Nel nostro Paese solo il 33% delle persone affette da malattie croniche e inguaribili può accedere alle cure palliative. Questa la media nazionale sottolineata dalla Società Italiana Cure Palliative e dalla Federazione Cure Palliative in occasione della Giornata del sollievo promossa dal Ministero della Salute il 25 maggio scorso.
Un dato che evidenzia significative differenze nazionali e disparità territoriali e che prospetta ancora lontano l’obiettivo – fissato con la Legge 197/22 approvata con la Legge di Bilancio 2023 – di garantire entro il 2028 l’accesso alle cure palliative al 90% delle persone che ne hanno bisogno su tutto il territorio nazionale.
Un diritto dunque, riconosciuto negli intenti e nelle norme ma non garantito o assicurabile a tutti in egual misura. Di fatto, a 15 anni dalla Legge 38/2010 che lo sancisce, il suo esercizio è incompleto e condizionato da diseguaglianze, barriere, culturali, sociali, economiche, carenze strutturali, organizzative, formative, qualitative e non ultime politiche sanitarie mirate.
Ma come fare a superarle?
«Avere buone leggi non basta», ci dice Maria Grazia De Marinis, Professore ordinario di Scienze Infermieristiche e Responsabile del Progetto Insieme nella cura della Fondazione Policlinico Universitario Campus Bio-Medico di Roma intervistata da TrendSanità.

«Resteranno principi sulla carta se non saranno sostenuti da un sistema capace di renderli realmente operativi e accessibili in modo uniforme su tutto il territorio nazionale. Per questo, per rendere il diritto davvero esigibile, serve un equilibrio tra visione, organizzazione e risorse. Una visione in cui il nostro sistema sanitario includa pienamente le cure palliative come componente strutturale e non accessoria, mettendo al centro equità e giustizia sociale, dignità e autonomia della persona, solidarietà verso le famiglie e apertura all’innovazione. La sfida ora è tradurre questi obiettivi in azioni tangibili: creare reti di prossimità capaci di intercettare i bisogni ovunque nascano, fissare standard uniformi di qualità, garantire risorse stabili e misurare i risultati con la massima trasparenza. Vuol dire abbattere barriere burocratiche, assicurare farmaci e dispositivi là dove servono e formare professionisti in grado di unire rigore scientifico e umanità. Rendere vivo e accessibile un diritto oggi diseguale vuol dire garantire che, per chiunque e ovunque, le cure palliative arrivino in tempo, siano di qualità e accompagnino senza interruzioni e senza discriminazioni geografiche o sociali».
Un percorso possibile ancorché non facile quello di accesso alle cure palliative a cui si sommano i contenuti della bozza del disegno di legge sul fine vita presentata nel luglio scorso in Senato che prevede l’inserimento nelle cure palliative come requisito essenziale e necessario per le persone vogliono accedere al suicidio medicalmente assistito e che rischiano di complicarlo ulteriormente perché inconciliabili con le finalità e il senso delle cure palliative…
«Associare le cure palliative al suicidio medicalmente assistito è un errore profondo, dal punto di vista concettuale e culturale. Le cure palliative non nascono per concludere un percorso di vita, ma per accompagnarlo fino all’ultimo istante con attenzione, rispetto e sollievo. Sono un atto di cura totale, che guarda alla persona nella sua interezza: corpo, mente, relazioni, valori, con l’obiettivo di alleviare il dolore, controllare i sintomi, sostenere i bisogni fisici, psicologici, sociali e spirituali e mantenere la migliore qualità di vita possibile, fino alla morte naturale. Il loro scopo non è accelerare la fine, ma garantire che il tempo che rimane sia tempo vero: vissuto con dignità, comfort, relazioni significative e un senso di continuità con la propria storia. Renderle obbligatorie come passaggio per accedere al suicidio medicalmente assistito significa snaturarne la missione.
