Autonomia differenziata, Cittadinanzattiva: “Acuite le diseguaglianze”

La Segretaria generale Anna Lisa Mandorino: "Per chi crede in un sistema sanitario nazionale, per definizione unitario, il quadro desta grande preoccupazione"

Puntare sui livelli essenziali come se di per sé garantissero l’equità, alla luce dell’esperienza maturata con i Lea, è un’illusione. A sostenerlo è Anna Lisa Mandorino, Segretaria generale di Cittadinanzattiva.

Dottoressa Mandorino, inizio col chiederle un commento generale sul Ddl sull’autonomia differenziata.

Mandorino

Come Cittadinanzattiva siamo preoccupati. Pensiamo che il Ddl possa acuire più che risolvere le diseguaglianze in sanità. Lo dico alla anche alla luce della relazione di accompagnamento al Ddl, che sceglie un’espressione diversa da ‘autonomia differenziata’, forse ancora più preoccupante sotto alcuni punti di vista, che è ‘regionalismo asimmetrico’. Ciò che si sostiene è che le Regioni più forti e veloci, sviluppandosi, traineranno con sé quelle più deboli. Questo assunto di partenza mi sentirei di contestarlo, perché fino a questo momento non c’è un solo contesto in cui una simile dinamica abbia funzionato. Il fatto che per principio Regioni più veloci creeranno una sorta di competizione virtuosa con quelle più deboli mi pare tutto da dimostrare.

A suo avviso quali sono le luci che questo Ddl porta con sé?

Teoricamente, l’aspirazione a non frenare lo sviluppo delle Regioni già più veloci, in linea di principio, non è negativa di per sé. Il problema è che un argomento di così forte impatto a livello nazionale avrebbe meritato un dibattito con modalità, metodi e tempi ben diversi da quelli che sono stati scelti per portare questo Ddl all’approvazione. È qualcosa che cambia profondamente il volto del nostro Paese. Però bisogna capire bene quali ricadute questa norma determina per tutti i cittadini.

Quali sono invece le falle che lei ravvede?

La principale falla è che l’unica garanzia del principio di equità è il sistema dei Livelli essenziali di prestazione (Lep)

Voglio sottolineare ancora il tema del metodo. Leggendo il testo del Ddl ricorre molte volte la parola ‘comunque’. L’intenzione dell’estensore è quella di approvare ‘comunque’ la norma e le sue conseguenze. Mi sembra emblematico dell’intenzione di forzare un po’ la mano rispetto al procedimento di approvazione che sarebbe stato necessario in considerazione della centralità del tema.

La principale falla è che l’unica garanzia del principio di equità è il sistema dei Livelli essenziali di prestazione (Lep). Per similitudine con i Lea (Livelli essenziali di assistenza) è una modalità di verifica di impostazione del sistema che appare preoccupante.

I Lea in effetti dalla loro introduzione nel 2001 non hanno portato a un grande miglioramento nell’equità di accesso alle cure a livello nazionale…

I risultati che vediamo derivano non tanto dai Lea, che erano validi in linea di principio. Ma in che modo sono stati utilizzati, che è presumibile sia lo stesso con cui si useranno i Lep. I Lea del 2001 non sono mai stati aggiornati. L’aggiornamento del 2017 non è mai entrato in vigore per mancanza del ‘decreto tariffe’.

Questo è già indicativo dell’incapacità del meccanismo di governance troppo macchinoso, ai limiti dell’irrealizzabile.

Bisogna capire che, al pari dei Lea, anche i Lep non sono una cosa fissa, ma dinamica. La cosa più importante non è fissarli, ma renderli davvero uno strumento di equità attraverso il loro aggiornamento e la loro verifica.

Ho visto gli ultimi dati di valutazione dei Lea a livello regionale relativi al 2020 e gli indicatori con cui i Lea sono misurati: sono un po’ discutibili. Faccio un esempio. La Lombardia risulta avere un’assistenza sanitaria territoriale di ottima qualità. Eppure sappiamo che questa è una delle criticità emerse durante la pandemia. Allora dobbiamo chiederci anche quali sono gli indicatori con cui vengono misurati i Lea o i Lep. Puntare sui livelli essenziali come se di per sé garantissero l’equità, alla luce dell’esperienza maturata con i Lea, è un’illusione.

