L’epilessia è una malattia neurologica cronica che può colpire persone di ogni età e indipendentemente dal sesso e interessa circa 1 persona su 100. Si stima, infatti, che in Italia le persone con epilessia siano circa 500.000 e almeno 125.000 presentino forme resistenti alla terapia farmacologica.
Quando si immagina l’epilessia, la si associa troppo spesso alle crisi convulsive, perché si ignora, invece, che può manifestarsi in modi diversi, ad esempio con crisi:
- focali (che nascono in una determinata parte del cervello);
- miocloniche (piccoli movimenti a scatti involontari degli arti);
- atoniche (perdita improvvisa del tono posturale con possibili cadute a terra);
- di assenza (interruzioni momentanee dello stato di coscienza);
- convulsive.
L’epilessia è una malattia dal forte impatto sociale, che colpisce non solo le persone che ne sono affette ma anche la famiglia e, indirettamente, il contesto sociale
Ma l’epilessia va ben oltre le crisi: è una malattia dal forte impatto sociale, che colpisce non solo le persone che ne sono affette ma anche la famiglia e, indirettamente, il contesto sociale. La parola deriva dal verbo greco epilambanein che significa “essere sopraffatti, colti di sorpresa”. È caratterizzata dalla predisposizione dell’encefalo a generare crisi epilettiche, ovvero scariche elettriche eccessive in un gruppo di cellule cerebrali. Queste scariche possono originare in diverse parti del cervello, hanno caratteristiche cliniche molto diverse, arrivano all’improvviso e hanno breve durata (da pochi secondi a 2-3 minuti).
Le persone con epilessia tuttora subiscono gravi discriminazioni, sono spesso isolate socialmente e faticano a trovare lavoro o sostegno per seguire il percorso scolastico.
Nonostante i progressi scientifici in campo neurologico, la gestione della malattia è rivolta soltanto al controllo delle crisi. Ma se il 60-70% delle persone con epilessia riesce a tenere le crisi sotto controllo, c’è un altro 30% che non ci riesce, perché resistente ai farmaci.
Epilessia e mondo del lavoro: esclusione o accoglienza?
Per chi scopre di avere l’epilessia, sia da piccoli, sia da adulti, inserirsi nel mondo del lavoro, è davvero complicato se non, in certi casi, impossibile. Non solo per le prime difficoltà vissute a scuola, ma per il grande scoglio che rappresentano i colloqui di lavoro. Nonostante oggi si conosca sempre di più cos’è l’epilessia e si portino avanti programmi di formazione nelle scuole, lo stigma è ancora forte e indipendente dalla tipologia di epilessia e dalla frequenza delle crisi. Ne basta una per compromettere l’intera vita scolastica e professionale.
È molto difficile gestire l’epilessia sul luogo di lavoro, anche se la malattia è controllata dai farmaci
Ci sono certamente storie di riscatto, persone che ottengono risultati con tanta fatica e con l’aiuto della famiglia. Ma quando si ottiene un’opportunità lavorativa, è molto difficile gestire l’epilessia sul luogo di lavoro, anche se la malattia è controllata dai farmaci. E se l’epilessia colpisce quando si è già assunti? Spesso c’è l’allontanamento forzato in seguito a una crisi, un’esperienza senza dubbio traumatica. L’accettazione, se c’è, prevede un grosso sforzo da parte della persona con epilessia e un lungo processo di conoscenza.
Cosa dice la legge
Con la sentenza 21 maggio 2019, n. 13649, la Corte di Cassazione ha delineato con precisione il quadro normativo di riferimento, partendo dal presupposto che alla nozione di disabilità si attribuisce ormai un significato anche sociale.
Per garantire la parità di trattamento e la protezione giuridica del lavoratore con disabilità, la disciplina comunitaria obbliga il datore di lavoro ad adottare provvedimenti appropriati, purché non impongano un onere sproporzionato (Direttiva 2000/78/CE del 27 novembre 2000).
L’ordinamento italiano ha recepito tale indicazione nel 2013, stabilendo che i datori di lavoro pubblici e privati sono tenuti ad adottare “accomodamenti ragionevoli”. Allo stesso modo, il lavoratore deve prendersi cura della propria salute e sicurezza e di quella delle altre persone presenti sul luogo di lavoro, su cui ricadono gli effetti delle sue azioni od omissioni. Si norma da una parte l’obbligo per il datore di lavoro in caso di inidoneità fisica sopravvenuta di verificare la possibilità di evitare il licenziamento, dall’altra l’obbligo per il lavoratore di informare nel caso in cui l’epilessia costituisca un fattore di rischio per la tutela della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro.
Crisi e pregiudizio
Mentre l’ordinamento italiano cerca di normare una questione complessa come quella dell’epilessia e dell’inserimento nel mondo del lavoro, la vita quotidiana, la realtà in cui si muovono le persone con epilessia è molto difficile.
Ne parliamo con Andrea Tomasini, portavoce nazionale dell’Associazione Italiana Epilessia (Associazione Epilessia) e membro del Community Council dell’International Bureau for Epilepsy (IBE).
