Quali priorità per l’ecosistema digitale in sanità?

Punto centrale è la creazione di un’architettura di interoperabilità, che rappresenta una sfida per gli attori coinvolti, pubblici e privati. Se ne è discusso in un incontro organizzato da Aisdet

La telemedicina è il futuro, e in questo momento non c’è più l’alibi delle risorse economiche nelle progettualità, sostenute fino al prossimo 30 giugno dal PNRR. È questa una delle tracce da cui è possibile ripartire dopo l’incontro “L’evoluzione dei software nel contesto dell’Ecosistema digitale in Sanità”, organizzato a Napoli da Massimo Caruso (Segretario generale AiSDeT), Giuseppe De Pietro (Direttore Istituto di Calcolo e Reti ad Alte Prestazioni del CNR e Presidente eHealthNet) e Gianni Origgi (Direttore S.C. Innovazione e Progetti speciali GOM Niguarda e Coordinatore del Consiglio Scientifico di AiSDeT.) Una discussione che, come ha affermato lo stesso Caruso, è cambiata rispetto al passato: “Sono tanti anni che approcciamo a queste cose, e sono contento di vedere il livello di maturità ormai raggiunto, anche nella metodologia del lavoro. Siamo qui per comunicare e condividere il tavolo di lavoro con tutti gli stakeholder, cercando di raggiungere una strada comune per i tanti soggetti”.

Verso la transizione digitale

Giuseppe Pirlo, direttore del Dipartimento Informatica Università di Bari e Consigliere scientifico CITEL, è tra i primi a sollevare la questione riguardo alla transizione digitale e a come l’evoluzione della tecnologia potrebbe rappresentare la soluzione a più tematiche: “C’è bisogno di creare comunità sostenibili e modelli di maggiore competitività del paese. Quando parliamo di telemedicina, o di medicina, è evidente che alcuni elementi sono ancora un passo indietro. Ormai parole come machine learning e intelligenza artificiale sono diffuse e abbiamo perso il senso del loro significato”. La tempestività dell’intervento sui confini di operabilità della telemedicina sembra essere per Pirlo il primo vero passo da fare in una direzione più chiara: “Quello che manca è definire il perimetro degli aspetti scientifici e della telemedicina e gli obiettivi da perseguire e anche quelli da non perseguire. In questo senso, in alcune parti, a noi l’intelligenza artificiale non interessa. O intendiamo che debba avere priorità inferiore. Quindi non lavorare sul singolo prodotto, ma creare un sistema di confronto tra i diversi stakeholder per definire un programma condiviso di sviluppo da proporre poi ai decisori politici. Alcune azioni non possono essere dettate dall’alto. Nell’entropia del PNRR, abbiamo bisogno di definire un solo percorso, costruendo un ecosistema che possa sostenere una telemedicina su ambito nazionale”.

Un percorso che per adesso sembra essere arrivato a un punto morto, secondo Gianni Origgi: “Non ci accorgiamo che l’evoluzione della tecnologia non ci sta portando in una direzione precisa. Stiamo provando da 15 anni a portare avanti questa idea, in un contesto di erogazione di servizi, ma c’è un errore di base: non è ben chiara la finalità d’uso, che devolviamo all’utente finale. Quindi stiamo offrendo una tecnologia di comunicazione e raccolta dati, che fanno anche sistemi di messaggistica. Nel campo sanitario non riesce a essere pervasivo, anche perché gli usufruitori lo confrontano con una tecnologia impropria”.

Allora serve ben definire i ruoli, come in un qualsiasi tavolo di lavoro che cerca di regolare queste piattaforme:

  • L’utilizzatore: bisogna scavare a fondo sul suo bisogno e l’operatore sanitario non sempre riesce a identificare l’utilizzo necessario.
  • Chi lavora con la tecnologia: non riesce a esprimere il bisogno socio-sanitario della tecnologia, non avendo competenze di quel calibro e si affida al mercato. Prende e sceglie, sperando che la soluzione vada bene.
  • I fornitori: si ritrovano con in mano una tecnologia che sembra non avere scopi finali.

