Quest’anno i farmaci generici in Italia soffiano le 25 candeline. È infatti del 1996 la legge (la n. 425) che ha disciplinato per la prima volta la commercializzazione di questi farmaci nel nostro paese. In 25 anni i generici, poi ribattezzati equivalenti per ovviare, senza fortuna, a quella pessima scelta del nome, sono cresciuti, in tutti i sensi, conquistando ogni anno, seppur lentamente, quote di mercato sia a livello farmacia sia ospedaliero. Sottovalutati da sempre, durante la pandemia hanno fatto la differenza, soprattutto nelle terapie intensive. Ma nonostante la buona reputazione, il generico non decolla nel sud Italia e non è sempre ben visto tra medici e farmacisti. I motivi? Resistenze culturali. Che sono quelle più difficili da superare.
Farmaci generici (o equivalenti!)
Secondo la definizione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, si intende per generico un medicinale che sia intercambiabile con il prodotto originale, e che viene messo in commercio dopo la scadenza del brevetto e del certificato complementare di protezione del prodotto originale stesso.
La legge n. 425 del 1996 ha regolato per la prima volta in Itala la commercializzazione dei generici
Nella legge del 1996, si parla di medicinale prodotto a livello industriale a base di uno o più principi attivi, non protetto da brevetto o da Certificato Complementare di Protezione (CCP), identificato dalla Denominazione Comune Internazionale (DCI) del principio attivo o, in mancanza di questa, dalla Denominazione Scientifica del Medicinale, seguita dal nome del titolare AIC. Il farmaco deve essere bioequivalente rispetto ad una specialità già autorizzata, con la stessa composizione quali-quantitativa in principi attivi, la stessa forma farmaceutica e le stesse indicazioni terapeutiche.
Gli studi clinici non sono richiesti perché sono informazioni già conosciute, in quanto fornite dal richiedente la prima AIC per quella sostanza attiva, per cui l’efficacia, la sicurezza e la qualità sono comunque tutelate.
Un po’ di storia
I generici iniziano ad affacciarsi sul mercato quando cominciano a scadere i primi brevetti.
La durata del brevetto è di 20 anni. Considerando il 1955 come data di sviluppo dei nuovi farmaci nel secondo dopoguerra, con i primi 20 anni di brevetto arriviamo al 1975, anno in cui in diversi paesi, prevalentemente in Inghilterra e Germania, nacquero delle aziende per produrre e commercializzare farmaci generici sulla base di quelli in scadenza.
Fino al 2005 la diffusione degli equivalenti è stata più difficoltosa
In Italia il brevetto per i farmaci fu introdotto nel 1978 e quindi nel 1998 si affacciarono sul mercato le aziende che avevano già introdotto i generici negli altri mercati europei.
“In questi 25 anni di farmaco generico – commenta Enrique Häusermann, presidente Egualia, l’associazione degli industriali del generico in Italia – si è raggiunta la quota del 23-24% in termini di unità. Non parlo di valori altrimenti non si può fare un confronto con gli altri Paesi UE, perché i prezzi cambiano nei diversi Paesi anche si tratta dello stesso identico prodotto. In Germania, ad esempio, il generico ha raggiunto il 65%. Il gap dell’Italia è dovuto al fatto che le aziende sono entrate nel mercato 25 anni dopo e hanno trovato una grande resistenza da parte della classe medica e dei farmacisti. Le aziende detentrici del brevetto hanno combattuto l’avvento dei generici, influenzando la classe medica. L’accettazione da parte dei farmacisti è stata più rapida per questione di cultura, c’è stata anche meno pressione da parte delle aziende. Fino al 2005 abbiamo riscontrato grosse difficoltà nel far circolare gli equivalenti; poi lentamente, complice anche il fatto che i brevetti di farmaci di classi importanti, come quelli delle malattie cardiovascolari, gastrointestinali, antibiotici ecc., cominciarono a decadere, iniziò a esserci più spazio per i generici”.
E i farmaci equivalenti, una volta immessi sul mercato, hanno contribuito ad abbassare i prezzi, anche in modo importante: in funzione della dimensione del mercato relativo si parla di 50-70% in meno. Questo significa che appena compare nelle liste di trasparenza, il farmaco generico crea un risparmio almeno del 50%. E questo ha spinto il SSN a incentivarne l’uso.
