L’autonomia differenziata potrebbe non rimanere al centro dell’agenda politica. Complici i diversi pesi dei componenti della coalizione di maggioranza. L’accurata analisi politica di Giovanni Fattore, professore di Politica e Management sanitario, dipartimento di Scienze sociali e politiche, Cergas-Sda Università Bocconi.
Professor Fattori, iniziamo con una domanda di ampio respiro. Quali sono le luci e le ombre del Ddl sull’autonomia differenziata dal punto di vista delle politiche sanitarie?
Bisogna fare una premessa sulle possibili aree oggetto dell’autonomia differenziata. La sanità è particolare perché ha già un forte livello di differenziazione tra le Regioni. È già materia di legislazione sia concorrente che regionale su alcuni aspetti fondamentali.
Esiste già uno spazio politico lasciato alle Regioni per identificare i propri modelli di assistenza e finanziamento interno delle aziende o di mix pubblico-privato. Siamo quindi in una situazione diversa ad esempio rispetto al tema della scuola, che è fortemente centralizzata.
L’autonomia differenziata parte dall’idea che ci siano i Lep (Livelli essenziali di prestazione), che per la sanità esistono già e si chiamano Lea (Livelli essenziali di assistenza); annunciati nel 1992, sviluppati nel 2001 e rivisti nel 2017.
Una seconda premessa importante riguarda il dibattito che ho potuto seguire fino ad ora sulle risorse. Un conto è se si parla di autonomia differenziata con un modello di finanziamento fortemente centralizzato in cui sostanzialmente le risorse sono raccolte dallo Stato e poi ridistribuite in base ai bisogni delle popolazioni dei diversi territori. Diverso il caso in cui si andasse nella direzione di un sistema di decentramento fiscale verso cui alcune Regioni sembrerebbero suggerire: risorse direttamente raccolte dai territori e poi un eventuale fondo di riequilibrio. Questa seconda ipotesi porterebbe a un cambiamento radicale che determinerebbe una differenziazione enorme tra le Regioni.
Quello del finanziamento è uno dei punti che farebbe davvero la differenza rispetto alla situazione attuale, non solo per la sanità ma anche per le altre materie concorrenti. Il bilancio dello Stato avrebbe minore gettito e quindi anche minori risorse per agire perequativamente in soccorso alle regioni più in difficoltà. Lei che ne pensa?
C’è chi dice che magari nel lunghissimo periodo questo assetto potrebbe essere di stimolo allo sviluppo economico delle Regioni svantaggiate. Ma la storia, anche di altri Paesi, ci insegna invece che si andrebbe accentuando la distanza tra Regioni ricche e Regioni povere in termini di reddito.
Del resto anche i Lea, dal 2001 a oggi, vigendo ancora una fiscalità diretta allo Stato che poi ridistribuisce alle Regioni in base alle diverse necessità, non ha creato un meccanismo virtuoso di traino delle Regioni svantaggiate da parte di quelle meglio organizzate in ambito sanitario…
È così. Secondo me ci sono due grandi determinanti, che collidono e si sovrappongono, per vedere il livello di performance delle diverse Regioni. Uno è il fatto che dove ci sono economie più forti e una situazione socio-economica più favorevole funzionano meglio anche i servizi pubblici come la sanità. Anche per effetto di travaso tra economia privata e pubblica.
Ci spiega meglio questo concetto?
In una Regione ad alto tasso di disoccupazione, la popolazione vede l’Asl come luogo che crea reddito prima che come luogo che eroga i servizi sanitari
Lo faccio con una parabola. In una Regione ad alto tasso di disoccupazione, come la Calabria, la spinta sul sistema politico non è solo quella di avere servizi di qualità, ma è tendenzialmente quella di usare la Pubblica amministrazione come occasione per produrre occupazione. Questo tende a peggiorare ad esempio il profilo dei meccanismi di reclutamento del personale. La popolazione locale vede la Asl, che magari è l’azienda più importante del territorio, come luogo che crea reddito prima ancora di un luogo che eroga i servizi sanitari. Questo distorce il meccanismo di reclutamento, che può generare ipertrofia nell’organico o equilibri sbagliati tra diverse figure professionali.
Veniamo al secondo determinante di cui accennava prima.
Le Regioni del Sud Italia, vuoi per la debolezza della politica vuoi per una tradizione di un’amministrazione pubblica debole, hanno servizi pubblici in generale di qualità ed efficienza minore che al Centro-Nord.
Un ulteriore effetto è prodotto dalla spesa privata. Se guardiamo alla distribuzione della spesa privata sul territorio, essa è più elevata nelle Regioni ricche dove ci sono anche i sistemi sanitari che funzionano meglio. Ciò significa che la spesa privata alleggerisce la pressione sul Ssn, che a sua volta riesce ad avere migliori performance.
Ma allora si salva qualcosa di questo Ddl sull’autonomia differenziata rispetto alla sanità?
