Un mondo GEN_tile: un viaggio tra fertilità, transizione e desiderio di vita

Il dottor Maurizio Bini, tra i pionieri della PMA e dell’accompagnamento alla transizione di genere, racconta a TrendSanità 35 anni di lavoro al confine tra scienza, etica e umanità. Protagonista del documentario Gen_, presentato al Sundance Film Festival, ha fatto nascere migliaia di vite — biologiche e identitarie

In 35 anni di attività presso il reparto di Diagnosi e terapia della sterilità e crioconservazione dell’Ospedale Niguarda di Milano, il dottor Maurizio Bini e la sua équipe hanno fatto nascere migliaia di bambini tramite fecondazione assistita, e hanno accompagnato oltre 7.000 persone in percorsi di transizione di genere. Due facce dello stesso impegno: tra nascite e rinascite.

Protagonista del documentario Gen_ di Gianluca Matarrese, presentato a marzo al Sundance Film Festival, Bini ha attraversato territori complessi, medici, legali, etici, portando avanti con competenza e umanità un lavoro di frontiera.

Dai primi anni ’90, ha gestito non solo la più grande banca dei gameti d’Italia, ma anche situazioni cliniche e personali profondamente intime, a volte paradossali, come quella di una giovane nata da fecondazione assistita che, a 19 anni, è tornata per iniziare la propria transizione di genere e, in seguito, ha scelto di diventare madre con la stessa tecnica.

Bini, con una formazione che spazia dalla ginecologia alla filosofia, difende il diritto alla cura anche oltre i limiti normativi, scegliendo ciò che è giusto più che ciò che è solo legale. La sua équipe integra competenze mediche e psicologiche, perché la transizione di genere, come sottolinea, «non è solo una questione di ormoni o interventi chirurgici, ma dell’essere nella sua interezza».

Nel documentario, il regista racconta un’umanità invisibile, fatta di dolore, attesa e trasformazione, ma anche di dignità e possibilità. Un’intimità che diventa politica, in un servizio pubblico italiano che all’estero suscita stupore e ammirazione.

Nel documentario si racconta la sua esperienza tra fecondazione assistita e transizioni di genere. Che cosa accomuna questi percorsi così diversi?

«Un’antropologa americana ha scritto che ci sono solo due situazioni nelle quali un soggetto prende ormoni ad alte dosi per dare origine a una nuova vita: la PMA (Procreazione Medicalmente Assistita) e l’affermazione di genere. In tutte due le situazioni si parte poi da vistose ferite psichiche (senso di insufficienza e capacità per le persone sterili e senso di  stridente inadeguatezza corporea per i disforici) e si giunge a cicatrici fisiche (tagli cesareo, episiotomia, mastectomia, vaginoplastica, ecc.). In questo viaggio un accompagnamento che lenisca e non acuisca le sofferenze è necessario».

Ci sono due situazioni nelle quali un soggetto prende ormoni ad alte dosi per dare origine a una nuova vita: la Procreazione Medicalmente Assistita e l’affermazione di genere

Ha aiutato migliaia di persone a nascere o a rinascere. Come è cambiato nel tempo il suo modo di vedere la medicina e il ruolo del medico?

«In un conto approssimativo nella mia ormai lunghissima vita lavorativa, ho incontrato circa 7.000 persone con un più o meno strutturato desiderio di cambiare genere e qualcuno in più ho aiutato a nascere. Per il settore della disforia il cambiamento maggiore riguarda la popolazione perché, 30 anni fa, per ogni persona con sesso attribuito maschile alla nascita che chiedeva di transitare c’era solo una persona con sesso femminile attribuito alla nascita che voleva fare la stessa cosa. Oggi il rapporto si è invertito stabilizzandosi sul 6 a 1 a favore delle nate femmine. Questo enorme cambiamento ha derivazioni sia positive che negative: esprime sia il giusto riconoscimento delle istanze del femminile prima marginalizzate ma anche un progressivo spostamento politico verso regimi meno liberali che vogliono chiaramente distinguere i maschi dalle femmine per poter loro attribuire compiti diversi (e in genere quelli per il femminile sono meno nobili).