Dopo la legge del 1996, si inizia a parlare in maniera più specifica di rimborsabilità del generico con la Legge Finanziaria del 2001 (L. n.388 del 23.12.2000) che prevede che i medicinali equivalenti siano rimborsati fino a concorrenza del prezzo medio ponderato dei medicinali aventi prezzo non superiore a quello massimo attribuibile al generico.
Se il medico prescrive un medicinale con un prezzo maggiore rispetto all’alternativa più economica, la differenza di prezzo è coperta dal paziente. Di tasca propria.
Un atteggiamento che dovrebbe incentivare la prescrizione del generico o la richiesta dallo stesso da parte dei cittadini ma, come vedremo, soprattutto in alcune regioni italiane, la salute non ha davvero prezzo, in tutti i sensi. E le persone sono disposte pagare di più, molto di più, per un farmaco brand, anche se esiste il generico corrispondente, altrettanto sicuro ed efficace.
Il mercato
I generici in UE rappresentano il 67% a volumi e il 29% a valori del mercato farmaceutico. Ad oggi, tre su quattro farmaci equivalenti sono prodotti in Europa.
Il comparto degli equivalenti a livello europeo genera circa 190.000 posti di lavoro in ricerca e sviluppo, produzione e vendita, e sta investendo in questi anni importanti risorse nella ricerca per i biosimilari, l’ambito respiratorio e quello del sistema nervoso centrale.
I generici in UE rappresentano il 67% a volumi e il 29% a valori
In Italia, secondo l’ultimo rapporto di Egualia sui farmaci generici, realizzato su dati IQVIA, nel 2020, nel canale delle farmacie aperte al pubblico gli equivalenti hanno assorbito il 22,46% del totale del mercato a confezioni – con una crescita dello 0,3% – (Figura 1) e il 14,5% del mercato a valori (+0,4%). L’89% delle confezioni vendute è classificato in classe A, totalmente rimborsabile dal SSN.
La crescita in questi vent’anni è stata graduale ma costante, passando dall’1,10% del mercato del 2021 a quasi il 23% di oggi.
I generici rappresentano il 22,46% del totale del mercato farmaceutico, quasi alla pari con i brand a brevetto scaduto, che quotano il 24,38%. I farmaci esclusivi (protetti o senza generico corrispondente) assorbono invece l’altro 53,16% del mercato complessivo.
Figura 1. Vendita di generici-equivalenti nelle farmacie aperte al pubblico sul totale del mercato farmaceutico in Italia. Anni 2001-2020
Fonte: Centro Studi Egualia
Da Nord a Sud Italia, oltre l’80% dei medicinali rimborsati dal SSN (classe A) afferiscono all’area dei farmaci off patent, ricomprendendo sotto questa voce sia i generici che i brand fuori brevetto.
Profondamente diversificato invece, da Regione a Regione, il peso dei generici sul rimborsato farmaceutico pubblico: il divario tra Nord e Sud è impressionante.
L’incidenza maggiore nella P.A. di Trento (43,2%), in Lombardia (40,1%), in Friuli Venezia Giulia (37,8%). In coda per consumi di generici-equivalenti Calabria (21,2%), Basilicata (21%), Campania (21,5%).
Il fatto di non scegliere il farmaco generico porta i cittadini a dover versare la differenza di tasca propria: nel 2020 gli italiani hanno speso 1.051 milioni di euro di differenziale di prezzo per ritirare il brand off patent – più costoso – invece che il generico-equivalente – a minor costo – interamente rimborsato dal SSN.
L’incidenza maggiore dell’out of pocket si registra in Molise (il 15,8% sulla spesa regionale SSN nel canale retail) e nel Lazio (15,7%). Quella più bassa si registra invece ancora una volta in Lombardia, dove il differenziale versato di tasca propria dai cittadini quota il 10,69% della spesa regionale SSN in farmacia.
Nel 2020, nel canale ospedaliero, gli equivalenti hanno assorbito il 30% del mercato a volumi (contro il 29,8% del 2019, +0,2%). I farmaci esclusivi – sotto brevetto o privi di generico corrispondente – hanno assorbito invece il 33,1% del mercato in corsia. La quota più rilevante è rimasta nelle mani dei brand a brevetto scaduto che concentrano il 36,8% dei consumi ospedalieri.
Se analizziamo il mercato a valori notiamo come i farmaci esclusivi (protetti da brevetto o senza generico) rappresentino il 91,5% del giro d’affari farmaceutico nel canale ospedaliero, contro il 6,1% dei brand a brevetto scaduto e il 2,4% dei generici-equivalenti.