Perché ci sono ancora tante difficoltà nell’inserimento professionale per le persone con epilessia?
Le ragioni sono tante. È ancora oggi una malattia “scomoda” sul fronte dell’immaginario collettivo, perché suscita paura, una paura che in realtà è vissuta anche dalla persona che ne è affetta. Tutto poi è semplificato, come se l’epilessia fosse solo una, mentre sono moltissime le tipologie di crisi. Ma la cosa su cui vale la pena di riflettere è che la persona con epilessia ha una malattia raccontata dagli altri, perché quando ha una crisi si deve basare sul racconto che fa chi assiste, che vede un corpo “fuori controllo” e la narrazione che ne fa finisce per condizionare anche la persona che ha avuto la crisi. Qui si gioca tutto e si salda con un immaginario collettivo secolare di pregiudizi e paure. Sul fronte dell’occupazione il datore di lavoro si trova di fronte a una situazione che non conosce e si allarma, immaginando anche che una persona malata possa fare più assenze e quindi sia meno “affidabile”, nonostante non ci siano dati che attestino un aumento delle assenze lavorative di una persona con epilessia rispetto ad altre patologie.
La paura di ciò che potrebbe accadere quando la malattia fosse dichiarata porta a una specie di auto censura
Il punto è che su questa patologia grava uno stigma importante vissuto dalla persona con epilessia sulla propria pelle, anche a scuola, con le feste di compleanno deserte o le gite scolastiche che diventano un problema. Ma c’è anche lo stigma immaginato, c’è la paura di ciò che potrebbe accadere una volta fosse dichiarata la malattia. Questo meccanismo, molto doloroso, è quello che porta a una specie di auto censura e di difficoltà nella gestione della malattia. Pensiamo alle medicine da prendere nel posto di lavoro, che generano domande o timori.
Il datore di lavoro non sa come comportarsi e semplifica draconianamente, la persona con epilessia ha paura e spesso non dice nulla, si autocensura per timore essere emarginato. Le statistiche dicono che almeno il 20% ha rinunciato a cercare lavoro, il 50% non ha un’occupazione e altri raccontano di subire un demansionamento dopo una crisi sul posto di lavoro.
Qual è la paura più rilevante per la persona con epilessia e quale del datore di lavoro?
Al momento dell’assunzione c’è il dilemma dirlo o non dirlo. Molti non lo dicono, soprattutto se le crisi sono controllate dai farmaci. Se non si dice, il datore di lavoro, che è responsabile della sicurezza sul lavoro, in caso di crisi potrebbe però avvalersi del licenziamento per giusta causa. Magari ai colleghi sarebbe il caso di dirlo. Ma qual è la reazione? Riterrebbero affidabile un lavoratore con epilessia?
Immaginiamo invece una persona già assunta e che ha una crisi perché la patologia insorge dopo l’assunzione. Gli cade il mondo addosso. Che fa? Lo dice o no? Questa persona non potrà guidare la macchina, perché la legge dice che solo se sei farmacologicamente controllato e non hai crisi da un anno, allora potrai riavere la patente.
Un approccio che tutto sommato sarebbe valido anche sul posto di lavoro. Ricordiamoci che grazie ai farmaci circa 70% riesce a controllare le crisi. Poi c’è una quota di persone invece farmacoresistenti e per loro la vita è molto più dura. Di fatto le terapie si concentrano sulle crisi e non abbiamo farmaci antiepilettogenici o “disease-modifing”.
Come associazione stiamo facendo un lavoro in fabbrica e nelle scuole per parlare e spiegare l’epilessia e ci accorgiamo quanto l’immaginario conti tantissimo. È inoltre una malattia che si porta dietro il fardello della rappresentazione. La persona con epilessia incarna agli occhi degli altri la tipologia di uno stereotipato intero gruppo umano. Di fatto il singolo è spersonalizzato, non ha più le proprie caratteristiche individuali: tu sei solo quello che a un certo punto cade per terra. In realtà, le crisi sono anche soltanto di assenza per pochi secondi, oppure si inceppano le parole e poi si riprende a parlare senza problemi, oppure sono movimenti automatici.
Esiste uno sfasamento temporale tra la persona con epilessia e il resto del mondo, perché quando la persona ha una crisi lui/lei non c’è, ma gli altri lo vedono
Il problema dell’epilessia, oltre al fatto che se parla poco, è che esiste uno sfasamento temporale tra la persona con epilessia e il resto del mondo, perché quando la persona ha una crisi (che può durare pochi secondi o pochi minuti) lui/lei non c’è, ma gli altri lo vedono. Questa sospensione della condivisione del tempo è quel “fuori controllo” che mette paura, mentre la salute oggi è intesa come controllo ed efficienza del corpo. Chi assiste alla crisi ha paura perché magari non l’ha mai vista e non sa cosa fare, chi la “fa”, invece, deve convivere con l’immanenza delle crisi, con la sospensione del tempo rispetto a quello degli altri. Quando chiediamo alle persone con epilessia di cosa hanno paura esattamente sul posto di lavoro ci rispondono: “se dovessi avere una crisi di fronte agli altri è come se cadessero giù i pantaloni”, un denudarsi difficile da immaginare. In passato per le persone con epilessia era difficile addirittura poter fare il prete.
