Il Tribunale di Milano ha dato ragione a un malato raro, licenziato per troppi mesi di assenza, statuendo che “in caso di malattia cronica le assenze per motivi di salute non possono essere computate ai fini del comporto”, a prescindere dall’esistenza di certificazioni comprovanti handicap o invalidità civile.
“L’ordinanza ribadisce poi, secondo quanto stabilito dalla Direttiva 2000/78/CE prima e dalla Corte di Giustizia, alcuni principi comunitari di particolare rilevanza, che seppur spesso richiamati da diverse pronunce giurisprudenziali, non sono ancora riconosciuti ed integrati nella normativa nazionale – spiega l’avvocata Roberta Venturi, co-responsabile dello Sportello Legale “Dalla Parte dei Rari” – Nel 2019 la Corte di Cassazione ha riconosciuto la malattia come disabilità, se duratura e incidente sull’integrazione socio-lavorativa di un soggetto; ancora nel 2016 il Tribunale di Milano ha riconosciuto la fattispecie di discriminazione indiretta nel caso di previsione per un lavoratore disabile e per un lavoratore non disabile, del medesimo periodo di comporto. Oggi questa ordinanza sottolinea l’esigenza di interpretare la disciplina del periodo di comporto in una prospettiva di tutela e salvaguardia dei lavoratori che, portatori di disabilità, si trovano in una condizione di oggettivo e ineliminabile svantaggio. Un altro bellissimo esempio di giurisprudenza che speriamo possa essere riportato quanto prima in testo di legge. Auspichiamo infatti che i contenuti di questa ordinanza, come delle precedenti pronunce, possano diventare un principio di Legge al quale i contratti collettivi nazionali siano chiamati ad uniformarsi”.
L’ordinanza ha di fatto stabilito un’ulteriore questione sostanziale: disabilità non significa certificazione di handicap o invalidità. Il documento esplicita infatti che “alla condizione di invalidità/disabilità deve riconoscersi una rilevanza obiettiva, per il sol fatto della ricorrenza di un’effettiva minorazione fisica e, addirittura, indipendentemente dal riconoscimento formale che della stessa i competenti Enti Previdenziali ne abbiano dato, pena la frustrazione delle tutele di legge, anche perché assoggettare l’applicazione delle tutele riservate ai soggetti portatori di questo specifico fattore di rischio alla ricorrenza, o all’adempimento, di formalità di qualsivoglia natura significherebbe creare un vulnus oltremodo severo allo statuto di protezione previsto dall’ordinamento, frustrandone ratio ed efficacia”.
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