Da questo punto di vista, Origgi suggerisce un approccio comunicativo e pratico diverso, orientato alla cura del paziente come obiettivo finale: “Stiamo parlando di processi clinico-assistenziali e l’obiettivo è la cura e il trattamento del paziente. Bisognerebbe dare maggior governo all’attività socio-sanitaria locale nel trattamento e nella cura dei pazienti e con questa tecnologia non stiamo dando una mano. Questo è un mondo settoriale e ci si deve muovere con competenza. Il ruolo diverso del fornitore potrebbe rompere questo meccanismo che si è innescato”.

All’incontro è intervenuto anche Mauro Grigioni, Direttore del Centro nazionale per le tecnologie innovative in sanità pubblica dell’Istituto superiore di sanità, che ha voluto allargare il campo ai progressi e ai problemi soprattutto nell’evoluzione digitale in campo sanitario: “Già dal 2016 chiedevo di intelligenza artificiale, i big data e le infrastrutture. Cercavo di stimolare sulla gestione dei dati. Sei anni dopo la rete nazionale che permette di interagire dal punto di vista sanitario si approccia ancora con lo strumento della telefonia. Stiamo parlando di refertazione automatica, che riesce a leggere il linguaggio e dare una diagnosi, ma questa valanga di dati non è possibile sfruttarla come big data. Bisogna sicuramente gestire linguaggi diversi, ma il problema è che non abbiamo un lessico comune che riesca ad aggregarli tutti. Uno dei problemi è che abbiamo la lingua più bella del mondo, ma questo mal si traduce con un’autostrada che deve gestire dati coerenti”. Grigioni, tra le opzioni per avviare un tavolo di confronto su come il PNRR potrà influenzare il futuro degli hub di dati, afferma: “C’è bisogno di un linguaggio semplice, agile e coerente. Molti dei nostri dati dovranno essere trattati prima su smartphone, prima di passare sul 5g dei provider per poi terminare nelle case di comunità di raccolta dati. Devono essere a disposizione della medicina generale e delle farmacie. Con questi dati computabili, i dispositivi medici dovranno servire all’analisi? Per il personale sanitario, questo costituirà una cronologia storica del paziente”.

Strumenti digitali e dispositivi medici

Ma quali sono i criteri di qualità che dovranno essere osservati dai digital tool? Da questo punto di vista, Pier Angelo Sottile, presidente della Commissione UNI/CT 527 Informatica medica UNINFO, ha cercato di inquadrare i player raccolti e le novità sui criteri di valutazione dei digital tool che potranno accompagnare il percorso del personale sanitario. Sottile afferma: “Dobbiamo far capire che i digital tool sono di supporto: non si perde la qualità dell’attività face to face, anzi proiettano un intervento tempestivo. In questo senso, bisogna dare indicazioni al mercato, con la gestione dati e con tutte le normative e le linee guida. Questo ci permette di dare al fornitore un messaggio chiaro di cosa debba fare per soddisfare questi criteri. In questo senso, il Cocir, il comitato di coordinamento europeo dell’industria IT, ha promosso il sistema di etichettatura volontaria per le app per la salute, così da applicare una specifica tecnica e di affidabilità dei digital tool. Un sistema di 81 domande di cui 67 ponderate, che definiscono un punteggio finale, sotto forma di etichetta di qualità: assomiglia a un’etichetta di qualità energetica. Questo è ciò che si sta facendo per le app, ma dobbiamo ampliarle a più digital tool possibili”.

Però la direzione della telemedicina sta allontanando gli strumenti sanitari dal presidio ospedaliero, come riferisce Umberto Nocco, Direttore S.C. Ingegneria Clinica GOM Niguarda e Presidente AIIC, Associazione Italiana Ingegneri Clinici: “Non riusciamo a formare i nostri educatori sanitari sulla sicurezza digitale e sull’usability dello strumento. La competenza specifica è molto diversa dalla loro formazione e quindi bisogna procedere in una diversa direzione. Bisogna formare, ma diventa fondamentale anche arruolare i pazienti. Proprio perché stiamo parlando di efficacia, non possiamo ridurre tutto a un’etichetta, anche perché non può decidere tutto solo uno stakeholder. Non dobbiamo sottovalutare poi la proprietà del nostro hub di raccolta, che deve rispettare criteri di qualità, efficacia ed efficienza. Non bisogna solo trascrivere in questo contenitore, ma dare l’opportunità di analizzare questi dati, anche in maniera automatizzata, ma non solo. C’è bisogno che dia anche una lettura clinica sui dati storicizzati e questo è possibile solo se si allarga il campo tra i fruitori e gli strumenti, trovando un linguaggio comune”.

