buona volontà, ma che purtroppo non erano diventati operativi. Spesso è mancata da parte della direzione strategica dell’azienda l’abilità di far funzionare un progetto interessante: qui noi avevamo già da un anno e mezzo 15 postazioni di telecardiologia territoriali, perché le apparecchiature per queste cose costano anche poco, non è come comprare una TAC per la quale devi fare tre gare europee”.
Il problema è che per quanto ci sia l’interesse, il carico di lavoro che richiede questo nuovo approccio non è sostenibile dai medici ospedalieri; mentre gli specialisti territoriali, secondo Pillon, avendo contratti a tempo, sono ben contenti di avere un flusso orario aggiuntivo per poter erogare queste prestazioni.
La vera sfida è essere operativi il prima possibile
Ad esempio, il cosiddetto “sumaista” (lo specialista ambulatoriale interno) effettua quattro ECG in un’ora, in telecardiologia potrebbe farne otto in un’ora. “Questo rende l’azienda ben più efficiente – evidenzia Pillon – senza contare che con la telemedicina le persone che devono sottoporsi a un ECG possono evitare di spostarsi: è evidente che ci sono delle straordinarie opportunità”.
Detto questo però, i problemi dell’applicazione della telemedicina che esistevano prima della pandemia sono ancora presenti: ad esempio, chi configura le apparecchiature per il paziente che servono per il telemonitoraggio, a partire dalle app?
Sono stati creati kit da collegare agli smartphone che si possono consegnare ai pazienti senza bisogno di un infermiere di comunità (basta una persona delle cooperative che collaborano con la ASL), ma una volta completata l’installazione di queste apparecchiature, chi le recupera e le sanifica? Questi sono i processi operativi da imparare a gestire. Quegli aspetti della telemedicina di cui non si parla mai e che invece sono essenziali per poter eseguire questo tipo di visita.
Telemedicina in ascesa, ma lentamente: un problema culturale?
Prima dell’arrivo della pandemia il gap digitale in Italia era notevole, sia tra i pazienti, sia tra i medici. Ma la Covid-19 ha spazzato in un colpo buona parte del digital divide, perché le persone si sono ritrovate, dall’oggi al domani, a poter contare solo sulla tecnologia per lavorare, far frequentare le lezioni scolastiche ai figli, mantenere le relazioni con i parenti, anche anziani, che non potevano ricevere visite. E, da ultimo, curarsi.
“La percezione della telemedicina è cambiata con l’impatto pandemico – ha sottolineato Locatelli – se il 33% dei medici di medicina generale era già convinto dell’utilità di questi strumenti, questa percentuale è salita al 95% dopo l’esperienza della pandemia, quindi un cambiamento molto forte. Anche i medici specialisti sono passati da un 34% a un 70%, perché hanno percepito l’urgenza del cambiamento, hanno capito che questi strumenti servivano e quindi a quel punto anche la logica delle competenze è diventata più proattiva”.
Bisogna lavorare molto sulla cultura digitale non del singolo ma del sistema
Bisogna ancora lavorare molto sulla cultura digitale, non solo pensando al singolo, ma considerando anche il sistema. Diverse aziende sanitarie in Italia stanno mettendo in campo attività che hanno l’obbiettivo non solo di formare ma di aumentare anche la consapevolezza sul valore di questi sistemi. “Ad esempio – riprende Locatelli – l’ASL di Latina sta facendo una serie di azioni di questo genere proprio per far crescere complessivamente i vari attori, in questo caso agendo soprattutto sui medici ospedalieri, gli specialisti del territorio e i medici di medicina generale. È chiaro che idealmente bisognerebbe, almeno in un’ottica di azioni informative, arrivare fino al paziente”.
“Qui a Frosinone – riprende Pillon – abbiamo fatto qualcosa che da altre parti, per quel che mi risulta, ancora non si è fatto: in una conference call abbiamo riunito il primario dell’infettivologia e tutti i medici di medicina generale e pediatri di libera scelta del nostro territorio per parlare della gestione domiciliare della Covid e in particolare per gestire al meglio il trattamento con gli anticorpi monoclonali: i medici di base spesso prescrivevano questi trattamenti o troppo presto o troppo tardi, ci mandavano i pazienti quando già il trattamento antivirale non si poteva più somministrare, oppure il cortisone iniziato troppo presto prolungava la malattia. Abbiamo dato loro un indirizzo e-mail, un riferimento telefonico, un orario in cui chiamare in caso di necessità. Inoltre, stiamo lavorando per trovare nuove soluzioni tecnologiche, coinvolgendo giovani medici e ingegneri clinici per proporci nuove idee”.
Perché non tutto quello che serve si trova sul mercato, anzi spesso se ne trova solo una parte.
Ma quanto costa la telemedicina?
Con le linee di indirizzo approvate lo scorso dicembre si sono di fatto equiparate le visite in presenza a quelle da remoto anche per quanto riguarda i costi.
“Questa scelta è coerente con una fase di avvio dell’utilizzo – specifica Locatelli – per spingere sulla diffusione di queste modalità. Peraltro ha anche una sua logica nel fatto che non cambia la prestazione sanitaria, ma solo la modalità di erogazione. Però, man mano che cresce l’esperienza sull’utilizzo, bisognerebbe andare a misurare sul campo i costi e l’efficacia. Ci sono alcune aziende sanitarie pubbliche che stanno iniziando ad andare in questa direzione, perché vogliono capire anche la sostenibilità per tutte le tipologie di prestazione e di ambito di patologia”.
