I modelli non sono oracoli

Alessandro Vespignani, tra i massimi esperti mondiali di epidemiologia computazionale, racconta a TrendSanità qual è il futuro della previsione delle malattie infettive. Si va dall’organizzazione capillare a livello sovranazionale a una rete di sentinelle negli aeroporti per misurare lo spostamento dei virus

Da sempre l’uomo è spinto dalla voglia di conoscere il futuro: oggi la scienza permette di sapere che cosa succederà a livello statistico. Che si tratti del meteo, della diffusione delle malattie o del cambiamento climatico, possiamo avere previsioni o scenari più o meno accurati. 

Alessandro Vespignani è un epidemiologo computazionale e fa per l’epidemiologia proprio quello che i fisici fanno per la meteorologia: costruisce modelli per prevedere l’impatto di un evento, che nel suo caso non è atmosferico, ma riguarda la salute delle persone.
Il laboratorio che dirige si occupa di costruire modelli biologici e sociali all’interno del Network Science Institute della Northeastern University di Boston.

«I modelli non sono oracoli – esordisce l’esperto durante l’intervista a TrendSanità -. Non sono deterministici, ma probabilistici. Questo occorre ricordarlo sempre. Se prendiamo la metafora bellica, noi epidemiologici computazionali siamo l’intelligence, non i soldati».

Che si tratti di meteo, diffusione delle malattie o cambiamento climatico, oggi possiamo avere previsioni o scenari più o meno accurati 

Tutti vorremmo risposte certe, nelle situazioni di incertezza. Ma questo non è possibile. «Prima ci rendiamo conto di questo, meglio possiamo fare nella comunicazione della scienza: gli esperti costruiscono modelli, i decisori scelgono, in base agli scenari proposti e alle loro incertezze, quali variabili considerare nel definire le politiche di intervento».

L’inizio della pandemia

All’inizio del 2020, mentre tutto il mondo sta cominciando il nuovo anno lavorativo un po’ appesantito dai festeggiamenti di Capodanno, Alessandro Vespasiani è vigile, al computer. Sta studiando come riorganizzare il suo laboratorio se la situazione epidemiologica della Cina non dovesse migliorare. Da qualche settimana infatti stavano circolando le prime informazioni su alcune polmoniti sospette in Oriente.

Tutti vorremmo risposte certe, nelle situazioni di incertezza. Ma questo non è possibile

«All’inizio la speranza era che si trattasse di qualcosa simile alla SARS del 2002 – racconta l’epidemiologo -: una malattia con pochissima trasmissione asintomatica. All’epoca non conoscevamo bene i meccanismi di trasmissione della malattia». Una volta capita meglio la sintomatologia, però, è scattato l’allarme rosso. Il 17 gennaio è stata convocata una teleconferenza alle 6 del mattino a Boston per discutere il numero di casi: «Fu subito chiaro che si trattava di un focolaio rilevante e infatti pochi giorni dopo l’OMS definì molto alto il rischio a livello globale».

Le mappe del futuro

«Spesso si dice che gli epidemiologi disegnano scenari, ma è sbagliato: noi modellizziamo delle situazioni a partire dai dati che ci forniscono i governi e le Unità di crisi, che ci chiedono di esplorare degli ambiti a partire da alcune assunzioni. Per esempio: che cosa succederebbe se tutte le persone si vaccinassero, se imponessimo dei lockdown e così via – racconta Vespignani, che è anche presidente della Fondazione ISI a Torino, un ente che si occupa della scienza dei dati al servizio della società, includendo anche metodi previsionali per le malattie infettive -. Queste mappe del futuro, però, non vanno lette come previsioni, ma servono a chi decide le politiche sanitarie per avere un’indicazione su cosa potrebbe accadere in futuro se si verificassero certe condizioni».