Al centro della discussione, sicuramente, i software da utilizzare come dispositivi medici: sulla questione è intervenuto Antonio Bartolozzi, membro del Dipartimento di Ingegneria Università di Trieste, che ha subito analizzato i DM software: “Un software che è puramente passivo, non è un dispositivo medico. Deve avere delle funzionalità attive, come allarmi, controindicazioni di allergie, calcoli di parametri e dosi. Quando il software fa questo lavoro, è un dispositivo medico, quindi non sostituisce solo il pezzo di carta”. Bartolozzi si è poi concentrato sulla stabilità del DM software, affidandosi alla terminazione del teorema di Alan Turing, che stabilisce la presenza di un bug in ogni software per la sua compiutezza: “Ogni software ha un bug, quindi i test non sono sufficienti, soprattutto se limito la lettura a un singolo programma e quindi non posso sapere se funzionerà o meno. Bisogna verificare tutto e validare ogni cosa: questa è la base del software di sicurezza. Il nuovo regolamento afferma che devo eliminare i rischi applicativi e questo richiede il passaggio da 20 a 60 milioni di righe di codice in più”. Una scelta controintuitiva se legata alla stabilità di un software, che per funzionare, ha bisogno di sempre meno codice: “Non posso fare upgrade del software, altrimenti il sistema iniziale imprigiona i successivi e la telemedicina deve avere una caratteristica precisa. Deve essere la più sicura nella zona remota, non devono esserci soluzioni tecnologiche più sicure per fare la stessa cosa”.

Alla ricerca di un modello di governance

Problemi sul modello sottolineati anche da Ignazio Del Campo, direttore Controllo di Gestione del Policlinico di Catania: “A mio avviso si rivela il non superamento della criticità di fondo, che è il tema della progettazione della governance. Non è necessario concentrarsi oggi su un solo pezzo del sistema, come la cartella clinica, ma bisogna considerare anche le varie piattaforme. Si deve fare un ragionamento per capire su cosa fondare il nuovo sistema sanitario, un problema di regole e di architettura che invece ci deve permettere di garantire la completa interoperabilità. Dobbiamo essere in grado di analizzare i dati e confrontarli, avere una percezione reale della capacità di sistema di creare dati. Non è necessario intervenire con una normalizzazione, si deve lavorare su come trasferire e trasformare questi dati in una possibilità di attivare i modelli di medicina predittiva e di machine learning. Siamo ben distanti dalla creazione di una base dati comune, perché non stiamo facendo i giusti investimenti per permettere alle strutture, ai medici ma anche ai pazienti, di avere il potere di disporre dei propri dati e delle proprie informazioni”.

Da un punto di vista giuridico invece, Sergio Pillon, Coordinatore della trasformazione digitale ASL Frosinone, ha affrontato il tema della telemedicina, con il Decreto 21 settembre 2022 del Ministero della Salute recante Approvazione delle linee guida per i servizi di telemedicina-Requisiti funzionali e livelli di servizio, pubblicato in Gazzetta Ufficiale in data 2 novembre 2022.

Il documento risulta articolato in tre sezioni:

  • Requisiti funzionali dei servizi di telemedicina. Tale sezione identifica i requisiti minimi   di   carattere funzionale che dovranno caratterizzare le soluzioni oggetto di sviluppo nei contesti regionali.
  • Requisiti tecnologici dei servizi di telemedicina. Tale sezione identifica i requisiti minimi di carattere tecnologico che dovranno caratterizzare le soluzioni oggetto di sviluppo nei contesti regionali per garantire l’erogazione omogenea dei servizi sanitari in regime di telemedicina.
  • Competenze e formazione. Tale sezione identifica le competenze e la conseguente formazione relativa allo sviluppo e alla efficacia dei servizi di telemedicina nei contesti sanitari regionali per professionisti e utenti.

