Si chiama ConvMut ed è un software tutto italiano in grado di prevedere le varianti future di un virus come SARS-CoV-2. Nato dalla collaborazione tra l’Azienda Ospedaliera Universitaria Pisana, lo Spallanzani e il Politecnico di Milano, questo strumento analizza milioni di sequenze virali e individua i punti “strategici” su cui il virus tende a mutare per adattarsi all’ospite. Un passo avanti importante per virologi e immunologi, ma anche per le politiche sanitarie e per la ricerca farmacologica, che potrebbero così anticipare l’evoluzione del virus, progettando vaccini e anticorpi monoclonali più mirati ed efficaci.
Prevedere le varianti in anticipo può cambiare il modo in cui programmiamo le campagne vaccinali
Ne parliamo a TrendSanità con Daniele Focosi, ematologo e virologo dell’Azienda Ospedaliero-Universitaria Pisana e ideatore del progetto.
Cos’è e come funziona ConvMut ?
«Prima di tutto dobbiamo capire come funziona l’evoluzione di una specie. È ben noto come molte specie viventi abbiano in comune un unico antenato, un fenomeno che si chiama evoluzione divergente. Esiste però anche il fenomeno opposto, quello in cui specie che hanno antenati molto distanti fra di loro tendono ad acquisire le stesse caratteristiche esteriori (“fenotipo”) quando condividono un ambiente comune in cui tali caratteristiche risultano vantaggiose per la loro sopravvivenza. In questo caso, prende il nome di evoluzione convergente. Ecco, ConvMut è un software di analisi dell’evoluzione convergente, unico nel suo genere, sviluppato dagli ingegneri informatici del team della Professoressa Anna Bernasconi al Politecnico di Milano, l’Università numero uno in Italia secondo i ranking internazionali. Ci sono moltissimi software che si occupano di evoluzione divergente, ma prima di ConvMut l’evoluzione convergente virale era studiata da un manipolo di volontari (me compreso) che identificava manualmente i raggruppamenti.

Per fare predizioni accurate, ConvMut però ha bisogno di tanti dati forniti in un tempo più reale possibile. Niente di meglio quindi che integrarlo dentro la piattaforma dove ricercatori di tutto il mondo depositano le sequenze dei genomi virali, chiamata GISAID. Ci siamo riusciti grazie al team del Professor Fabrizio Maggi all’Istituto Nazionale Malattie Infettive “Lazzaro Spallanzani” di Roma.
Su GISAID, infatti, ci sono oggi oltre 17,5 milioni di sequenze di SARS-CoV-2. Tra le varie funzioni di ConvMut, oltre alla creazione di mappe grafiche che raggruppano le migliaia di lignaggi di SARS-CoV-2 in pochi cluster facili da comprendere, ci sono anche informazioni su quali step evolutivi (sia a livello di genoma che di fenotipo) ha subito una data proteina, su quando è stato riscontrato per la prima volta quel lignaggio, quante sequenze ne esistono e quante altre volte si è verificato quel cambiamento in altri lignaggi. Non ci stupisce vedere che all’estremo di questi step di ConvMut si trovava mesi fa un cluster che includeva la variante XFG (Stratus), che sta ora dominando il picco di inizio autunno».
Perché è importante studiare l’evoluzione convergente di un virus?
«Perché alcuni virus (tra cui SARS-CoV-2), a differenza delle specie animali, mutano tantissimo e in poco tempo. Di SARS-CoV-2, in soli 5 anni, oggi ne conosciamo oltre 5.000 tipi diversi. Tutta questa precisione nella classificazione è stata riconosciuta per la prima volta grazie all’enorme sforzo di laboratori in giro per il mondo che hanno sequenziato e ancora oggi (sebbene con minore intensità) sequenziano il genoma virale, ma trova la sua base nella pressione immunitaria (dovuta a precedenti infezioni o vaccinazioni) a livello di popolazione. Come nell’eterna caccia tra polizia e ladro, anche il virus muta continuamente per poter sfuggire al sistema immunitario. In particolare la proteina Spike muta per sfuggire agli anticorpi neutralizzanti. Per la prima volta le tecniche moderne ci permettono di osservare questo fenomeno in modo granulare».
Prevedere le varianti in anticipo, può cambiare il modo in cui programmiamo le campagne vaccinali? Quanto siamo vicini a questo scenario?