Occorre tradurre gli obiettivi che esistono sulla carta in azioni tangibili
In questa prospettiva, le cure palliative si trasformerebbero in una “tappa procedurale” da superare, anziché in un’offerta libera, tempestiva e integrale di cura. È un’impostazione che riduce un diritto universale a un passaggio burocratico, e che non coglie la loro funzione primaria: dare un’alternativa concreta, umana e dignitosa alla richiesta di morte, restituendo alla persona possibilità che in quel momento non riesce a vedere. L’esperienza clinica lo dimostra ogni giorno: molte persone che, all’inizio, esprimono il desiderio di anticipare la propria morte lo fanno spinte da dolore fisico non controllato, solitudine, senso di abbandono, perdita di autonomia o dalla paura di pesare sui propri cari. Quando, però, ricevono cure palliative tempestive e competenti, non solo vedono alleviati dolore e sintomi, ma ritrovano ascolto, supporto psicologico, attenzione alle relazioni e sostegno alla famiglia.
Confondere cure palliative e suicidio assistito significa sovrapporre due logiche opposte
Questo, spesso, trasforma la percezione della propria condizione: non è un “cambiare idea” imposto dall’esterno, ma un recuperare margini di vita e di senso che rendono quella scelta non più inevitabile. Confondere cure palliative e suicidio assistito, o metterle in sequenza obbligata, significa dunque sovrapporre due logiche opposte: le prime si fondano sull’impegno a prendersi cura fino alla fine, l’altro su un atto intenzionale di interruzione della vita. Eticamente, culturalmente e professionalmente è fondamentale preservare la loro indipendenza: le cure palliative devono restare un percorso autonomo, scelto per sé stesso e non subordinato ad altri fini. Devono configurarsi come un diritto pienamente esigibile, un’opportunità sempre garantita di sollievo, sostegno e accompagnamento fino all’ultimo giorno, e non come un “passaggio obbligato” verso un’altra scelta. La loro ragion d’essere è e deve restare quella per cui sono nate».
Questa associazione travalica sia l’aspetto politico che normativo ed entra “rovinosamente” nell’ambito etico e nella deontologia professionale…
«Certo, la medicina, e con essa l’infermieristica, non ha mai scelto di far morire il malato inguaribile. Nella storia, molte malattie oggi curabili erano un tempo senza possibilità terapeutiche, ma il compito della medicina è sempre stato quello di alleviare il dolore, proteggere la vita e cercare nuove strade per migliorare le condizioni di chi soffre. Le cure palliative si collocano in questa tradizione: riconoscono e rispettano il limite della vita, evitando ogni forma di accanimento, ma non rinunciano a intervenire per alleviare la sofferenza in tutte le sue dimensioni, compresa quella esistenziale, con strumenti nuovi che integrano competenze cliniche, psicologiche, sociali, spirituali. Chi sceglie di porre fine alla propria esistenza non può trovare nelle cure palliative lo strumento per realizzare questo proposito: esse restano accanto alla persona anche nella sua fragilità estrema, offrendo sostegno e sollievo fino alla conclusione naturale della vita. Questa impostazione è anche il fondamento della formazione palliativista, orientata al sollievo, all’ascolto, al sostegno e alla gestione dei sintomi complessi.
Le cure palliative non rinunciano a intervenire per alleviare la sofferenza in tutte le sue dimensioni
Fino ad oggi, nessun curriculum formativo ha previsto lo sviluppo di competenze per l’accompagnamento volontario alla morte. Introdurre il suicidio medicalmente assistito in questo contesto significherebbe ridefinire radicalmente competenze e ruoli, spostando il baricentro dall’accompagnamento alla vita a un atto che la interrompe intenzionalmente. Un cambiamento simile non sarebbe neutro: rischierebbe di minare il rapporto di fiducia, di alimentare il tabù secondo cui le cure palliative “servono a morire” e di allontanare pazienti e famiglie da un supporto che potrebbe invece dare senso e qualità al tempo rimanente. Per questo, la loro identità e la loro missione devono restare distinte: offrire sollievo, dignità e sostegno in ogni istante, come diritto pienamente esigibile, senza condizioni e senza sovrapposizioni con scelte che appartengono ad altri ambiti etici e culturali».
È, allora, necessario riorientare l’accesso alle cure palliative nel giusto solco ed evitare la sovrapposizione di percorsi a scapito di scelte consapevoli…
«Si, e gli infermieri, per la posizione unica che occupano accanto ai pazienti, hanno un ruolo determinante nel contribuire a prevenire e correggere dispersioni o sovrapposizioni nei percorsi di cure palliative, che possono generare confusione, ritardi nelle decisioni o addirittura far coincidere impropriamente tali percorsi con quelli di suicidio medicalmente assistito».