Misurare serve per migliorare, anche in termini di indicatori di esito e costi
Ci sono delle logiche di indicatori di efficacia e in parte anche di costi definite a livello nazionale, e l’Istituto Superiore di Sanità sta lavorando sulla valutazione economica degli ambiti di telemedicina: dopo un periodo in cui le singole iniziative locali inizieranno a raccogliere e costruire delle evidenze e i tavoli a livello nazionale costruiranno prove a livello più centrale, si andrà a far convergere queste informazioni per fare uno step ulteriore e quindi capire come queste tariffazioni possano essere limate e ottimizzate, dove ne emerga l’esigenza.
In ogni caso, misurare serve per migliorare. Gli indicatori di efficacia di esito sono molto importanti per capire come e quando erogare una prestazione in telemedicina e occorre tenere conto che possono essere diversi da disciplina a disciplina, da tipologia a tipologia anche solo rimanendo all’interno della televisita. Su questi aspetti, quindi, deve essere svolto un lavoro importante, con l’auspicio che venga mantenuto un allineamento delle varie realtà regionali per evitare di avere disparità nell’accesso ai servizi.
Telemedicina e farmacia
La farmacia in questa pandemia ha dimostrato di essere un elemento importante di assistenza, il primo punto di riferimento per i pazienti e continua a esserlo. E in molti casi in farmacia sono stati erogati servizi di telemonitoraggio.
“Credo che la farmacia, data la sua presenza e penetrazione nel territorio, debba essere inserita in questo percorso di telemedicina – commenta Locatelli – è chiaro che poi deve essere connessa con personale clinico che possa interpretare i dati raccolti. Ma credo che le farmacie potrebbero innestarsi in quella logica di continuità assistenziale del paziente sul territorio, interagendo con gli altri anelli in questa catena. La sfida è riuscire a farlo in una logica di servizio pubblico, anche perché se non lo si fa così si muove poi il privato che mette in campo altre soluzioni”.
La continuità assistenziale del servizio pubblico si può realizzare nelle farmacie?
Per Pillon la questione va chiarita sotto il profilo metodologico: “La telemedicina va prescritta. Se vado in farmacia per fare ECG per poter andare in palestra, può avere senso. Se lo faccio perché ho dolore al petto non va bene: in quel caso è il medico che deve prescrivere un elettrocardiogramma, che poi, eventualmente, può fare in farmacia”.
Al momento si possono fare da remoto solo le seconde visite e i follow-up, per cui si tratta di esami che sono per forza richiesti dal medico, non può essere il paziente a fare la richiesta.
I privati, a quanto pare, si stanno muovendo anche su questo fronte, per attivare la telemedicina fin dalla prima visita: “Così facendo però – rimarca l’esperto di sanità digitale- si può mettere a rischio la vita delle persone o quantomeno si agisce in un modo non efficiente e con il rischio di sprecare soldi”.
La telemedicina non si improvvisa
A Sergio Pillon abbiamo chiesto se secondo lui i medici fossero pronti a usare finalmente la telemedicina in Italia. La risposta lascia pochi dubbi: “Il medico che ha paura dell’ignoto è un medico ostile, il medico informato è un medico che non solo ti sta al fianco, ma ti corre avanti”.
Informato, formato, competente. E con volontà di imparare, di apprendere e mettersi in discussione. Queste sono le caratteristiche che devono avere i medici oggi per utilizzare la telemedicina in modo sensato.
Le Società Scientifiche si sono attivate, serve anche l’intervento delle Università
“Diverse società scientifiche si stanno muovendo per definire un consenso generale sulla telemedicina e per organizzare webinar formativi – ribadisce Pillon – come la Società italiana di reumatologia e quella degli oncologi. I cardiologi si muovono da tempo. Noi chiediamo anche l’aiuto delle aziende del farmaco che sono tradizionalmente i nostri grandi sponsor di eventi e ci aiutano perché sanno di cosa stiamo parlando: anche le modalità di promozione del farmaco sono cambiate; l’informatore scientifico ormai non va più in studio, la promozione del medicinale si fa online”.
Il punto è che oggi pochi medici sanno fare telemedicina. Per cui, oltre alle singole iniziative delle Società Scientifiche, anche il mondo universitario deve darsi da fare, offrendo corsi di telemedicina agli studenti.
“In Israele – continua Pillon, che è anche Direttore Medico del CIRM, Centro Internazionale Radio Medico – non puoi fare telemedicina se non hai almeno 5 anni di esperienza nella pratica e poi devi fare un training specifico. Al CIRM ci sono professionisti che hanno anche dieci anni di esperienza, ma devono fare due tre mesi di training per entrare in servizio”.
Un altro aspetto da considerare sono le competenze delle Direzioni Generali: “Ci sono dei direttori generali illuminati – afferma Pillon – ma in altri casi le direzioni aziendali non hanno invece le competenze per guidare questo cambiamento. In questo caso deve esserci un’azione intrapresa dal Ministero, occorre modificare il profilo professionale obbligatorio per fare il direttore generale, perché la trasformazione viene dal basso, ma va guidata dall’alto”.
Le sfide sono molte, ma il cambiamento culturale è in atto: i medici specialisti e territoriali stanno comprendendo non solo il potenziale ma anche il valore aggiunto della telemedicina. Si tratta solo di applicarla nel modo più efficiente possibile. E i pazienti, a quanto pare, non faranno fatica ad adattarsi e ad apprezzare questo nuovo modo di ricevere assistenza medica.