Dopo molti anni in cui gli esperti hanno provato a convincere i propri governi dell’opportunità di avere un centro previsionale per le malattie infettive, finalmente gli Stati Uniti un paio d’anni fa hanno dato risposta positiva. «Il Center for Forecasting and Outbreak Analytics si trova all’interno dei CDCs e vuole essere l’equivalente del National Weather Forecast Service», esemplifica Vespignani.
Un network di una decina di centri coordinati a livello nazionale, un investimento di oltre 250 milioni di dollari. «Io sono il direttore di un centro che si chiama Centro di Innovazione Analitica, il nome è Epistorm, che si trova nella zona Nord-Est degli Stati Uniti».
Questi centri hanno un piano quinquennale che sarà rivisto costantemente e lavorano in collaborazione con il mondo accademico, i privati e i Dipartimenti di Salute Pubblica degli Stati, oltre a varie associazioni di epidemiologia territoriale. «Si tratta di un cambio di passo importante che speriamo si allarghi sempre di più».

La situazione europea

Purtroppo in Europa non è successo nulla del genere: «Io sono dell’idea che andrebbero definiti centri previsionali e analitici per le malattie infettive in ogni paese europeo, con un coordinamento intereuropeo. Alcuni paesi fanno meglio di altri, ma in generale manca una visione comune. Negli USA il sistema previsionale è multi-modello: è necessario creare un ensemble di modelli per avere delle previsioni accurate».

Da qui la necessità di creare un’infrastruttura con diversi gruppi che lavorano insieme: «Il sistema che premia la competitività tra vari team scientifici spinti a pubblicare non favorisce la creazione di un clima più collaborativo e multidisciplinare».

Mentre negli USA è stato attivato il Centro previsionale per le malattie infettive, in Europa manca una struttura simile e una visione comune di prevenzione

In Italia si sta discutendo da mesi dell’aggiornamento del Piano pandemico: «Avere un documento va benissimo, ma da solo non basta – ricorda Vespignani -. Se resta chiuso in un cassetto non serve. Bisogna che sia diffuso e che ci siano esercizi e preparazioni costanti, esattamente come quelle che la protezione civile fa per prepararsi a reagire alle calamità naturali».

La qualità del dato

«I dati sono stati la grande rivoluzione di questi ultimi 20 anni. Per tanto tempo non si riuscivano a fare modelli dettagliati. Oggi la tecnologia ci aiuta molto in questo». Per capire la diffusione globale dell’epidemia attraverso i paesi è fondamentale l’analisi del traffico aereo: «All’epoca dei biglietti cartacei era molto complicato avere dati omogenei e di buona qualità. Oggi io ho un contratto di collaborazione con l’Airline Data Schedule che ha a disposizione i dati di traffico in tempo reale e posso usarli per le previsioni».

Ma non finisce qui: oggi abbiamo anche i dati della telefonia mobile, che permettono di tracciare gli spostamenti delle persone. «È sempre importante ricordare che non seguiamo il singolo individuo, bensì pattern statistici, comportamenti medi che proteggendo la privacy dei singoli inseriamo nei nostri modelli, che riescono così ad essere molto dettagliati».

I dati sono stati la grande rivoluzione di questi ultimi 20 anni

Per il futuro si guarda a un meccanismo di sentinelle che possa monitorare l’andamento delle epidemie: «Così come in meteorologia ci sono i satelliti in orbita, noi abbiamo bisogno di osservatori, che per esempio misurino costantemente l’evoluzione dei virus – afferma Vespignani -. Con i CDCs e la Comunità europea stiamo cercando di fare una Traveler-Based Genomic Surveillance, cioè analisi metagenomiche sugli scarichi dei bagni degli aerei che permettano di vedere come si muovono per esempio le varianti di Covid».

Per avere dati a sufficienza basterebbero 20-25 sentinelle distribuite in altrettanti grandi aeroporti: «Ci sono senz’altro problemi logistici da sistemare, ma potremo permettercelo. La sfida è convincere i decisori globali della bontà di queste iniziative. Io spero davvero che queste tecnologie nei prossimi 10-15 anni possano cambiare il nostro modo di combattere i virus».

 © Photo by Matthew Modoono_Northeastern University

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Michela Perrone
Giornalista pubblicista