Chi è il disability manager e perché è sempre più necessario

«Il disability manager è un costruttore di reti che facilitano il dialogo e la collaborazione tra territorio, servizi e istituzioni», spiega Rodolfo Dalla Mora, presidente nazionale di SIDiMa e AIDiMa

Una figura professionale che nasce con l’obiettivo di garantire piena inclusione e accessibilità alle persone con disabilità, superando ostacoli e barriere in ogni ambito della vita quotidiana e sociale. Dal lavoro alla scuola, dalla sanità agli spazi pubblici e culturali, fino al tempo libero. La sua funzione è individuare e rimuovere non solo barriere architettoniche, ma anche sensoriali, cognitive, organizzative e culturali, per promuovere l’autonomia e tutelare la dignità di ogni persona. Non si tratta di un ruolo assistenziale, ma di una figura strategica che lavora in modo trasversale e multidisciplinare, dialogando con amministrazioni, aziende, progettisti ed enti culturali e sanitari per sviluppare soluzioni inclusive e durature.

In Italia manca ancora una normativa completa per il disability manager che, però, sta acquisendo sempre più riconoscimento grazie a protocolli, regolamenti regionali e iniziative locali. I principali riferimenti normativi risalgono alla Legge 104/1992, che stabilisce il principio di abbattimento delle barriere per garantire i diritti delle persone con disabilità, e alla Legge 67/2006 che rafforza la tutela contro ogni forma di discriminazione. Alcune regioni, tra cui Lazio, Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna, hanno avviato percorsi formativi e riconoscimenti ufficiali, ispirandosi alla Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità (ratificata dall’Italia con Legge 18/2009). Sul piano professionale, rientra nelle professioni non regolamentate riconosciute dalla Legge 4/2013, che tutela le attività professionali non organizzate in ordini o collegi, purché svolte con competenza, trasparenza e responsabilità.

SIDiMa (Società Italiana Disability Manager) e di AIDiMa (Associazione Italiana Disability Manager), sono le prime realtà a lanciare e a promuovere in Italia, dal 2011, la figura dei disability manager, anche con il supporto di reti formative come DIMA (Disability Management Academy). L’obiettivo è consolidare una cultura professionale strutturata che comprende percorsi formativi certificati, esperienze sul campo e collaborazioni con enti locali, aziende e università. In particolare, AIDIMa ha istituito presso il Ministero dello Sviluppo Economico e la Presidenza del Consiglio dei Ministri un albo professionale dei Disability Manager (ai sensi della legge 4 del 2013).

Comuni e inclusione

Nel mese di giugno, a Padova, è stato siglato un Protocollo d’Intesa tra Anci Veneto e SIDiMa per promuovere politiche inclusive nei comuni trevigiani. L’accordo mira a valorizzare la figura del disability manager negli enti locali, superando una visione limitata al solo ambito lavorativo per promuovere, invece, una partecipazione trasversale e diffusa nei servizi pubblici, nella cultura, nel turismo e nella vita quotidiana. Il protocollo prevede azioni concrete di informazione, formazione e supporto, con l’istituzione di un Tavolo Tecnico Congiunto per monitorare le attività, sviluppare nuovi progetti e verificarne i risultati. L’obiettivo è creare un modello replicabile che contribuisca a costruire sul territorio una rete stabile di professionisti qualificati, diffondendo una cultura dell’inclusione concreta, partecipata e condivisa.

TrendSanità ne ha parlato con Rodolfo Dalla Mora, presidente nazionale di SIDiMa e AIDiMa.

Cosa fa concretamente un disability manager e dove opera?

Rodolfo Dalla Mora

«È un facilitatore, una figura professionale che, attraverso un percorso formativo dedicato, acquisisce competenze specifiche e sviluppa un ambito di intervento all’interno della propria professione di base. Mi spiego meglio. Io, ad esempio, sono un architetto, ma tra i nostri iscritti alla Disability Management Academy ci sono anche avvocati, educatori, medici, Terapisti occupazionali, assistenti sociali e architetti, figure molto diverse, tutte con una propria formazione e iscrizione all’albo professionale. Dico questo perché il disability management non è una professione a sé, ma una competenza specialistica che si innesta in una professionalità esistente.

Nel mio caso, ho seguito diversi percorsi di specializzazione, un master in Disability Management presso l’Università Tor Vergata di Roma, altri in Bioetica e Tecnologie assistive, un altro in biotecnologie e così via. Mi occupo di questi temi da oltre 35 anni. Svolgo la mia attività come architetto, collaborando con enti pubblici e in particolare con il Comune di Treviso, dove sono anche disability manager. Ma opero anche in ambito sanitario, che è forse l’aspetto meno noto. Da oltre 20 anni, infatti, lavoro come disability manager presso un ospedale riabilitativo di alta specializzazione, l’Ospedale di Motta di Livenza, in provincia di Treviso. Lì sono responsabile dell’ufficio accessibilità e del servizio CAD, cioè il Centro per l’Adattamento dell’Ambiente Domestico».

Che tipo di supporto offre?