Pillon ha descritto anche i servizi minimi che la infrastruttura regionale di telemedicina deve erogare:

  • televisita
  • teleconsulto
  • teleconsulenza
  • telemonitoraggio

Infine è stata sottolineata l’importanza del giudizio insindacabile del medico sull’idoneità del paziente per accedere alla telemedicina. Questo è basato su quattro criteri:

  • idoneità clinica
  • idoneità tecnologica
  • idoneità culturale
  • autonomia del paziente

Proprio qui, Pillon sottolinea il problema dell’equità e dell’uguaglianza a cui non ci si può sottrarre: “Dobbiamo dare dei servizi adattabili perché siano equi. Bisogna raccontare una storia, non avere una gabbia di dati. La piattaforma nazionale di telemedicina prevede la formazione e l’informazione dei cittadini, l’onboarding e la validazione. Le tecnologie assistenziali sono in evoluzione continua e dobbiamo capire che le mamme adesso vedono su youtube le proprie condizioni mediche”.

L’evoluzione dell’accesso alle informazioni mediche del pubblico è diventato un argomento di discussione con Giorgia Zunino, esperta di Previsione strategica e direttrice UOS Progettazione e Appalti Policlinico San Martino di Genova: “Se partiamo dalla tecnologia e non dal bisogno, abbiamo già fallito. All’interno della formazione necessaria, abbiamo bisogno di competenze trasversali. In questo momento stiamo lavorando su un tipo di web che ancora non abbiamo visto. Un web 3.0 con un’interfaccia invasiva e dobbiamo esser capaci di andare oltre”. L’evoluzione tecnologica, secondo Zunino, si riflette anche sulle piattaforme di riferimento nella ricerca delle informazioni da parte del nuovo pubblico: “La gente non va più su Google per cercare come sta, ma va su TikTok. Bisogna integrare nuove figure: c’è bisogno di multiculturalità. Bisogna raggiungere un linguaggio comune, ma soprattutto bisogna personalizzare l’esperienza dell’utente”.

Modelli di implementazione digitale in sanità

Andrea Oliani invece, ex IT Manager ULSS Verona, ha aperto la discussione sui modelli di implementazione digitale in sanità delle regioni: “È importante la valutazione dell’affidabilità del fornitore. Esistono due tipi di fornitori: quelli molto grandi con cinque soluzioni diverse per la stessa area funzionale. Per questo motivo, il cliente non conosce la strategia del fornitore, evadendo quindi dalla precisazione su quali vengono attivati e quali meno. Dall’altra parte esistono fornitori molto piccoli, spesso di nicchia, che hanno un approccio “artigianale” alla realizzazione, la gestione e lo sviluppo di software applicativi. In questo momento, quando si compra un software applicativo, bisogna capirne la funzionalità: deve essere in grado di interpretare il modo di lavorare dell’azienda e di supportare i vari ruoli professionali coinvolti”. Dall’altro lato, Oliani, ha suggerito anche le criticità nell’acquisto a livello regionale: “Da una parte c’è la mancanza di documentazione sui processi aziendali, ma anche, nell’ottica degli acquisti da parte delle regioni, capire se l’offerta del fornitore comprende i costi di adeguamento del proprio software ai processi aziendali”.

Partendo dalle specifiche di Oliani, due società hanno raccontato la loro storia: la Nutanix con il Sales Engineer in Italia Alessandro David e Medas, raccontato dalle parole della sua AI and Scientific Project Team Leader Alessia Basadonne. Il primo ha sottolineato come la sua azienda offra un software che ha alla base la semplicità, ma soprattutto l’interoperabilità, senza doversi legare a un database di dati. Dall’altro lato, Medas propone una rete di teleconsulti nazionale che connette strutture sanitarie con esperienze in Sicilia, Toscana, Marche, Veneto e Lombardia. Al centro del progetto il Medas Box, che permette alle aziende sanitarie coinvolte di parlare, senza nessun scambio di dati diretto, riducendo così i trasferimenti non necessari, con riduzione dei costi, ma anche il mantenimento dei territori svantaggiati dal punto di vista tecnologico.