Le Regioni che per ora hanno fatto richiesta di adesione all’autonomia differenziata sono solo tre (Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna) e pare che se ne potrebbero aggiungere forse un altro paio. Con un piccolo numero di adesioni ravvisa possibile il rischio, paventato da più parti, di un ampliamento della forbice sanitaria tra Regioni veloci e Regioni lente?

Per chi crede in un sistema sanitario nazionale, per definizione unitario, il quadro desta grande preoccupazione

Se le tre Regioni fossero altre direi di no. Ma stiamo parlando di quelle che dal punto di vista complessivo hanno un impatto maggiore in termini di attrattività sanitaria e quindi di potenziale rischio di accrescere i fenomeni di mobilità sanitaria e di attrazione di risorse da riallocare.

Più del numero di Regioni aderenti, il nodo è quello del modello introdotto dal Ddl di una regionalizzazione ancora più spinta della sanità. Il Ssn è già fortemente regionalizzato. Le conseguenze di un provvedimento che crea ulteriori asimmetrie possono essere importanti. Per chi crede in un sistema sanitario nazionale, per definizione unitario, il quadro desta grande preoccupazione.

Ma la strada al regionalismo sanitario non è ormai già ben tracciata da tempo?

È vero. Tuttavia la pandemia pareva averci detto qualcosa rispetto all’ognuno si salva da sé…

Trovo che accentuare il regionalismo in sanità sia anche incompatibile con alcune progettualità che da anni stiamo cercando di realizzare. Come quelli afferenti alla salute digitale o al Fascicolo sanitario elettronico (Fse). Con un ulteriore regionalismo, possiamo pensare di avere interoperabilità tra i sistemi sanitari? Se ogni Regione va per conto suo, in che modo si può poi chiedere a 21 soggetti di dialogare sul piano delle piattaforme o su quello degli strumenti digitali? Il Pnrr ha una voce relativa al Fse, che deve essere unico a livello nazionale. Qual è però la conseguenza dell’autonomia sanitaria? Saranno rese possibili queste scelte centralizzate, che non hanno a che fare con la gestione centrale della sanità ma con il fatto che alcune innovazioni abbiano necessità di una regia unica per poter essere implementate?

Abbiamo poi il tema delle risorse. Il fatto che esse restino nelle Regioni non è a impatto zero.

Cosa servirebbe concretamente allora per ridurre il divario tra Regioni in termini di accesso alla salute?

Il testo sull’autonomia differenziata nasce già vecchio, perché oggi ci troviamo in un contesto profondamente diverso da quello degli anni in cui se n’è iniziato a parlare. È vero che ci sono Regioni che viaggiano a velocità diverse in sanità, ma la situazione complessiva del Paese richiederebbe un’analisi più complessa. Come Cittadinanzattiva abbiamo presentato recentemente una ricerca sulla desertificazione sanitaria sul numero e sulla tipologia di professionisti sanitari presenti nelle diverse Regioni. Inaspettatamente sono quelle del Nord ad avere più criticità in questo senso. La lettura secondo cui alcune Regioni sono eccellenti rispetto ad altre in tema di offerta sanitaria è troppo semplicistica. Bisogna capire cosa si analizza. Il modello lombardo per esempio punta sull’eccellenza ospedaliera, ma dal punto di vista dell’assistenza sul territorio è molto più carente. Ci dobbiamo chiedere se i malati cronici lombardi o quanti cercano un Mmg trovano risposta alle proprie esigenze di salute all’interno della regione.

Avere tutta una parte del Paese condannata alla povertà e all’arretratezza dei servizi non fa bene neanche alle Regioni veloci

In un Paese che ha un livello di invecchiamento della popolazione e un tasso di cronicità come il nostro, la teoria per cui ognuno si salva da solo potrebbe essere già vecchia. Potrebbe tenere per qualche altro anno o decennio, ma avere tutta una parte del Paese condannata alla povertà e all’arretratezza dei servizi credo non faccia bene neanche alle Regioni veloci. Perché la mobilità sanitaria è possibile finché i cittadini del Sud se la possono permettere.

Per meglio rispondere alla domanda, un’azione concreta potrebbe essere il rafforzamento della regia centrale che detti le linee guida per l’attuazione della sanità a livello regionale, che sarà declinata in base alle caratteristiche delle esigenze di salute dei singoli territori.

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Carlo M. Buonamico
Giornalista professionista esperto di sanità, salute e sostenibilità