Correvano i primi anni ’70 e in Italia l’informatica, che all’epoca si chiamava cibernetica e ci vedeva come uno dei Paesi più all’avanguardia, si basava su calcolatori mainframe (o sistemi di computer centralizzati per l’elaborazione dei dati e per calcoli matematici e statistici). Si era già alla 4ª generazione di macchine computabili che, solo verso la fine degli anni ’80 e l’inizio dei ’90, furono incrementate e rimpiazzate da minicomputer e da reti di personal computer. Fu così che i sistemi mainframe (IBM System, Sperry-Univac, Honeywell-Bull, ecc…) segnarono l’alba dell’era digitale anche nella nostra sanità. Per la prima volta – e ancora non era nemmeno nato il Servizio Sanitario Nazionale istituito nel dicembre del 1978 – con questo framework tecnologico furono archiviati ed elaborati i primi dati in ambito sanitario.
Informatica medica già progenitrice della digital health
Quest’anno sono 50 anni esatti dalla prima conferenza mondiale di informatica medica MedInfo che si svolse nell’agosto 1974 a Stoccolma. L’informatica medica intendeva trattare già allora i dati e l’informazione come conoscenza nel settore biomedico e la loro archiviazione e gestione ottimale come soluzione dei problemi clinici e sanitari. Similmente alla moderna informatica medica che, attualmente, sfrutta la scienza e la tecnologia del calcolo e trattamento automatici per migliorare i risultati sanitari e la cura dei pazienti, potenziando il supporto all’attività clinica e l’erogazione dell’assistenza sanitaria, interfacciandosi con tutti i settori di base e applicativi della scienza medica e delle tecnologie biomediche.
Francesco Sicurello, ricercatore associato all’Istituto di Tecnologie Biomediche del CNR di Milano e Presidente dell’Istituto Internazionale di Telemedicina, uno dei padri fondatori dell’informatica medica in Italia, ha ricostruito con TrendSanità, e con l’ausilio di alcune domande, quegli anni e il periodo in cui è nata l’informatica medica in Italia.
Lei è un padre fondatore dell’informatica medica in Italia (negli anni ’70 si laureava in Fisica a Milano con indirizzo elettronico e cibernetico con tesi su procedure automatiche nei flussi informativi di sistemi organizzativi complessi). Secondo il suo punto di vista, qual è la definizione attuale di informatica medica?
Quest’anno sono 50 anni esatti dalla prima conferenza mondiale di informatica medica MedInfo che si svolse nell’agosto 1974 a Stoccolma
«L’informatica medica è quella disciplina tecnico-scientifica che riguarda le applicazioni di teorie e metodi basati sull’uso dei calcolatori elettronici, in termini di hardware e di software, per il trattamento automatico di dati utili al processo di cura, diagnostico e terapeutico. Quindi una raccolta rilevante e analisi di dati perché possa supportare l’intera équipe medica e infermieristica per arrivare a una buona diagnosi e terapia. Questo processo necessita di continua alimentazione di dati sia anamnestici sia strumentali per la diagnosi, che solo la conoscenza del medico porta a formulare. L’informatica medica è quindi un’attività interdisciplinare, perché mette in relazione le competenze di informatica e medicina, coadiuvate inoltre da scienza e tecnologia.»
Dobbiamo però distinguere l’informatica medica dall’informatica sanitaria: ci aiuta a capire peculiarità e differenze?
«L’accezione formulata 50 anni fa a MedInfo Conference, prima conferenza mondiale di medical informatics, era quella del data processing ad indirizzo diagnostico-terapeutico. L’informatica sanitaria va distinta, a mio avviso, e riguarda il miglioramento, con l’ausilio delle tecnologie IT prima e ICT ora, del flusso delle informazioni a fini gestionali di tutto ciò, fuori dal processo diagnostico-terapeutico, concorre a facilitarlo dal lato degli strumenti biomedicali, infrastrutture e processi organizzativi che il sistema aziendale ospedaliero e sanitario mette in campo per la sua attività produttiva principale o mission, cioè la cura del malato. Come il miglioramento dell’accesso del paziente alla struttura sanitaria, e quindi anche la gestione delle liste d’attesa con le prenotazioni. L’informatica, applicata al servizio sanitario in senso lato, può facilitare il ricovero e il rapporto cittadino-paziente con l’ospedale, l’ambulatorio, la casa della salute, il medico di base. Due cose distinte: l’informatica sanitaria per i dati delle strutture e l’informatica medica per i dati clinici dei pazienti».