Infine, al tavolo, si sono uniti anche delegati regionali come Lorenzo Sornaga, Dirigente Responsabile Area Sanità e Sistemi Centrali LAZIOcrea, che ha sottolineato l’esigenza di trovare un vestito adatto a tutti i tipi di aziende, comprendendo anche coloro con una competenza tecnologica non sufficientemente alta. Dall’altro lato si è evidenziata l’importanza del fascicolo sanitario elettronico, nelle parole di Gianmaria Mancosu, delegato del Servizio Sistemi Informativi Sanitari Regione Sardegna, che ha sottolineato come nella propria regione, l’analisi dei dati raccolti era sempre mancante: preoccupazioni che aumentano nell’adattamento, recente, al sistema Anagr nazionale, senza però aver ricevuto specifiche tecniche.

Una situazione più rosea sembra dipingersi in Campania, dove il delegato Ascione ha sottolineato il successo di Sinfonia, che ha consentito un approccio integrato tra le 17 aziende ospedaliere presenti sul territorio: il software ha permesso, soprattutto nel periodo pandemico, la creazione di app come Ecovid o Medici, in cui gli operatori sanitari potevano monitorare i propri assistiti, registrando esiti dei tamponi e vaccinazioni. Una spinta dal basso, ricevuta soprattutto dal maggior utilizzo degli strumenti digitali durante gli ultimi tre anni, passati dal 24% della popolazione al 34%: numeri ancora lontani però dalla media europea che si assesta attorno al 62%.

Il ruolo dell’ingegnere biomedico

La priorità della competenza per l’ecosistema digitale in sanità è di assoluta importanza, come riporta Chiara Contini, ingegnera biomedica referente per l’Associazione di giovani biomedici, We Wom Engineers: “La figura dell’ingegnere biomedico promossa in tutto il mondo, sostenuta dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, va collocata all’interno della filiera industriale al fine di supportare le aziende in prima linea nella progettazione corretta di un dispositivo medico, inclusi software medicali, supportare il processo di sviluppo, verifica dei processi di qualità, sicurezza dei dati, performance e gestione del rischio, secondo i requisiti esposti nel Regolamento dei dispositivi medici MDR 2017-745.
Questo riferimento di legge rende mandataria la certificazione inclusa quella per i software utilizzati come dispositivi medici, obbligando i fabbricanti a garantire i requisiti specifici per l’intero ciclo di vita partendo dall’avvio sino allo smaltimento.
Ciò va a valorizzare e rafforzare le esistenti normative (ISO EN 14971, IEC 62304, IEC 62366_1-2) che sono le guide più importanti che abbiamo per poter garantire ai -cittadini/pazienti- una “regolarità” in termini di caratteristiche tecniche, sicurezza e performance che non mettano la persona ulteriormente a rischio a causa di una cattiva progettazione o una non chiara destinazione d’uso.

Il mondo dei dispositivi medici è critico e gli ingegneri biomedici stanno ai dispositivi medici come farmacisti e chimici stanno ai farmaci, abbiamo quindi necessità di figure altamente qualificate che abbiano la sensibilità di capire la destinazione d’uso della soluzione rispetto alle esigenze cliniche, traducendo i requisiti in un linguaggio tecnico comprensibile agli sviluppatori al fine di implementare una soluzione che possa garantire i requisiti di sicurezza richiesti, fruibile agli utilizzatori e soprattutto non abbia impatti sulla salute del paziente. L’ingegnere biomedico è una figura professionale riservata, è ponte necessario nell’ecosistema progettuale ma che riesce a stare in piedi solo con la sinergia tra i ruoli coinvolti tra clinici, tecnici, informatici, aziende amministrazioni e ingegneri.
Tutti uniti allo scopo di migliorare il livello di salute del paziente. “Garantire” la qualità tecnologica diventerà una sfida sempre più grande e sarà necessario formarsi costantemente innalzando il livello di interazione interprofessionale”.

Può interessarti

Vincenzo Nasto
Giornalista professionista