La presa in carico precoce dei pazienti reumatici sul territorio è un tema centrale per garantire una gestione efficace e tempestiva delle patologie reumatologiche. Il ritardo diagnostico, che può arrivare fino a 4-5 anni, porta a danni irreversibili e a significativi costi sociali e sanitari. La medicina di prossimità, che pone il paziente al centro e facilita il suo accesso alle cure, è essenziale per ridurre le disuguaglianze regionali e migliorare la qualità della vita dei pazienti. Daniela Marotto, past president del Collegio Reumatologi Italiani (CReI), a colloquio con TrendSanità, sottolinea la necessità di una rete integrata di professionisti e l’importanza del supporto psicologico e sociale.
Perché è importante una presa in carico dei pazienti reumatici sul territorio in maniera precoce, e che cosa significa?
La presa in carico precoce sul territorio è importante perché i nostri pazienti purtroppo sono gravati da un ritardo diagnostico che per alcune patologie ancora si attesta sui 4-5 anni. In patologie che per lo più sono sistemiche, infiammatorie, croniche, significa che questi pazienti vanno incontro a danni che nel momento in cui vengono presi in carico sono ormai diventati irreversibili, con una serie di costi sociali, diretti e indiretti, molto onerosi. Sono pazienti che presentano disabilità, e ad esempio vanno incontro a numerose assenze dal lavoro, con i relativi e importanti costi.
Pensiamo all’artrite reumatoide: il costo annuo dei pazienti con artrite reumatoide annuo è di 2 miliardi di euro. Cifra già rilevante e destinata ad aumentare in maniera significativa se la diagnosi viene accertata con un ritardo di alcuni anni.
Per una presa in carico precoce, per evitare questi ritardi diagnostici e terapeutici, è necessario che il paziente trovi il riferimento più prossimo al suo domicilio. La medicina di prossimità è fondamentale: fino ad oggi se ne parla tanto, nel Piano Nazionale della Cronicità e anche nel PNRR, ma alla fine il territorio rimane sguarnito. In campo reumatologico questo è ancora molto evidente, con forti disparità regionali.
In alcune regioni virtuose si può trovare un’adeguata assistenza reumatologica altre ne sono carenti.
Un aspetto importante è far comprendere che le nostre patologie sono patologie croniche e, come ben sottolineato dal PNRR, andrebbero gestite sul territorio riservando la gestione delle acuzie e delle forme più severe e complesse ai centri ospedalieri.
La medicina di prossimità è fondamentale ma in campo reumatologico ci sono ancora forti disparità regionali
La mancanza di una rete di assistenza reumatologica capillare e integrata Territorio Ospedale ritarda le diagnosi e le cure, costringendo il paziente a spostarsi per cercare il centro di riferimento a volte distante centinaia di chilometri.
La medicina di prossimità che avvicina la salute al cittadino è per il Collegio Reumatologi Italiani (CReI) un aspetto cruciale e per cui ci stiamo impegnando con forza.
Che cosa manca, quindi, sul territorio?
Quello che manca sul territorio è innanzitutto il coinvolgimento attivo del medico di medicina generale e del pediatra di libera scelta. Sottolineo questo secondo professionista perché solitamente siamo abituati a pensare alle malattie reumatologiche come patologie dell’età adulta ma questa è una considerazione da sfatare. Le patologie reumatologiche sono oltre 150, e colpiscono tutte le età anche i bambini, pertanto è importante che anche il pediatra di libera scelta, così come il MMG, conosca i campanelli d’allarme di queste malattie.
La mancanza di una rete di assistenza reumatologica capillare e integrata Territorio Ospedale ritarda le diagnosi e le cure
Essendo patologie sistemiche, la presa in carico deve essere multidisciplinare e deve prevedere che, una volta riconosciuti i segnali di allarme, il medico di medicina generale o il pediatra di libera scelta possa rapidamente inviare il paziente allo specialista di primo livello, che deve fungere da filtro. È purtroppo, di nuovo, è questa figura a mancare sul territorio: uno specialista che sia in grado di indirizzare all’assistenza ospedaliera solo i pazienti con patologie più severe, con un coinvolgimento sistemico più grave o con acuzie. In mancanza di questo filtro, tutti i pazienti afferiscono all’ospedale e l’ospedale diventa il “cronicario”, mentre invece dovrebbe essere riservato alla gestione solo del paziente con patologia acuta.
