Risale al 27 marzo 1992 il decreto istitutivo del 118, il servizio sul territorio di emergenza-urgenza. Trent’anni fa, il Ministero e le Regioni hanno cercato di fare chiarezza rispetto all’esistente, che allora si limitava al volontariato e a qualche sporadica sperimentazione.
Con la strage alla stazione di Bologna del 1980 fu chiaro che serviva un sistema che andasse oltre la disponibilità e la buona volontà dei singoli: era necessario un coordinamento che permettesse di fornire la migliore assistenza possibile per il tipo di trauma o lesione riportata.
Per la prima volta trent’anni fa il soccorso extra-ospedaliero venne coordinato con quanto avveniva all’interno dei nosocomi
Da quel momento, però, la strada fu lunga e piuttosto in salita: in occasione dei mondiali di calcio di Italia ’90, per esempio, Bologna e Udine furono collegate per la prima volta a una centrale operativa che rispondeva al numero unico 118, ma occorrerà aspettare altri due anni affinché il servizio sia disponibile sull’intero territorio nazionale.
Per la prima volta, comunque, trent’anni fa il soccorso extra-ospedaliero venne coordinato con quanto avveniva all’interno dei nosocomi. Fino a quel momento, il Servizio sanitario nazionale entrava in gioco all’ingresso del Pronto soccorso. Capire come raggiungerlo spesso spettava alla persona ferita o a chi la accompagnava (familiari o volontari).
Dopo tre decenni, tuttavia, la realtà è rimasta cristallizzata a quella fase iniziale: oggi abbiamo modelli organizzativi e gestionali diversi da Regione a Regione, spesso addirittura a livello provinciale. I più ottimisti parlano di situazione a macchia di leopardo, gli altri di vera e propria giungla.
I punti per rilanciare il sistema
Oggi il 118, un sistema nato con la volontà di ridurre le morti evitabili e le disabilità legate a incidenti o condizioni patologiche improvvise, risponde alle richieste di soccorso attraverso una complessa flotta di mezzi diversificati per tipologia di assistenza e coordinati da una centrale operativa. Chi risponde al numero unico è in grado di effettuare una prima valutazione e inviare quindi il mezzo e i professionisti più adatti per il tipo di assistenza richiesta. Chi arriva sul posto, dopo aver stabilizzato il paziente, lo condurrà all’ospedale in grado di garantirgli le migliori cure. Che non per forza è quello più vicino.
“Sono passati 30 anni dal decreto con cui il presidente della Repubblica istituiva il 118: una norma all’avanguardia, ma ora serve un po’ di aria fresca”. Guido Villa, responsabile scientifico della Siems, la Società italiana emergenza sanitaria, commenta così la necessità di riforma del sistema.
Per metterla in pratica, secondo l’esperto, “è necessaria una revisione del sistema 118 che uniformi il più possibile l’esistente e che abbia una visione più moderna, per garantire una migliore efficienza e un’efficacia operativa adeguata”. Per fare questo, però, si deve partire da dati di attività aggregati e uniformi che la maggioranza dei 118 provinciali, da soli, non sono in grado di produrre.
Proprio per fotografare le difformità territoriali, la Siems, in collaborazione con la Siiet (la Società italiana infermieri emergenza territoriale), ha condotto una survey nel nostro Paese che delinea la situazione del sistema di soccorso pre-ospedaliero nei primi sei mesi del 2021. “La nostra indagine ha fornito una fotografia precisa delle differenze e delle lacune dei vari sistemi 118 esistenti in Italia – afferma Villa – Le soluzioni, secondo noi, sono ben espresse nella Carta di Riva”.
Il documento citato è stato firmato, nel settembre 2021, da tutti gli attori del sistema di emergenza-urgenza: le società scientifiche che rappresentano medici, infermieri e soccorritori, le federazioni, i sindacati e il mondo del volontariato (Croce Rossa, Anpas e Misericordie d’Italia). La Carta riassume in 13 punti gli step necessari per un sistema efficiente e omogeneo a livello nazionale. Si va da una maggiore integrazione con l’ospedale al coordinamento tra le varie figure professionali, fino al pieno riconoscimento delle associazioni di volontariato.
Passare dalle parole ai fatti, però, è più complicato: “L’emergenza Covid-19 e quella, fortunatamente indiretta, della guerra ci insegnano che solo un sistema centralizzato può declinare in modo rapido ed efficace le corrette azioni per rispondere ai problemi che quotidianamente si devono affrontare – rileva Villa – La disomogeneità territoriale, a livello organizzativo e operativo, si ripercuote infatti sulle performance dell’intero sistema. E questo vale soprattutto per le aree al confine tra territori di competenza diversi”.