La criticità finanziaria di cui parlavo, a mio avviso è quasi assoluta. Se vogliamo mantenere un Ssn, esso deve avere un finanziamento accentrato dove le risorse sono raccolte dallo Stato e ridistribuite al territorio in base a criteri quali la popolazione residente aggiustata per il tasso di invecchiamento e per alcuni indicatori di morbidità. Basti pensare che in Germania, che è un Paese fortemente decentrato basato sui Lander, il finanziamento segue proprio questo modello. Se agissimo in modo diverso, credo salterebbe l’idea di un sistema sanitario universale unico per tutti i cittadini.
Più complesso il discorso sul conferire poteri alle Regioni per lasciare autonomia nei modelli amministrativi, organizzativi e di finanziamento. Sotto questi aspetti bisogna considerare che il sistema è già abbastanza decentrato. Rispetto a questi argomenti sono meno critico. Che le Regioni possano sperimentare modelli di maggior autonomia ed essere libere di organizzare i servizi rispetto ai contesti locali a mio avviso è un aspetto positivo. Però a una doppia condizione. Che i Lea siano misurati meglio e che si riesca a fare un bilancio non solo di ordine economico-finanziario per garantire che le Regioni abbiano i conti in ordine, ma anche riuscire a garantire che esse diano le prestazioni previste dai Lep (o dai Lea).
Parliamo delle verifiche di rispetto dei Lep, facoltative e non obbligatorie.
Lo sforzo da parte di Agenas per monitorare i Lea deve essere ancora rafforzato
Negli ultimi anni c’è stato uno sforzo da parte di Agenas per monitorare i Lea. Ma questo deve essere rafforzato ulteriormente. E richiede sistemi informativi unici in tutto il Paese. Senza avere metriche per misurare, ad esempio le liste d’attesa, nello stesso modo e possibilmente con gli stessi software si rischia di avere dati non confrontabili tra loro.
La non obbligatorietà dei controlli mi vede totalmente contrario, anche perché in contraddizione con la legge 833/78 che nei primi due-tre articoli stabilisce degli obiettivi di equità territoriale per l’assistenza sanitaria pubblica. Lo Stato deve garantire al cittadino un’omogeneità di prestazione sul territorio. Che ciò si raggiunga applicando modelli diversi va bene. Altrimenti si va verso una situazione simil-americana, dove ci sono Stati che hanno più potere in ambito sanitario e altri che arrivano a non coprire tutta la popolazione perché hanno politiche molto restrittive e di austerità di bilancio pubblico.
Deve poi esistere la capacità sostitutiva dello Stato nel caso le Regioni non riescano a garantire i Lep. Questa capacità deve essere rafforzata. Se, ad esempio, la Campania non riesce a garantire la riabilitazione perché c’è un terzo dei posti letto previsti dallo standard nazionale, lo Stato centrale deve intervenire per limitare il potere politico locale nell’ottica di far prevalere il principio in base al quale il cittadino deve avere gli stessi diritti sul territorio nazionale.
Lo Stato deve poter inviare management adeguato sui territori
Lo Stato però non deve avere solo le risorse finanziarie, ma anche quelle reali. Che significa avere meccanismi tali per cui ad esempio, se la Regione Calabria performa male e perde soldi a seguito della migrazione sanitaria, lo Stato deve poter spostare management adeguato sul territorio. Una sorta di meccanismo incentivante in base al quale lo Stato invia direttori generali, amministrativi e sanitari delle aziende sanitarie da altre Regioni in cui hanno sviluppato capacità manageriali di un certo tipo. Non basta un Commissario che sostituisce la politica senza passare più dalla Giunta regionale.
Questo spostamento di risorse reali nelle Regioni in difficoltà, nell’ambito del Pnrr, lo stanno facendo le società di consulenza. Che mandano economisti e ingegneri gestionali ad aiutare i funzionari regionali a far rispettare tempistiche e procedure previste per riuscire a ottenere i finanziamenti del Pnrr. Occorre naturalmente far crescere nuove capacità interne alla Pubblica amministrazione.
Quali scenari si aprirebbero qualora le richieste di autonomia differenziata avanzate da Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna trovassero accoglimento?
Anche rispetto alle dichiarazioni fatte da Bonaccini, il Partito Democratico tenderebbe a sfilarsi. Con un governo di questo tipo, non forzerebbe sul favorire l’autonomia differenziata. L’alleanza che si era creata tra Centrodestra e Centrosinistra nelle Regioni del Nord non credo possa reggere.
Sta dicendo che anche altre Regioni passerebbero al Centrodestra?
Siamo in una situazione in cui tutte le Regioni, eccetto Puglia, Campania, Toscana ed Emilia-Romagna, hanno un governo di Centrodestra. In più il governo nazionale è anch’esso di Centrodestra.
Il tema dell’autonomia differenziata è dirompente all’interno di questa coalizione.
Se da un lato per cercare di recuperare terreno la Lega sembra rilanciare l’idea dell’autonomia e del decentramento, mi viene da dire che per sua storia invece Fratelli d’Italia è sul versante opposto. Basato com’è come partito sull’unità nazionale, non sembra sensibile alle tematiche legate all’autonomia differenziata.
Credo che il processo del Ddl sia stato volutamente accelerato prima delle recenti elezioni amministrative regionali perché questo garantiva ulteriormente il successo della coalizione di Centrodestra. Però non vedo facile all’interno del governo una strategia che guarda all’autonomia differenziata.