Detta in parole ancora più semplici: i farmaci esclusivi che a volumi rappresentano il 33,1% del mercato ospedaliero, quotano oltre il 90% dei valori. Mentre i generici, che a volumi sono simili (30%) a valori rappresentano solo il 2,4%. Stiamo parlando di farmaci e categorie differenti (i primi sono innovativi, esclusivi, ecc.; i secondi sono farmaci presenti sul mercato da anni e ormai fuori brevetto, usati per patologie croniche) ma in ogni caso è interessante questa differenza di valori e ancora più interessante è il risparmio che generano i generici rispetto ai farmaci esclusivi.
Pandemia e farmaci, quando il generico fa la differenza
Durante l’emergenza sanitaria e in particolare nelle fasi più critiche, il 70% dei farmaci usati in terapia intensiva è stato rappresentato dai farmaci equivalenti.
“La domanda è improvvisamente cresciuta di sette volte la richiesta normale – sottolinea il presidente di Egualia – le aziende si sono trovate in difficoltà nell’approvvigionare gli ospedali. Sono stati fatti grandi sforzi nei primi mesi della pandemia per gestire la produzione. La collaborazione con AIFA è stata totale e fondamentale, perché si è dovuto acquistare principi attivi da altri Paesi senza le autorizzazioni preventive”.
Un’altra tematica cruciale che l’emergenza nazionale ha permesso di mettere in luce riguarda la biodiversità. Come analizzato dal rapporto di NOMISMA per Egualia, la pandemia ha evidenziato l’essenzialità dei prodotti dei farmaci di vecchia generazione nella pratica clinica e nella gestione di situazioni di crisi e, dunque, l’importanza di mantenere in essere la biodiversità nella produzione.
Mantenere la biodiversità e rafforzare la produzione in Ue sono elementi cruciali
Un altro punto importante è conservare e rafforzare la produzione dei principi attivi in Europa e in Italia, cercando di limitare la dipendenza dall’estero: oggi il 40% dei farmaci utilizzati nei Paesi Ue proviene da Paesi terzi (con la Cina che ha quasi il monopolio mondiale della produzione di materie prime per i principi attivi). Per mantenere e rafforzare la produzione europea, ALISEI (Advanced Life Science in Italy), il cluster tecnologico nazionale Scienze della vita, ha realizzato un progetto a cui partecipano Farmindustria, con le sue duecento aziende e un fatturato di 34 miliardi dei quali l’85% generato dalle esportazioni, Egualia con oltre 50 aziende, un fatturato che supera i tre miliardi e un export a quota 39% e Federchimica Aschimfarma (produzione di principi attivi), che raggruppa una cinquantina di imprese per un fatturato di quasi 3,5 miliardi con una esportazione del 90%.
L’operazione dovrebbe creare 11mila nuovi posti di lavoro per un investimento di quasi due miliardi di euro.
Brand o generico? Questione di cultura (e percezione)
A guardare la penetrazione dei farmaci generici nel nostro paese si notano differenze importanti, e spiegabili solo da un punto di vista culturale, non certamente scientifico. Il ricorso alle cure equivalenti continua ad essere privilegiato al Nord (37,9% a unità e 29,7% a valori), rispetto al Centro (27,5% a unità e 22,6% a valori) e al Sud (22,7% a unità e 18,7% a valori), a fronte di una media Italia del 30,4% a confezioni e del 24,6% a valori.
Questi dati fanno riflettere sulla percezione che i cittadini, ma prima ancora i medici e i farmacisti, hanno sui farmaci generici.
In una revisione sistematica svolta nel 2015 che prendeva in considerazione pubblicazioni sulla percezione dei farmaci generici dal 1987 in oltre 20 paesi, è stato rilevato come molti cittadini credano che i farmaci generici siano molto meno efficaci di quelli di marca, mentre tra molti farmacisti si crede siano di qualità inferiore. Tra i medici, infine, si è rivelato come una buona parte sostenga che gli equivalenti causino maggiori effetti collaterali dei farmaci di marca.
Quali sono i motivi alla base di questo scetticismo?
