Integrare l’approccio di genere nella pratica clinica non è solo una questione di equità, ma una leva concreta per migliorare gli esiti di salute, personalizzare le cure e ridurre i costi per il Servizio sanitario nazionale. Eppure, nonostante i passi avanti compiuti, il gender gap in sanità è ancora una realtà.
Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, la medicina di genere studia l’influenza delle differenze biologiche (sesso) e socioculturali (genere) sullo stato di salute e di malattia di ogni persona. Un approccio trasversale, che dovrebbe essere integrato in tutte le specialità mediche e nei diversi ambiti del sistema sanitario: dalla prevenzione alla diagnosi, dalla cura alla ricerca, fino alla formazione.
Promuovere e attuare lo studio delle differenze biologiche, socioculturali e ambientali, insieme alle caratteristiche degli stili di vita, è fondamentale per giungere a una medicina personalizzata
L’Italia, pur distinguendosi in Europa per aver introdotto una legge specifica e un piano nazionale per la diffusione della medicina di genere, deve ancora affrontare ostacoli rilevanti nell’attuazione concreta di questo paradigma. Secondo il report Salute delle donne: benessere, presente, crescita futura, curato da The European House – Ambrosetti, investire in una sanità più attenta alle differenze di genere potrebbe ridurre il carico di malattia stimato in 144 miliardi di euro e generare un impatto positivo pari al 2% del PIL.
Ma qual è oggi lo stato dell’arte? Come si traduce, nella pratica, l’approccio di genere? TrendSanità lo ha chiesto a Elena Ortona, direttrice del Centro di Riferimento per la Medicina di Genere dell’Istituto Superiore di Sanità.
Medicina di genere: a che punto siamo in Italia?
«Mi sento di affermare che l’Italia è all’avanguardia rispetto alla considerazione delle tematiche di genere nella salute. È l’unico paese che disponga di una legge e di un piano di applicazione e diffusione della medicina di genere, che abbia istituito un osservatorio dedicato e che si sia dotato di normative che dovrebbero portare all’applicazione della medicina di genere, con l’obiettivo di migliorare l’appropriatezza e l’equità dei trattamenti. Promuovere e attuare lo studio delle differenze biologiche, socioculturali e ambientali, insieme alle caratteristiche degli stili di vita, è fondamentale per giungere a una medicina personalizzata, adattabile al singolo individuo».
Quali sono state le tappe di questo processo?

«In Italia si è creata una rete fra l’Istituto Superiore di Sanità (ISS), con il Centro di riferimento per la medicina di genere che è stato istituito nel 2017, il GISEG (Gruppo Italiano Salute e Genere) ossia la società scientifica in Italia che si occupa di medicina di genere, e il Centro studi nazionale per la salute e medicina di genere diretto dalla professoressa Giovannella Baggio.
Questa collaborazione a tre è stata il volano per la creazione di una rete di studio e di interesse, con l’adesione di società scientifiche, accademia, Regioni. Si è così creato un substrato scientifico e culturale che ha fatto sì che anche la politica comprendesse l’importanza della medicina di genere come obiettivo strategico per il SSN; un processo che ha portato, grazie alla Legge n. 3/2018, alla istituzione dell’Osservatorio sulla Medicina di Genere presso l’ISS.
A questo ha fatto seguito, nel 2019, l’approvazione del Piano per l’applicazione e diffusione della medicina di genere, prodotto dal Ministero della Salute e dal Centro di riferimento dell’ISS, in collaborazione con esperti regionali, AIFA, AGENAS e con i referenti per la medicina di genere della Rete Irccs.
Il Piano riporta gli obiettivi strategici, gli attori coinvolti e le azioni previste per l’applicazione della medicina di genere nelle quattro aree d’intervento identificate dalla legge: percorsi clinici di prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione; ricerca e innovazione; formazione; comunicazione».
Qual è la reale applicazione di un approccio di genere in sanità?
«Siamo partiti molto bene rispetto agli altri paesi, ma molto resta da fare, sia dal punto di vista della formazione, che dal punto di vista dei percorsi clinici. A livello ospedaliero viene posta un’attenzione maggiore al tema, e si inizia a richiedere un’attenzione specifica nella predisposizione dei Piani diagnostico terapeutici assistenziali (PDTA). Ma purtroppo permane, da parte di molti medici, un atteggiamento di scetticismo e sottovalutazione nei confronti della prospettiva di genere. È necessario lavorare molto in questo senso.
Per quanto riguarda la formazione e l’aggiornamento, sono stati attivati corsi per il personale sanitario; un progetto non ancora compiuto riguarda, inoltre, l’inserimento della materia nei percorsi universitari. È stato infatti approvato solo recentemente il Piano formativo Nazionale per la medicina di genere, che richiede l’inserimento dell’attenzione alle differenze di sesso e genere anche nei percorsi formativi delle professioni sanitarie non mediche.
Anche in ambito della comunicazione al pubblico si comincia a parlare molto di medicina di genere, spesso con l’ausilio di siti tematici.