Uniformare i modelli significa anche valorizzare tutte le competenze, per raggiungere una piena collaborazione inter-professionale
Uniformare i modelli significa anche valorizzare tutte le competenze, per raggiungere una piena collaborazione inter-professionale. “Per evolvere e restare sempre più vicini ai cittadini il 118 deve uscire dai vecchi schemi, guardando alle innovazioni organizzative, tecnologiche e formative”. Il riferimento è anche alla geolocalizzazione satellitare per poter attivare, tra le altre cose, la telemedicina e il teleconsulto nei vari scenari critici.
Infine, la variabile tempo, la nemica numero 1 del 118: “È necessario un arrivo rapido, ma questa è solo una parte del problema – afferma Villa – La popolazione deve essere addestrata a effettuare le manovre di primo soccorso in attesa dell’arrivo del personale preposto”.
Il nodo dei volontari
Nella gestione dell’emergenza 118, accanto al personale sanitario, ci sono i soccorritori volontari. Il sistema si è via via professionalizzato, ma queste figure continuano a costituire una percentuale significativa. Si stima che le tre associazioni principali (Croce rossa italiana, Anpas e Misericordie d’Italia), con i loro 300.000 iscritti complessivi, assorbano circa il 70-80% dei servizi.
Figura 1. Composizione équipe di soccorso per area territoriale nel 2021
Fonte: survey Siems-Siiet
Il bandolo della matassa va ricercato prima del 1992, quando l’assistenza territoriale, anche in emergenza, era svolta proprio da chi metteva a disposizione il proprio tempo gratuitamente. Negli anni, i volontari hanno continuato a guidare i mezzi e a fornire le prime manovre di soccorso, anche per una questione di contenimento dei costi.
La Fiaso ha infatti stimato che un’ambulanza con a bordo solo personale dipendente costa allo Stato tra i 700.000 e il milione di euro all’anno, mentre grazie ai volontari si scende a 250.000. Delle 12 realtà analizzate da Fiaso (i dati sono relativi al 2015), emerge che il 55% dei mezzi di soccorso che circolano su gomma hanno un allestimento di base, il 30% hanno un infermiere a bordo e il 15% prevedono la presenza di un medico.
“A trent’anni dalla nascita del sistema 118, abbiamo la sensazione di essere in ritardo, tanta è l’urgenza di riorganizzare e uniformare a livello nazionale il sistema 112/118 tenendo conto anche delle esperienze maturate durante la pandemia – afferma Daniele Orletti, presidente di Coes Italia, l’associazione nazionale degli autisti di ambulanza e autisti soccorritori professionisti – La carenza strutturale dei medici di emergenza territoriale è assodata e comporta la necessità, ispirandosi a virtuosi modelli organizzativi regionali o di altri Paesi nord europei, di ottimizzare le risorse e puntare a una piena valorizzazione delle competenze infermieristiche e a cascata quelle della componente tecnica del soccorso”.
L’Italia sta lentamente adottando il numero di emergenza unico europeo 112: una centrale operativa smista le chiamate rivolte alla polizia, ai vigili del fuoco, quelle per l’assistenza sanitaria e l’assistenza in mare. Al momento nel nostro Paese il numero è attivo in 11 Regioni, mentre in tutte funziona ancora il 118.
Per il presidente di Coes Italia, molti interventi a bassa criticità possono essere gestiti dai mezzi base mentre, in proporzione alla complessità della missione, è fondamentale poter disporre dell’adeguato equipaggio Als, con infermiere o con infermiere e medico oltre all’autista.
“Dal nostro punto di vista, dando per assodato che alla guida dei mezzi di emergenza base ed Als ci sia sempre l’autista soccorritore, appare fondamentale l’istituzione del suo profilo professionale, volto a uniformare competenze e standard formativi. Questo serve per definire il perimetro di azione a prescindere dal fatto che l’operatore sia un dipendente del servizio pubblico, privato o un volontario. Ciò che rileva è la competenza e la preparazione a svolgere un determinato ruolo: oggi abbiamo a disposizione tecnologie sempre più avanzate che, per essere utili, devono essere usate correttamente”. Coes Italia chiede quindi di equiparare la formazione degli autisti soccorritori, indipendentemente dall’inquadramento contrattuale.
“I dati raccolti dall’apposito osservatorio del Coes Italia dimostrano che, nelle aree in cui ci sono più professionisti formati e addestrati attraverso corsi specifici sulla guida in emergenza, gli incidenti che vedono coinvolti i mezzi di soccorso sono inferiori rispetto alla media nazionale”. Il report, prodotto annualmente da Coes Italia, deduce i dati dalle notizie giornalistiche e dalle segnalazioni di soci e simpatizzanti presenti capillarmente su tutto il territorio nazionale.