Per i farmacologi, il nocciolo della questione riguarda i dati richiesti dagli enti regolatori per approvare i generici, molto inferiori rispetto a quelli richiesti per i nuovi farmaci perché le molecole sono già note. Per i generici, l’AIFA si limita infatti a valutare la bioequivalenza: “Dal punto di vista scientifico c’è confusione – commenta il Professor Gianni Sava della Società Italiana di Farmacologia – il farmaco fuori brevetto può essere prodotto da chiunque, purché si inventi una formulazione che sia in grado di portare il farmaco a livello plasmatico in una concentrazione sovrapponibile a quella del farmaco originale. Ciò non significa che la concentrazione sia la stessa dell’originale, ma deve ricadere nell’intervallo noto. Lo spettro di questi farmaci è però talmente ampio che è impossibile che non ci sia sovrapposizione. Quando invece viene immessa una nuova molecola si hanno delle restrizioni sull’intervallo di concentrazione, restrizioni che non ci sono più quando si parla di generico, perché la molecola è nota e si è già accumulata esperienza sull’utilizzo”.
Detto più semplicemente: lo scetticismo che serpeggia tra i medici (non tutti, ma tra coloro che non prescrivono il generico) è da ricondurre al fatto che le sperimentazioni richieste per il farmaco si riducono solo agli studi che dimostrano l’adeguatezza della concentrazione plasmatica. Non si fanno gli studi clinici di fase 1 per la tossicità, di fase 2 e 3 per l’efficacia e la sicurezza, perché la molecola è nota.
“C’è poi la questione che c’è più di un generico sullo stesso farmaco – sottolinea Sava – ognuno con la sua formulazione, con il rischio che se il paziente passa da uno all’altro, ci può essere un problema di concentrazioni. Accettando come presupposto una fluttuazione di concentrazione più ampia rispetto al farmaco originale, potrebbe capitare che la somma delle variazioni di concentrazioni di due generici sia amplificata, con ripercussioni sull’efficacia e la sicurezza per il paziente. Ci sarebbe bisogno di un’autorizzazione condizionata, in modo che, con i real data acquisiti a supporto dell’attività del farmaco, ci sia maggior trasparenza”.
E conclude: “Da ultimo, non essendo richieste tutte le certificazioni, ma solo dati sul processo produttivo e sulla bioequivalenza da dimostrare, resta il dubbio che l’equivalente lo possa fare chiunque, cosa che a livello psicologico incide negativamente”.
Il presidente di Egualia non è dello stesso parere: “Il processo di approvazione di un farmaco equivalente non necessita di tutte le fasi sperimentali cliniche e il motivo mi pare ovvio: con la legge del ‘96 fu istituito anche il concetto di bioequivalenza, il problema quindi non dovrebbe esistere. I dubbi dei medici non li comprendo, se non ci si fida dell’ente regolatorio non ci si dovrebbe fidare neanche per i farmaci a marchio”.
Dubbi e timori che evidentemente rimangono in farmacia o negli studi medici privati, perché nell’ambito ospedaliero i generici sono usati senza particolari criticità. “Negli ospedali la situazione è ribaltata – riprende Häusermann, – perché non c’è l’ostacolo del paziente e il medico di corsia sceglie in base alle molecole, non al nome del farmaco. Inoltre, l’acquisto dei farmaci è sottoposto a gara, tant’è che il farmacista ospedaliero sceglie in funzione del costo sapendo che si tratta di prodotti equivalenti”.
L’unica strada è continuare a fare cultura sul farmaco generico, per sfatare tutti i dubbi sulla formulazione e sulla produzione.
Il farmaco generico, tra risparmio e innovazione
Parlare di farmaci equivalenti e innovazione può sembrare un ossimoro, perché i generici non innovano, si limitano a copiare molecole esistenti. Ma in realtà le cose stanno diversamente. Almeno a sentire chi i generici li produce: “Come produttori di farmaci equivalenti siamo i più grandi sponsor dell’innovazione – riprende il numero uno di Egualia – perché una volta che scade il brevetto l’acquisto dei generici porta a un risparmio che deve essere investito in innovazione. Cosa che purtroppo non accade in Italia”. Anche perché la ricerca sui farmaci è svolta dall’industria privata, e a livello pubblico c’è molto poco. Ma se si iniziasse a usare i soldi risparmiati grazie ai generici in ricerca clinica pubblica, forse le cose cambierebbero.
È sempre un tema di allocazione delle risorse, che nel settore farmaceutico non si riescono a ridistribuire in modo adeguato.
Che il farmaco generico generi risparmio è indubbio, ma sarebbe utile capire come questo risparmio sia distribuito nel SSN, dove siano impiegate le risorse liberate. Così come sarebbe utile superare questa costante discrasia, unica in Europa, tra l’uso massiccio del generico in ospedale e quello più limitato sul territorio, per mere resistenze culturali.