«Credo che questo scenario sia già oggi possibile. Dopo le prime ondate COVID sostenute da una singola variante, tutte le ondate successive hanno visto la compresenza di tante varianti. In un tale scenario, scegliere il “ceppo” vaccinale con 5-6 mesi di anticipo solo sulla base della frequenza diventa molto rischioso, quanto trovare la posizione di un ago in un pagliaio. In quel lasso temporale il lignaggio dominante diventa quasi sempre un altro, spesso con molte mutazioni di differenza, e quindi il vaccino scelto ha una protezione subottimale.
ConvMut offre strumenti predittivi preziosi per vaccini e anticorpi monoclonali, ma il suo impatto dipenderà dalle decisioni degli enti regolatori
Magari in frequenza assoluta non sono ancora maggioritarie, ma c’è un trend che indica una chiara pressione selettiva che di lì a poco si svilupperà. Ad esempio, dopo i primi anni in cui a mutare era solo la porzione di legame al recettore (RBD) della proteina Spike, negli ultimi anni sta mutando molto di più la porzione all’estremo opposto, come se là ci fosse ancora molto “spazio evolutivo”. Non escludo che in un futuro imminente gli enti regolatori (WHO, EMA, FDA) non proporranno più uno specifico ceppo (come quello attuale, LP.8.1), ma un insieme di mutazioni che saranno assemblate in un costrutto sintetico, ovvero un virus che non esiste in natura. Mentre questo era quasi impossibile ai tempi dei vaccini che richiedevano virus interi attenuati o morti, tutto questo oggi è diventato relativamente facile nell’era dei vaccini a mRNA».
In che modo il software può accelerare la ricerca e la produzione di vaccini e i processi decisionali di EMA e OMS?
«I processi decisionali umani sono destinati ad avere ancora una certa latenza, ma qui possono diventare più “attuali”. L’esempio eclatante è stato il vaccino basato sulla variante XBB. Al momento in cui è stato commercializzato, quella variante praticamente non circolava più nella popolazione. Questo non significa che quel vaccino non abbia avuto una residua efficacia protettiva, ma sicuramente avremmo potuto fare di meglio se fosse stato più simile a ciò che circolava al momento della somministrazione, se si fosse potuto prevedere quali mutazioni convergenti si stavano accumulando. ConvMut rende possibile proprio questo».
Le aziende che producono anticorpi monoclonali potrebbero trarre vantaggio da questo modello predittivo anche per ridurre i tempi di risposta?
«Sappiamo come, anche in un’epoca d’oro per i monoclonali come quella del COVID in cui molte aziende hanno ricevuto finanziamenti pubblici, il tempo minimo tra disegno e commercializzazione è stato sempre superiore all’anno. Questo ha portato a molti fallimenti, ovvero anticorpi anti-Spike che hanno perso attività poche settimane o mesi dopo che il loro uso era stato approvato. Qui ConvMut può aiutare a indirizzare la pipeline su cui un’Azienda decide di investire in sperimentazioni cliniche (lunghe e costose). Se un’azienda vede che sta aumentando la prevalenza di una data mutazione che rende inefficace l’anticorpo che stanno sviluppando, fermare le sperimentazioni cliniche in corso può consentire ingenti risparmi. Al contrario vedere quali porzioni della proteina sono relativamente stabili nel tempo aiuta a identificare i bersagli migliori e quindi a focalizzare lo sviluppo preclinico».
Rendere ConvMut accessibile gratuitamente per tutti e in grado di lavorare su dati rilasciati in tempo reale sarebbe un’ottima base di partenza
Chi dovrebbe gestire e utilizzare questi dati predittivi? C’è il rischio che restino confinati alla ricerca, invece di diventare strumenti di prevenzione?
«Le scelte sono chiaramente nelle mani degli enti regolatori che raccomandano oggi la scelta dei ceppi vaccinali, OMS in primis. Non è un caso che siamo già in contatto con l’OMS per validare e presentare ConvMut e ci aspettiamo identico interesse da EMA e FDA. Il rischio che l’inerzia e il conservatorismo degli enti regolatori lasci ConvMut confinato alla ricerca c’è, ma resto fiducioso che i produttori di vaccini e anticorpi monoclonali ne apprezzino l’utilità. Alla fine sono quelle aziende a rischiare i loro capitali se i loro prodotti non funzionano bene».