Figura 2. Incidenti avvenuti nel 2021 in cui sono stati coinvolti mezzi di soccorso
Fonte: Osservatorio Coes Italia
“Auspichiamo possa essere prevista per tutti gli operatori la formazione alla guida in emergenza e alle attività di soccorso – continua Orletti – Questo dovrebbe avvenire anche nel mondo del privato, costituito in varie forme giuridiche, assegnatario dei trasporti non prevalentemente sanitari e del trasporto sangue ed emoderivati. Chi guida un’ambulanza o un veicolo speciale di emergenza sanitaria deve avere la capacità di garantire la sicurezza dei trasportati e degli altri utenti della strada. La guida in emergenza non si esaurisce soltanto nel premere l’acceleratore: gli operatori vanno formati, informati e tutelati. Purtroppo non sempre chi si mette alla guida di questi mezzi lo è a sufficienza, è nostro compito sensibilizzare su questa tematica”.
Come migliorare
Negli anni è cambiato anche il modo di soccorrere le persone. Inizialmente, il modello adottato era lo “scoop and run”: l’obiettivo era portare il paziente all’ospedale più vicino nel minor tempo possibile. Con il tempo, si è passati gradualmente allo “stay and play”: soccorritori e personale sanitario assicurano tutta l’assistenza necessaria sul posto, spostando il paziente dopo averlo stabilizzato. Una volta effettuate le prime manovre, lo conducono poi all’ospedale più appropriato per trattare la sua patologia o il suo problema, non al più vicino.
Da tempo il Parlamento sta discutendo su come migliorare l’efficienza e l’efficacia del servizio 118, garantendo l’uniformità sul territorio senza rinunciare alle risorse umane disponibili.
Da tempo il Parlamento sta discutendo su come migliorare l’efficienza e l’efficacia del servizio 118, garantendo l’uniformità sul territorio e la valorizzazione delle risorse umane
La Sis118, la Società italiana sistema 118, chiede una professionalizzazione spinta del servizio e un calcolo dei mezzi di soccorso necessari basato anche sul fattore tempo: si deve poter raggiungere un paziente in codice rosso in 8 minuti dalla chiamata alla centrale operativa se questo si trova in area urbana, in 20 minuti al massimo se è fuori. La società scientifica ritiene inoltre fondamentale prevedere un medico e un infermiere ogni 60.000 abitanti.
Il Pnrr non prevede risorse dedicate alla macchina dell’emergenza-urgenza, sebbene il modello organizzativo della Centrale operativa territoriale dovrebbe coordinarsi anche con il sistema dell’emergenza-urgenza.
Tra le proposte che le Camere stanno discutendo, c’è, come anticipato, quella dell’uniformare la formazione tra volontari e professionisti. “Capisco la rivendicazione dei dipendenti degli operatori pubblici, che vogliono vedersi riconosciuto il loro ruolo – afferma Fabrizio Pregliasco, presidente di Anpas – Il problema è che un percorso formativo, per un volontario, non può essere di mille ore, come da loro indicato. La nostra proposta è di 200 ore”.
Pregliasco riconosce la necessità di uniformare il sistema, nella piena valorizzazione dei ruoli: “Il volontario è un primo sensore che garantisce la capillarità sul territorio, l’economicità e la diffusione di informazioni tra la popolazione. Come volontari chiediamo il coordinamento con tutti i professionisti. Anche noi siamo impegnati nel riconoscimento della figura dell’autista soccorritore e auspichiamo di trovare una soluzione di mediazione rispetto a quanto richiesto da alcuni sindacati”.
Per Pregliasco infatti il volontario non sostituisce il professionista: “Dobbiamo lavorare a una regia comune, un lavoro di squadra che garantisca appropriatezza al sistema. Molti trasporti, anche nel contesto del 118, possono essere eseguiti con risorse e qualifiche degli operatori più basse, da graduare in base alle situazioni critiche”.
In tema di formazione, le difformità tra gli stessi professionisti sanitari, a livello regionale e provinciale, sono notevoli
In tema di formazione, il problema appare serio: la survey Siems-Siiet ha messo in luce una difformità a livello regionale e a volte provinciale tra gli stessi professionisti sanitari. Solo il 53,6% delle realtà analizzate richiede per esempio a medici e infermieri sia l’esperienza in area critica sia un percorso formativo per la gestione delle emergenze. Nel 19% dei casi sono sufficienti requisiti formativi e nel 13,6% sono richiesti soltanto quelli esperienziali. Infine, nel 12% dei casi non è richiesto alcun requisito specifico per salire sui mezzi di soccorso avanzato. Si ritiene infatti che sia sufficiente l’esperienza che il sanitario svolgerà sul campo. “Riteniamo fondamentale uniformare i vari percorsi: i requisiti per l’accesso ai mezzi di soccorso dovrebbero essere i medesimi a livello nazionale e dovrebbero essere previsti ovunque corsi di aggiornamento”, conclude Guido Villa.
Figura 3. La variabilità dei requisiti 2021 per infermieri a bordo dei mezzi di soccorso
Fonte: survey Siems-Siiet