Una stima di Cergas Bocconi su dati del 2017 indica che una forbice compresa tra le 447.000 e le 543.500 persone adulte avrebbe bisogno di cure palliative nel nostro Paese. A queste vanno aggiunti 11.000 bambini con meno di 15 anni. Altri lavori parlano dell’1-1,5% della popolazione.
Un recente report uscito su The Lancet ha evidenziato come, nel mondo, si spenda molto per allungare la vita alle persone e non abbastanza per accompagnarle dignitosamente nell’ultima fase della vita, proprio a causa di un’attenzione carente nei confronti delle cure palliative.
“In realtà l’Italia destina circa il 20% delle risorse dell’intero Ssn alle cure palliative – afferma Gino Gobber, presidente della Società italiana cure palliative (Sicp) – Il problema, come spesso succede, è l’appropriatezza. In ospedale, per esempio, muoiono ancora troppe persone in reparti come la Medicina interna. Si spendono molti soldi per chi muore, ma non per garantire loro un buon percorso che li accompagni fino alla morte”.
Per Italo Penco, past president della società scientifica, la sfida è “riuscire a fare capire a tutti i professionisti l’importanza di indirizzare le persone che sono inguaribili, che non hanno più chance terapeutiche, a setting assistenziali diversi, che permettano di migliorare la loro qualità di vita”.
Sono tre le reti previste: cure palliative per l’adulto (oncologico e non), terapia del dolore e cure palliative e terapia del dolore per la popolazione pediatrica
Oggi in Italia le cure palliative sono ben definite: introdotte dalla legge 39/1999, rafforzate dalla legge 38/2010 e perfezionate dall’accordo Stato-Regioni del 27 luglio 2020, che ha definito gli elementi che devono caratterizzare le reti regionali e locali e ha avviato le procedure di accreditamento, che si sarebbero dovute completare entro un anno. La legge 106/2021, infine, ha stabilito che questo avvenga entro tre anni.
Sono tre le reti previste per la presa in carico: quella delle cure palliative per l’adulto (oncologico e non), quella della terapia del dolore e quella delle cure palliative e terapia del dolore per la popolazione pediatrica.
Una recente ricognizione di Agenas sull’attuazione delle reti di cure palliative a livello regionale ha evidenziato come quasi tutte le Regioni si stiano adeguando, sebbene a velocità diverse.
Non solo gli oncologici
Le cure palliative sono nate in oncologia, per accompagnare i malati terminali nei loro ultimi giorni. “Oggi sappiamo che il 60% di chi necessita di questo tipo di assistenza non ha nulla a che fare con il cancro, eppure non riusciamo ancora a intercettare bene questo bisogno – afferma Gino Gobber – I numeri, in oncologia, sono chiari: sappiamo perfettamente quanti sono i morti per tumore, immaginiamo che percentualmente sia molto importante la fetta che ha bisogno di un percorso di cure palliative, con intensità diversa da caso a caso. Sui non oncologici, invece, c’è ancora molta strada da fare”.
Esistono intensità diverse di cure palliative, che possono essere erogate in ospedale, negli hospice o al domicilio del paziente
Per la Sicp, il problema è anche culturale: “Siamo fermi a una definizione di cure palliative che riguarda le persone con un’aspettativa di vita limitata – osserva Penco – come chi ha un tumore incurabile, appunto. In realtà oggi questo non è più vero: si pensi per esempio a chi ha una patologia neurodegenerativa, oppure a chi soffre di dolore cronico: si tratta di persone che hanno davanti a loro molti anni di vita”. Oggi infatti si parla di complessità della malattia inguaribile: “Spesso si ritarda la presa in carico di un paziente non oncologico per il timore di iniziare il trattamento troppo precocemente. Questo significa un costo importante per le aziende sanitarie”, riflette Penco.
Lo studio di Cergas Bocconi, condotto in collaborazione con Vidas, stima anche il tasso di copertura del bisogno: “A livello nazionale, abbiamo una media che oscilla tra il 23 e il 28% – dichiara Gobber – Inghilterra e Germania, per fare un paragone, presentano un tasso di copertura rispettivamente del 78 e del 64%. Ciò che emerge dall’indagine sul nostro Paese è una situazione disomogenea, con una copertura inadeguata, poche reti di cure palliative pediatriche, sebbene siano in aumento, e con il paziente non oncologico messo in secondo piano. Inoltre, il domicilio appare più in difficoltà rispetto all’hospice”.