Quando nacque, quindi, l’informatica medica in Italia?
«L’informatica medica in Italia nacque con l’Associazione Italiana di Informatica Medica (AIIM) nel 1975 a Parma (presidente Tardini di quell’Università e successivamente Angelo Serio di Roma), con lo scopo di promuoverne il progresso attraverso lo scambio di esperienze, opinioni, studi in ogni campo della ricerca, dell’insegnamento e dell’assistenza sanitaria. Era un momento denso di sviluppi per la computerizzazione; tuttavia, dobbiamo tenere presente che i computer di allora erano General Purpose, ovvero delle grosse macchine che risolvevano problemi generali perlopiù statistici, con fogli di calcolo, trattavano pochi dati ed erano poco performanti».
Gli “strumenti informativi” erano già previsti nell’art. 27 della Legge istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale
Poi nacque il Servizio Sanitario Nazionale…
«Con la legge di istituzione del SSN, la 833 del 23 dicembre 1978, al Capo III art. 27, “Strumenti informativi”, già allora si è sottolineata l’importanza della gestione dei flussi sanitari, se si voleva avere un servizio sanitario efficiente. Un esempio: a metà anni ’70, nell’ospedale di Desio, in Brianza, si stava realizzando, con l’Istituto Mario Negri di Milano, un modello sperimentale di gestione automatica dei farmaci ospedalieri. L’obiettivo del progetto era quello di risparmiare e di contenere lo spreco di farmaci: il progetto prevedeva un sistema informativo che controllasse i magazzini, quello centrale e i piccoli magazzini di reparto. Ovvero, gestire al meglio i flussi dei dati di questo aspetto organizzativo dell’ospedale. Per tale progetto era stato installato, da una società di informatica di allora, presso la farmacia ospedaliera il calcolatore, all’epoca il potentissimo, Digital PDP-11, famoso anche per essere stato utilizzato nell’avventura spaziale dello sbarco sulla luna».
Come si evolse quella sperimentazione?
«Allo scoppio, di lì a poco nel luglio 1976, del disastro chimico dell’ICMESA nella zona brianzola di Seveso, Paolo Mocarelli, Primario del Servizio di Medicina di Laboratorio dell’Ospedale di Desio (poi Professore Ordinario di Biochimica Clinica on Università di Milano-Bicocca) venne incaricato dalla Regione Lombardia di seguire l’emergenza sanitaria da diossina per una vasta fetta di popolazione. Il computer PDP-11 presente in ospedale fu subito utilizzato per immagazzinare tutti i dati di laboratorio e clinici dei soggetti sottoposti al piano di monitoraggio e sorveglianza epidemiologica, per gli eventuali rischi sanitari da diossina. Ho partecipato alla progettazione e sviluppo di quel sistema informativo epidemiologico, e come analista-programmatore ho supportato tutte le fasi del lavoro informatico: raccolta, archiviazione, elaborazione ed analisi statistica. Vennero allora creati i primi data base gerarchici e poi relazionali e dei registri di patologia e quello dei tumori tuttora attivo. Il nostro gruppo di informatici, fisici e ingegneri (non c’era ancora la laurea in informatica) era costituito da diversi sistemisti e programmatori, tra cui il dottor Andreani che collaborava con l’Istituto Mario Negri (tra i consulenti di idee e supporto ingegneristico vi è stato per un certo periodo anche il professor Somalvico del Politecnico di Milano)».
Con il disastro chimico di Seveso il potente calcolatore dell’Ospedale di Desio, inizialmente dedicato ai flussi della farmacia, fu utilizzato per il sistema informativo epidemiologico di monitoraggio e sorveglianza
Come arriviamo ai giorni nostri?