Maurizio Bini

Il secondo grande cambiamento è stato l’abbassamento dell’età media, che è calata di quasi 4 anni nell’ultimo decennio e che ha comportato un coinvolgimento sempre più massiccio di persone minorenni. La famiglia non fa più da argine e se prima il compito medico era quello di convincere i genitori che sarebbe stato impossibile ostacolare l’inevitabile, oggi siamo più impegnati a far comprendere che forse decisioni così importanti necessitano livelli di maturazione ancora non raggiunti. Il terzo fondamentale cambiamento è stato sul piano giudiziario legislativo perché dal 2015 anche nel nostro Paese non è più necessaria la preventiva correzione fisica chirurgica per approdare al cambio anagrafico. Questo comporta nuove sfide e attenzioni (soprattutto sul versante contraccettivo) per la presenza di persone ancora fertili nel loro sesso di partenza ma con anagrafica già definitiva nel sesso di arrivo».

In Italia esistono regole molto precise in materia di fertilità e transizioni di genere, ma lei afferma che non sempre ciò che è legale coincide con ciò che è giusto. Come affronta queste situazioni di confine? E come concilia l’etica personale con la responsabilità verso le persone?

«Anche durante il conclave si preparano 3 vestiti di taglia diversa e 7 paia di scarpe di diversa misura per il Papa perché, anche all’apice della verità rivelata, si capisce che alcune cose vanno adattate. Non incito quindi all’illegalità ma solo alla scelta, nelle aree lasciate scoperte dalla legislazione che ovviamente non può star dietro né alla complessità umana né a quella delle tecniche, alla cosa più utile al paziente e non a quella più tutelante per l’operatore.

Noi lavoriamo sull’invisibile (l’embrione deve essere ingrandito 400 volte per essere visibile) e sul super-sensibile (identità umana) e l’etica dobbiamo portarcela da casa al di là di ogni tentativo forzoso di imporcela per legge

Sempre per rimanere in ambito ecclesiastico, mi viene in mente una storia sui rischi professionali che Papa Francesco raccontava sempre al giurista cardinale Burke: “Il rischio per un filosofo è quello di perdere la ragione, per un teologo è quello di perdere la fede e per un giurista quello di perdere tempo”. E, come si sa, i pazienti sono tanti e il tempo è poco».

C’è un episodio, tra i tanti che ha vissuto, che secondo lei racchiude il senso più profondo del suo lavoro? Una storia che ancora oggi le torna in mente e le ricorda perché ha scelto questa strada?

«I casi sono infiniti. In campo riproduttivo mi piacciono soprattutto quelli in cui il servizio pubblico è riuscito a risolvere il caso dopo infruttuosi viaggi e spese inenarrabili perché queste situazioni si portano dietro di più della semplice gravidanza, anche il senso del limite sulla possibilità di acquistare tutto col denaro e la rinnovata consapevolezza che la fiducia negli operatori in campo sanitario valga più di qualsiasi altra cosa.

Nel campo della transizione mi piacciono soprattutto le persone che riescono a non oscurare con i loro bisogni impellenti i diritti degli altri, che comprendono le difficoltà genitoriali e parentali nel percorso di affermazione di genere dei propri figli, che considerano gli operatori, pur con le loro necessità di approfondimento conoscitivo, come alleati e non soggetti ostacolanti. Mi ricordo un giovane ragazzo che, quando confessò a sua nonna di voler cambiare genere, all’affermazione “Lo sai che andrai all’inferno!” rispose con un sorriso: “Grazie nonna, so che questo è il meglio che tu puoi fare”. Tendiamo a un mondo così GEN_tile».

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Ivana Barberini
Giornalista specializzata in ambito medico-sanitario, alimentazione e salute