Esistono intensità diverse di cure palliative, che possono essere erogate in ospedale, negli hospice o al domicilio del paziente. Mentre i flussi che riguardano ospedali e hospice sono ben tracciati, però, lo stesso non si può dire di quelli che hanno a che fare con il domicilio. Per quest’ultimo manca infatti un sistema informatico adeguato e dedicato.
Il territorio
Il Pnrr porta con sé una serie di interventi importanti sul territorio, in termini di strutture e di tecnologie, sollecitando le Regioni e le aziende sanitarie a lavorare su progetti riorganizzativi. Il Piano non cita esplicitamente le cure palliative, anche se queste andranno inserite, in un’ottica di valorizzazione di tutto ciò che si trova al di fuori dell’ospedale.
“Il Pnrr offre risorse importanti, che dovranno essere sfruttate nel migliore dei modi – chiosa Gobber – In queste settimane, però, si discute anche su un altro testo, il Dm71 sullo sviluppo dell’assistenza territoriale. Che sia licenziato come è adesso oppure no, resterà comunque una pietra miliare all’interno dell’organizzazione del Servizio sanitario nazionale. Per quanto riguarda le cure palliative, poi, ha il pregio di delineare il perimetro di gioco”.
Le cure palliative devono essere centrali nell’attività domiciliare, devono diventare un volano e un motore di tutto ciò che succede al di fuori degli ospedali
Il presidente della Sicp ricorda infatti che il 12° capitolo del documento è dedicato proprio all’importanza delle reti di cure palliative: “Le cure palliative devono essere centrali nell’attività domiciliare, devono diventare un volano e un motore di tutto ciò che succede al di fuori degli ospedali”, afferma Gobber.
Oggi la maggior parte dei medici palliativisti sono anestesisti: “Negli ultimi due anni questa figura professionale è stata legata ai ventilatori – rileva Gobber – I colleghi si sono trovati a non essere più specialisti, ma erogatori di prestazioni specialistiche, che sono due aspetti molto diversi del lavoro”.
Alla Sicp approdano persone che desiderano recuperare una dimensione più medica e relazionale: “Il nostro lavoro, che all’esterno può sembrare poco attrattivo, è in realtà meraviglioso – continua Gobber – Chi si occupa di cure palliative ha la possibilità di esercitare l’arte medica così come ce l’hanno insegnata, con la dimensione relazionale come tempo di cura. Credo che questo sia il punto più alto della gratificazione professionale”.
Il nodo formativo
Nell’autunno del 2022 partiranno le prime scuole di specializzazione in Italia. Finora, infatti, i palliativisti potevano accedere ai concorsi medici di medicina generale, oppure specialisti in anestesia e rianimazione, geriatria, neurologia, oncologia, radioterapia e pediatria. Laddove il titolo non fosse tra uno di questi, faceva fede aver maturato un’esperienza almeno triennale nel campo delle cure palliative e della terapia del dolore.
Nell’autunno del 2022 partiranno le prime scuole di specializzazione in Italia
“Le cure palliative sono per definizione multidisciplinari e multiprofessionali – spiega Gobber – Oltre ai medici, nella nostra società scientifica ci sono anche infermieri, psicologi, fisioterapisti, assistenti sociali, assistenti spirituali… Abbiamo inoltre una grande sinergia con mondo del volontariato. Questa eterogeneità, però, fa sì che sia più difficile contarci”.
Dal punto di vista della formazione, nonostante siano stati fatti passi avanti all’interno dell’Università e quindi si sia stabilito che debbano essere svolti dei crediti specifici nei corsi di laurea, ad oggi le cure palliative ancora non sono insegnate in tutte le facoltà. “Questo è un problema, perché molti malati possono finire la loro vita con bisogni di base che potrebbero essere gestiti in tranquillità dal medico di medicina generale o da altri specialisti – riflette Penco – Sappiamo infatti che il 75% di chi ha bisogno di cure palliative necessita di un’assistenza specialistica, per il 20% in hospice e per l’80% a domicilio. Il restante 25%, invece, può ricevere un’assistenza di base”.
Da una survey uscita nel giugno 2021 si evince come sia possibile stimare correttamente il bisogno di personale solo per quanto riguarda gli hospice, che in Italia sono 303, con un numero medio di letti di 13. In queste strutture i medici palliativisti dovrebbero essere 785.