«In seguito, con l’affermarsi delle reti – e siamo già negli anni ’80 – possiamo parlare di sistemi informativi stabili, quindi ospedalieri, di laboratorio, di radiologia, di reparti clinici, dove il flusso cablato delle informazioni era dentro alla realtà organizzata, ospedaliera o ambulatoriale. Queste erano le LAN – Local Area Network – per poi passare alle reti metropolitane e geografiche (MAN e WAN), che da lì a poco si sarebbero ampliate, negli anni ‘90 grazie ad Internet e al WWW – World Wide Web – per arrivare, nel mondo sanitario e della medicina, all’attuale digital health ed alla telemedicina. Proprio alla fine del secolo scorso, io ed alcuni colleghi, tra cui ricordo il professor Balossino dell’Università di Torino, il dottor Nicolosi del CNR di Milano, il professor Mauri della nascente Università di Milano Bicocca, il dottor Pellicanò dell’Ospedale Careggi di Firenze, abbiamo fondato a Milano l’AITIM, Associazione Italiana di Telemedicina e Informatica Medica, per rimarcare l’importanza delle reti di comunicazione (ICT) e di estendere il processo di cura medica anche a distanza, sul territorio e a casa del paziente con malattie croniche, con una specie di ospedale virtuale e la recente tragedia del Covid-19 ci ha poi costretto a riconsiderare e riorganizzare questo nuovo modo di erogazione delle prestazioni sanitarie. Voglio ricordare anche due pionieri di questo settore innovativo e dell’intelligenza artificiale in medicina che ci hanno lasciato da tempo: il dottor Riccardo Maceratini dell’Università La Sapienza di Roma ed il professor Mario Stefanelli dell’Università di Pavia, che ne è stato anche prorettore».
Oggi, dopo questa cavalcata di 50 anni, pensa che innovazioni tecnologiche in ambito sanitario e intelligenza artificiale nella medicina e nella sanità costituiscano ancora una vera rivoluzione?
«Oggi vi sono tutte le condizioni favorevoli per un vero cambio di paradigma con tutti i benefici e anche con dei possibili rischi: da giovane studente e da ricercatore pensavo sempre (o sognavo) la completa automazione dei processi lavorativi e sociali e che il sistema binario o digitale dell’informatica e dell’elettronica, anche quantistica, da Turing in poi potesse permettere di riuscirvi. Siamo arrivati a quella meta non considerando bene però che l’automazione potesse toccare anche i processi cognitivi del ragionamento e delle decisioni umane, “artificializzandoli” fortemente con algoritmi intelligenti. Questa è la nuova realtà di oggi e la sfida che l’essere umano non può eludere è complessa e piena di incognite. Abbiamo la connettività veloce, l’Internet of Things e i biosensori in grado di acquisire dati in continuum. Tutto questo alimenta i data base in modo esponenziale, i cosiddetti Big Data, utili per addestrare programmi e software avanzati che imparano da esempi, dalla realtà anche clinica, grazie alle migliori performance delle reti neurali artificiali, del machine e deep learning. Nuovi e potenti risultati inimmaginabili negli anni ’80-90, quando studiavo il modello di neurone di Hopfield (oggi insignito del premio Nobel per la Fisica) e le reti neurali, semplici, a back propagation, ecc… Sistemi che giravano sui primi PC (tipo NeuralWork che ho portato nel 1992 dagli USA) e sono passati in 30 anni da qualche migliaio di neuroni artificiali ai milioni di oggi ed alla potenza di ragionamento e conoscitiva dell’intelligenza artificiale generativa attuale».
Quali sfide e quali opportunità porta l’AI?
«È un capitolo nuovo e da esplorare in modo serio e razionale quello dell’Intelligenza Artificiale odierna, basata su statistiche e verosimiglianze che si ripresentano in modo sempre più preciso, riuscendo a classificare meglio oggetti e concetti, rispetto a quella di ieri basata su deduzioni logiche e regole definite e ridefinite da gruppi di esperti. Con l’apprendimento automatico sempre più veloce, con una specie di nuovo e proprio linguaggio di comunicazione tra macchine oltre che tra uomo e computer, i problemi si complicano e toccano la sfera etica, morale e legale oltre che quella tecnologica, considerando bene il rapporto tra benefici e rischi dell’intelligenza artificiale: nell’uso particolare in Medicina, ci sono senz’altro più benefici per le cure e le predizioni di sviluppo di patologie, mentre in applicazioni più in generale, dell’economia, della politica, penso possano portare più rischi».