Considerando i nostri pazienti, che sono per lo più cronici, se vengono indirizzati tempestivamente allo specialista e seguiti con la terapia adeguata, si possono evitare le complicanze limitando l’attività di malattia molto raramente hanno necessità di un ricovero ospedaliero. Ogni figura ha un compito bene preciso.
Il medico di medicina in generale è fondamentale perché è la prima interfaccia con il paziente, deve poterlo prontamente inviare allo specialista di riferimento, evitando così ritardi diagnostici e terapeutici.
Lo specialista di primo livello, situato sul territorio, è il filtro che valutando il singolo caso deciderà che cosa è più opportuno fare. In questo modo si realizza una corretta rete integrata ospedale-territorio, con l’ospedale che è libero di gestire i casi più complessi e lo specialista universitario che si dedica alla ricerca.
Purtroppo, attualmente anche l’Università è oberata di attività ambulatoriali che sarebbero di competenza del territorio, e di conseguenza ha meno tempo da dedicare alla ricerca. L’ Università ha il compito importantissimo di far avanzare gli studi sui farmaci, sulle terapie, sulle patologie ne vien da se che se i ricercatori devono impegnarsi nell’assistenza di primo livello, e non di ricerca, tutto il sistema viene penalizzato.
La riorganizzazione dei servizi territoriali così come ha appena delineato potrebbe contribuire a ridurre le liste d’attesa?
Assolutamente sì. In reumatologia, il problema delle liste d’attesa è strettamente legato all’appropriatezza prescrittiva. Innanzitutto, è fondamentale che il medico di medicina generale, il pediatra di libera scelta o un altro specialista di riferimento sappiano riconoscere quando un paziente presenta effettivamente un problema di natura reumatologica. Escludendo l’invio al reumatologo per patologie non di sua competenza, si può già ottenere una significativa riduzione delle liste d’attesa.
In reumatologia, il problema delle liste d’attesa è strettamente legato all’appropriatezza prescrittiva
Un secondo elemento cruciale è la necessità di una pianificazione adeguata, basata su un’analisi accurata della domanda e dell’offerta. Senza questa valutazione preliminare, diventa inevitabile trovarsi di fronte a difficoltà organizzative. Il Collegio Reumatologi Italiani (CReI) ha già sollevato questo tema con il Ministro della Salute, sottolineando come ci siano Regioni in cui le liste d’attesa sono relativamente brevi, mentre in altre i tempi per una prima visita possono arrivare a 6, 8 o addirittura 12 mesi. Questa disparità dipende, in gran parte, dall’assenza di un’analisi approfondita delle reali esigenze territoriali.
Infine, un altro aspetto da migliorare è il monitoraggio delle liste d’attesa per le patologie reumatologiche. A differenza di altre discipline, come la cardiologia o l’urologia, in reumatologia non esiste un sistema di controllo strutturato. L’introduzione di un monitoraggio sistematico permetterebbe di ottimizzare il percorso del paziente, rendendolo più fluido e organizzato.
Quali sono le priorità per mettere in campo davvero questa rete di professionisti?
Quello che noi stiamo cercando di fare è cambiare l’approccio: il nostro obiettivo deve essere quello di “dare salute” al paziente e al cittadino, in senso globale di benessere, psico, fisico, sociale. Quindi, non dobbiamo ragionare più per specialità, ma per problemi.
In concreto, è necessario guardare alla globalità del paziente, non limitandosi a considerare solo la patologia reumatologica ma valutando anche le eventuali comorbidità. Ad esempio, se un paziente presenta artrite reumatoide o lupus con una cardiopatia associata o la presenza di diabete, è necessario poter colloquiare con gli altri colleghi per creare un protocollo terapeutico idoneo per quel paziente, anche in relazione alle terapie concomitanti che, in qualche caso, possono comportare anche delle interazioni farmacologiche.