Sono poche le patologie così stigmatizzate, perfino l’HIV è più accettata ormai, e aggiungo per fortuna, perché significa che le cose possono cambiare. L’epilessia è un grosso paradigma che svela alcune modalità con cui si sta insieme, ponendo la questione dell’accoglienza e non solo della diversità ma anche dell’imprevedibilità. È necessario far spazio alla paura di confrontarsi con chi è fuori controllo e diventa straniero a se stesso, per risolverla.
Se lo stigma sociale è ancora così forte vuol dire che manca l’informazione?
Sicuramente. Come associazione ci dedichiamo proprio alla formazione degli insegnanti e dei responsabili alla sicurezza in azienda. Sapere cos’è una crisi, cosa succede, quanto dura, vuol dire saper cosa fare, in cui anche i colleghi possono essere un supporto. Ma forse l’informazione non basta, la questione coinvolge l’idea stessa di salute e malattia. È una questione anche culturale. Lavoro e scuola sono gli spazi sociali in cui si forgiano le relazioni, si coltiva l’autosufficienza e si nutre l’autostima. Sono i luoghi in cui si passa più tempo. Scuola e lavoro sono ambiti cruciali per accoglienza e sviluppo della persona.
Il concetto di salute va ripensato come un equilibrio dinamico tra opportunità e limiti, che cambiano nella vita e che sono influenzati da condizioni esterne sociali e ambientali
È il concetto di salute che forse va ripensato, immaginandola come un equilibrio dinamico tra opportunità e limiti, che cambiano nella vita e che sono influenzati da condizioni esterne sociali e ambientali. La cronicità della malattia va ripensata includendo aspetti biopsicosociali, riconoscendo il fatto che esiste una fluidità nel vivere la patologia che apre spazi quotidiani di negoziazione sul fronte del lavoro, della socialità, degli affetti. Nell’epilessia le crisi sono un sintomo, non sempre presente, che in inglese sono definite seizure, cioè confisca, confisca del tempo e dello spazio, che accade in pochi secondi ma che condiziona tutto il resto. Nella dinamica della cronicità non si può non tenere conto dei progressi della medicina, delle cure a disposizione, degli strumenti diagnostici. Grazie a farmaci e consapevolezza non si tratta più solo di vivere con l’epilessia, ma anche di vivere nonostante la malattia. Tenerne conto ci permette di narrare l’epilessia veramente, non in maniera normalizzante ma inclusiva, senza mai dimenticare quel 30% di persone che ancora non ha terapia in grado di controllare le crisi.
Sono previsti aiuti o sostegni anche finanziari per l’inserimento nel mondo del lavoro o per il reinserimento di una persona con epilessia?
Colpisce come oggi gli strumenti terapeutici sono numerosi ed efficaci, eppure le persone con epilessia affrontano ancora tanti problemi
O la persona accede alla “patente” di invalidità e quindi entra a far parte di quella quota di lavoratori disabili da assumere per legge, oppure niente. E secondo la mia esperienza anche con le persone con malattie reumatologiche e rare non c’è tutta questa voglia di avere la patente di invalido, contrariamente a ciò che si immagina. Poi ti devi sottoporre a visite mediche e accertamenti. In realtà c’è più la voglia di essere se stessi che avere la certificazione. Anche se si tratta di uno strumento senz’altro utile dal punto di vista economico, che consente comunque di avere una piccola entrata. Ciò che colpisce è che oggi gli strumenti terapeutici sono numerosi ed efficaci, eppure le persone con epilessia affrontano ancora tanti problemi.
È certamente una malattia da cui non si guarisce, ma faccio una piccola provocazione. Anni fa Anthony Fauci parlando dell’infezione da HIV lanciò il concetto di functional cure, cioè di una “guarigione differente” che si verificava quando, sospesi gli antiretrovirali il virus non riprendeva a replicarsi. In epilessia, nei casi in cui è possibile controllarla farmacologicamente, se una volta sospeso il farmaco non si registrano crisi per anni… che nome vogliamo dare a questa situazione? Non sto dicendo che di epilessia si guarisce, ma un nome consensuale a questo fatto sarebbe opportuno darlo. Aggiungo, perché non ripensare il concetto di cura in senso antropologico esistenziale, partendo da angolazioni culturali diverse? Si tratta di creare un ponte tra disease e illness, clinica ed esperienza soggettiva di malattia.
Tornando al sostegno, non c’è nulla di specifico a livello legislativo per la persona con epilessia; alla fine tutto si basa sulla buona volontà delle persone, sull’apertura a capire cos’è l’epilessia per non averne paura, sulla diffusione di una corretta informazione, sul mantenimento dei legami sociali.