Siamo partiti molto bene rispetto agli altri paesi, ma molto resta da fare, sia dal punto di vista della formazione, che dal punto di vista dei percorsi clinici
Per quanto riguarda l’Osservatorio, ha il compito non solo di monitorare, ma anche di facilitare la diffusione e l’applicazione della medicina di genere. Gli Assessorati alla Salute delle Regioni italiane hanno nominato un referente regionale per questo tema, con il compito di creare un gruppo di lavoro volto a un’applicazione il più possibile capillare dei principi della medicina di genere.
È stato inoltre costituito un tavolo al quale partecipano i referenti di circa 60 società scientifiche, finalizzato alla discussione di metodiche condivise, nelle diverse specialità, per l’applicazione della medicina di genere in ogni ambito di azione».
Quali sono gli aspetti più critici che riguardano invece l’ambito della ricerca?
«Gli studi epidemiologici contribuiscono a mettere in luce le differenze di genere; quello che ancora manca è la comprensione dei meccanismi che le determinano, necessaria per intervenire con l’identificazione di marcatori – diagnostici, prognostici, predittivi – o anche di bersagli terapeutici genere-specifici.
Ancora oggi, le donne sono sottorappresentate negli studi di fase 1, a causa di possibili interferenze delle variazioni ormonali e del rischio gravidanza; e i trial clinici spesso non prevedono l’analisi dati in maniera disaggregata per genere.
Ancora oggi, le donne sono sottorappresentate negli studi di fase 1
Su questo aspetto è importante agire; auspichiamo un intervento da parte dei comitati etici; il cambiamento potrebbe forse essere favorito dal fatto che molte riviste scientifiche richiedono, come requisito per la pubblicazione, la considerazione delle differenze di sesso e genere con una equa rappresentanza dei partecipanti e la presentazione dei risultati in maniera disaggregata».
Quali sono le indicazioni normative rispetto a questo?
«La Legge n.3/2018 stabilisce che “la sperimentazione clinica dei medicinali sia svolta attraverso un’adeguata rappresentatività di genere”. Ma si tratta di un processo lungo e difficile da accettare anche per le aziende farmaceutiche, a causa dei maggiori investimenti che questo richiede.
D’altra parte, la conoscenza delle differenze di genere permetterebbe un rientro economico importante, per esempio limitando i gravi effetti avversi che possono avere alcuni farmaci, testati unicamente su individui maschi, sulle femmine. Un esempio è rappresentato dai vaccini, verso i quali le donne hanno una risposta immunitaria più forte e potente, e di conseguenza una maggior incidenza di effetti collaterali. Va ricordato che molti farmaci sono stati ritirati dal commercio proprio a causa di gravi effetti avversi nel sesso femminile».
Quali sono le patologie più studiate in un’ottica di genere?
«Sicuramente quelle oncologiche; per il tumore del colon-retto, ad esempio, si osserva una minor efficacia del test per la ricerca del sangue occulto nelle feci, come strumento di screening nella donna, con una maggiore probabilità di falsi negativi rispetto a quanto osservato nell’uomo.
Nel caso invece di una malattia considerata quasi esclusivamente femminile, come l’osteoporosi, lo svantaggio riguarda il milione di uomini che ne è affetto, e per i quali non sono previsti interventi preventivi o test diagnostici adatti. Inoltre, è stato osservato che, in caso di fratture femorali, gli uomini presentano un rischio di mortalità per qualsiasi causa più elevato rispetto alle donne».
Sono stati pubblicati documenti ufficiali sul tema?
«L’ISS ha prodotto in collaborazione con alcune società scientifiche, documenti specifici per la gestione di alcune condizioni, dall’emicrania alle patologie oncologiche (con un position paper di AIOM).
È inoltre in preparazione un position paper relativo alle malattie cardiovascolari.
L’obiettivo è rendere la medicina di genere parte integrante della pratica clinica: sarà semplicemente medicina
I documenti sul tema sono numerosi:
A livello più generale, l’Osservatorio ha pubblicato il documento Linee di indirizzo per l’applicazione della Medicina di Genere nella ricerca e negli studi preclinici e clinici per un miglioramentodell’equità nella ricerca biomedica – parte 1 e parte 2.
Inoltre, le considerazioni di sesso e genere sono state inserite negli standard metodologici del Sistema Nazionale Linee Guida (SNLG) per lo sviluppo e l’aggiornamento delle Linee Guida. I produttori di linee guida sanitarie sono quindi tenuti a emanare raccomandazioni specifiche solo dopo una revisione della letteratura su eventuali differenze di sesso e genere negli aspetti epidemiologici, clinici e terapeutici. Il nostro obiettivo è quello di rappresentare un riferimento per unire realtà diverse, e contribuire alla produzione di indicazioni per un’applicazione corretta dei principi per ridurre il divario di genere in sanità. Considero positivamente i risultati di questo processo, grazie al quale in futuro non si parlerà più di “medicina di genere”, perché quella sarà “la medicina”».