«I pazienti che seguiamo possono restare ricoverati anche per lunghi periodi, da un mese a un anno. Si tratta spesso di persone con disabilità complesse. Il mio lavoro consiste nell’interfacciarmi con l’équipe riabilitativa, medici, fisioterapisti, terapisti occupazionali, psicologi, per capire quale sarà il percorso di recupero della persona. Poi tradurre tutto questo in soluzioni pratiche: adattamenti ambientali, percorsi per la mobilità assistita o autonoma, fino al supporto per il conseguimento della patente. Ma, soprattutto, il disability manager è un costruttore di reti. Reti territoriali e reti tra servizi e istituzioni. Per questo nel 2020 abbiamo anche redatto un Manifesto del Disability Manager».

In che modo è una figura trasversale?

«Solitamente si considera legata all’ambito lavorativo, anche a livello normativo. È vero, può operare anche nel contesto aziendale, ma non è un ruolo esclusivamente legato all’inclusione lavorativa. È un facilitatore della disabilità e proprio per questo deve poter agire in maniera trasversale, in tanti ambienti diversi. Le faccio un esempio: quando realizziamo adattamenti ragionevoli per una persona, non lo facciamo solo pensando all’ambiente di lavoro, ma lo facciamo in tutti gli ambiti della vita quotidiana, casa, scuola, ospedale, tempo libero, viaggi, musei, ecc. ».

Chi volesse formarsi per diventare disability manager, che percorso deve seguire?

«Il fatto che la figura non sia ancora normata, significa che non esiste un percorso formativo ufficiale, riconosciuto a livello nazionale, né un profilo professionale unico. Tuttavia, esistono diversi enti accreditati, università e istituzioni che organizzano corsi, master e percorsi formativi, più o meno strutturati, su questi temi. All’interno di AIDiMa e DIMA, ad esempio, abbiamo stabilito dei criteri minimi per l’iscrizione. Per accedere è necessario aver seguito almeno 80 ore di formazione specifica. Sul nostro sito si può trovare l’elenco delle persone iscritte, ognuna delle quali riceve un numero progressivo di iscrizione, più un codice con una lettera che identifica il tipo di percorso formativo effettuato. Dico questo perché purtroppo, oggi, c’è un vero e proprio pullulare di proposte formative, alcune delle quali sono davvero al limite della decenza, con corsi di appena 12 ore, massimo 40».

I vostri percorsi formativi, invece, quanti ne prevedono e quali sono i requisiti di accesso?

«Partono da un minimo di 80 ore, che è il requisito base per l’iscrizione all’albo, e arrivano anche a 200 o 250 ore. Inoltre, collaboriamo con una decina di università italiane e i percorsi hanno diversi livelli di approfondimento. All’interno del percorso formativo di DIMA abbiamo anche moduli obbligatori con crediti formativi, proprio per garantire una formazione continua e strutturata. Quanto ai requisiti, occorre almeno una laurea triennale. È il titolo minimo per accedere alla formazione e poi all’albo».

In quali settori un disability manager può trovare più facilmente occupazione?

«Gli ambiti sono i più diversi. Tra chi frequenta i nostri corsi, ci sono persone che lavorano in cooperative sociali, in aziende, nel settore della sanità, oppure si occupano di accessibilità digitale. Ultimamente, sta crescendo l’interesse delle aziende, quindi nell’ambito professionale, ma in azienda, da solo, il disability manager non può fare molto, va inserito in un team. Per questo i nostri percorsi prevedono moduli specifici.

Non ci limitiamo a spiegare la Legge 68 sul collocamento mirato, ma affrontiamo anche temi come progettazione universale, accessibilità e comunicazione inclusiva

C’è una cosa importante da dire: tutti i nostri docenti sono disability manager operativi, non teorici. Non facciamo “lezioni frontali”, condividiamo esperienze di chi lavora davvero sul campo. Abbiamo anche lanciato una collana editoriale che si chiama “Per una nuova cultura della disabilità”. Non ci guadagniamo nulla, ma ci teniamo molto a promuovere questa cultura, a livello divulgativo e professionale».

Esiste una rete europea dei disability manager?

«Non ancora. Ogni Paese ha un’impostazione diversa. Ad esempio, in Germania il disability manager è associato più alla tutela assicurativa del lavoratore, quindi segue le indennità e gli infortuni. Se guardiamo al Canada, invece, è più integrato nelle aziende, sul piano organizzativo. In Italia, invece, stiamo puntando molto sul versante sanitario».

In cosa consiste il lavoro quotidiano di un disability manager?

«Si lavora sul campo, in relazione diretta con le persone. Faccio un esempio, semplice ma chiaro. Come ho detto, sono disability manager sia del Comune di Treviso, sia dell’Ospedale di Motta di Livenza. Nel primo caso, lavoro su una scala comunitaria, faccio progettazione partecipata, interventi che riguardano la città, i servizi, la mobilità, l’accessibilità urbana.
In ospedale, invece, il mio lavoro è sartoriale, cucito su misura sui bisogni specifici della persona. Mi occupo di soluzioni personalizzate in base al grado di autonomia, alle capacità residue, al contesto domestico e sociale in cui quella persona tornerà a vivere. Sono due approcci completamente diversi ma necessari».

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Ivana Barberini
Giornalista specializzata in ambito medico-sanitario, alimentazione e salute