È necessario guardare alla globalità del paziente, non limitandosi a considerare solo la patologia reumatologica ma valutando anche le eventuali comorbidità
Ma non ci si deve fermare qui: è cruciale valutare anche lo stato psicologico del paziente. Questo aspetto è determinante, ad esempio, per migliorare l’aderenza terapeutica. Un paziente supportato dal punto di vista psicologico, che sviluppa maggiore consapevolezza e accettazione della propria condizione, risponde meglio alle cure.
Un altro elemento chiave è il coinvolgimento degli assistenti sociali. Le malattie reumatologiche spesso generano ripercussioni sociali ed economiche. È quindi indispensabile supportare i pazienti nel comprendere e accedere alle leggi e agevolazioni esistenti, per la gestione della casa, ad esempio, o di altri bisogni sociali.
In questa prospettiva, nella struttura in cui opero abbiamo recentemente attivato un ambulatorio di psicoreumatologia, primo in Italia. La mia azienda, la ASL Gallura, sta abbracciando un approccio innovativo, riconoscendo l’importanza della cogestione multidisciplinare del paziente. Lo psicologo, tra i tanti aspetti, svolge un ruolo cruciale nell’aiutare il paziente a comprendere e accettare la terapia, nonché nel dialogo con i familiari. Spesso, infatti, non è il paziente a rifiutare la malattia, ma il contesto sociale circostante.
Ho visto casi di donne abbandonate dai loro partner o persone che si isolano per via delle disabilità causate dalla malattia. Grazie al supporto psicologico, i pazienti riescono ad accettare la loro condizione, comprendendo l’importanza di seguire le terapie. Questo ha un forte impatto che si ripercuote anche sui costi perché diminuisce il rischio di abbandono delle cure, che rappresenta uno dei principali problemi che affrontiamo, e la necessità di andare a utilizzare terapie più costose.
Questa esperienza, inizialmente avviata come progetto, è diventata una realtà strutturata, tanto che la ASL Gallura ha intenzione di aprire anche un ambulatorio di fisioreumatologia con fisioterapisti e ambulatori condivisi tra dermatologi, gastroenterologi e pneumologi, dove gli specialisti collaborano direttamente sul paziente. Questo approccio ha un impatto positivo anche sul paziente stesso, che si sente più seguito e supportato. E, alla fine, è proprio questo che fa la differenza.
Un’altra priorità riguarda uno degli ostacoli più rilevanti che ci troviamo spesso ad affrontare, e cioè l’accesso alle terapie. Ancora oggi, dobbiamo constatare significative limitazioni in questo ambito, in quanto gli specialisti del territorio non possono prescrivere tutti i farmaci necessari. In origine, queste restrizioni erano principalmente legate a ragioni di farmacoeconomia, poiché alcuni trattamenti avevano costi elevati ed erano riservati esclusivamente a centri di riferimento specializzati.
Oggi, però, con l’introduzione dei biosimilari, il costo di molti di questi farmaci è sensibilmente diminuito. Di conseguenza, le motivazioni economiche alla base di tali restrizioni risultano ormai superate. Anzi, se si adottasse una visione più lungimirante, si comprenderebbe che il vero valore di questi farmaci non risiede solo nel loro costo diretto, ma nel beneficio complessivo che possono offrire. Permettere agli specialisti del territorio, adeguatamente formati, di prescrivere questi trattamenti precocemente garantirebbe un miglior controllo della patologia, prevenendo complicanze e danni ulteriori. Questo non solo migliorerebbe la qualità di vita dei pazienti, ma ridurrebbe anche i costi aggiuntivi legati alla gestione delle conseguenze di una malattia non adeguatamente trattata. In sostanza, un accesso più rapido e diffuso alle terapie rappresenta un investimento sulla salute che si traduce, nel lungo termine, in risparmi per il sistema sanitario e in migliori esiti per i pazienti.