“Se si considera che qui si trova il 20% delle persone che necessita di questo tipo di assistenza, possiamo stimare che l’80% debba essere assistito a casa – afferma il past presidente della Sicp – Se contiamo un medico ogni 100.000 abitanti, vediamo che ne servirebbero 2.400. Infine, se consideriamo un professionista ogni 300 letti per acuti negli ospedali, abbiamo la necessità di avere 600 specialisti nei nosocomi. Per rispondere adeguatamente ai bisogni di cure palliative in Italia, nel prossimo decennio avremmo bisogno quindi di circa 3.500 medici palliativisti. Possiamo ipotizzare che ad oggi ne manchino almeno 1.000”.
In mancanza di una rete di cure palliative ben strutturata, il paziente viene assistito a livello prestazionale, con il rischio di appiattire l’interazione sui meri aspetti tecnici
Questo senza contare il turnover. I medici che hanno risposto alla survey avevano una media di 56 anni: si ipotizza quindi che nel prossimo decennio vadano in pensione. Una delle sfide è capire se ci saranno abbastanza giovani per coprire questi posti.
Ma cosa succede al paziente nelle Regioni nelle quali le cure palliative non sono ancora ben strutturate? “Il paziente viene assistito a livello prestazionale, nei limiti del possibile – afferma Penco – Di solito è attivata un’assistenza domiciliare integrata che assegna al malato una serie di prestazioni. Si tratta di interventi puntuali che spesso però non tengono conto della persona nella sua totalità. La caratteristica delle cure palliative è proprio quella di prendersi cura della persona in tutte le sue dimensioni. Per questo ci sono tante figure professionali che operano in équipe: si guarda l’aspetto spirituale, quello psicologico, clinico, familiare… Il rischio dell’assistenza prestazionale è di appiattire l’interazione sui meri aspetti tecnici”.
Il progetto Relief
La Campania è una delle Regioni che si sta adeguando alla normativa nazionale. Nel periodo pandemico è stato lanciato il Progetto Relief, per sensibilizzare le istituzioni sul tema del dolore: “Ci sembrava che sulle cure palliative i percorsi fossero più solidi, con una tradizione in quasi tutte le Regioni – sostiene Arturo Cuomo, direttore della struttura complessa di anestesia, rianimazione e terapia antalgica dell’Istituto dei tumori di Napoli e leader del progetto in Campania – Il mondo della terapia del dolore, invece, è un po’ più negletto”.
Anche qui i dati scarseggiano: “Si stima che i pazienti che soffrono di dolore persistente o cronico in Italia siano 2 milioni, di cui uno sono pazienti che sono affetti da disabilità dolorosa, quella che va presa in carico. Qualche studio ormai datato stimava il costo assorbito da queste persone nell’1,7% del Pil”.
Il dolore cronico inoltre riguarda per l’85% pazienti non oncologici che soffrono di mal di schiena, di dolore legato all’artrosi, oppure all’età. “Un’indagine europea di qualche anno fa mostrava come le persone affette da dolore cronico siano per il 20% depresse, mentre il 15% finisca demansionato oppure perda il lavoro a causa del dolore invalidante”, rende noto l’esperto.
Nel periodo pandemico in Campania è stato lanciato il Progetto Relief per sensibilizzare le istituzioni sul tema del dolore, e i risultati stanno arrivando
“Con il Progetto Relief volevamo portare all’attenzione questo problema, lanciando 5 sfide: la necessità che ci fosse una consapevolezza politica sul problema perché il dolore non ha un peso nella coscienza politica regionale; la necessità di avvio dei coordinamenti regionali; la necessità che ci sia equità di accesso e monitoraggio delle cure perché una rete non standardizzata rischia di penalizzare alcune aree; la necessità di formazione continua prevista dalla legge, che si è persa per strada: la nostra è una presa in carico multidisciplinare e abbiamo bisogno di parlare un linguaggio comune. Infine, la necessità di informazione”.
Il progetto ha funzionato e a inizio marzo una delibera della Giunta regionale ha istituito i nuovi coordinamenti regionali per le tre reti previste. “Attualmente la Regione sta lavorando ai regolamenti e alle nomine nei coordinamenti – rende noto Cuomo – La consideriamo quindi una partita vinta e la conferma che portare nelle sedi competenti queste istanze è stato un percorso virtuoso”.