Sedici anni prima che il PNRR definisse la creazione delle Case di Comunità, anche allo scopo di migliorare il dialogo fra medici di base e specialisti, la regione Piemonte aveva dato il via ad un progetto pilota per gestire i pazienti diabetici in maniera innovativa. Quella specifica patologia cronica non era più nelle sole mani dello specialista, ma era affidata in prima battuta al medico di medicina generale, che per il paziente restava il punto di riferimento nell’intero percorso di cura.
Ancora oggi, il 90 per cento dei medici di medicina generale che opera sul territorio piemontese continua a lavorare a quattro mani con i diabetologi per gestire i propri pazienti diabetici. La cartella clinica condivisa prevista dalla “Gestione Integrata del Diabete” permette di applicare una medicina d’iniziativa nella quale sono i curanti a contattare i pazienti, e non il contrario. In questo modo possono accertarsi che i propri assistiti si sottopongano regolarmente a tutti i controlli annuali e che seguano scrupolosamente le terapie prescritte dagli specialisti.
La cartella clinica condivisa prevista dalla Gestione Integrata del Diabete permette di applicare una medicina d’iniziativa
Il risultato? Per più di 117mila pazienti diabetici seguiti in Piemonte la riduzione della mortalità, in particolare per cause cardiovascolari, è passata dal 8 per cento al 2,5 per cento. Abbiamo analizzato questo dato significativo insieme al dottor Andrea Pizzini, medico di medicina di base dell’ASL Città di Torino e al dottor Alessandro Dabbene, vicesegretario nazionale della Federazione Italiana Medici di Medicina Generale (Fimmg).
Un modello efficace ed economicamente virtuoso
Nel concreto, la Gestione Integrata del Diabete attiva in Piemonte prevede la possibilità per i medici di base di aderire ad un programma di assistenza in collaborazione con gli specialisti per il trattamento dei soggetti affetti da diabete di tipo 2.
Lo scambio di informazioni fra il diabetologo e il curante di famiglia avviene in linea diretta, tramite una cartella clinica digitale condivisa. Lo sviluppo di questo progetto, oltre ad offrire cure migliori testimoniate dai numeri, ha permesso una forte integrazione tra territorio e ospedale, una migliore organizzazione dei servizi sanitari offerti e una maggiore responsabilizzazione di tutti gli interlocutori coinvolti, a partire dalla persona affetta da diabete. Come spiegato dai due esperti contattati da TrendSanità, si è trattato di un percorso culturale, organizzativo e istituzionale che ha positivamente impattato sia sui risultati terapeutici che sulla spesa sanitaria.
«Ritengo che in Piemonte la Gestione Integrata del Diabete sia innanzitutto un esempio virtuoso di utilizzo appropriato delle risorse sanitarie – ha spiegato a TrendSanità Pizzini -. Il paziente si ritrova all’interno di un percorso guidato e scandito che parte dal medico di famiglia e prosegue con lo specialista. Non viene mai abbandonato a sé stesso e questo esclude che si rivolga a più di uno specialista, entrando in una spirale di consumismo sanitario che parte di solito dall’abbandono delle terapie prescritte alla ricerca di nuovi pareri medici e farmaci differenti rispetto a quelli previsti dai piani terapeutici. Alla base di tutto questo c’è una mancata adesione alle cure prescritte a seguito di un miglioramento dei sintomi o la mancata calendarizzazione dei controlli di routine che devono essere fatti periodicamente proprio per adeguare la terapia».
Il diabete è una patologia cronica e non reversibile. Come tale deve essere trattata con un protocollo di cure continuative, anche per evitare il peggioramento delle altre sintomatologie ad esso solitamente correlate. Se il paziente viene guidato in un percorso prestabilito le probabilità che la patologia venga tenuta efficacemente sotto controllo aumentano.
«Se non vengono seguiti assiduamente con esami e controlli regolari, questi pazienti tendono a trascurare la routine di cura appena si sentono meglio, con un conseguente peggioramento del proprio stato generale di salute, spesso caratterizzato dalla presenza di altre patologie croniche, fra cui obesità e ipertensione. Il risultato è un aumento del costo terapeutico generale, che va a pesare su tutta la collettività in termini di spesa sanitaria».
È un esempio virtuoso di utilizzo appropriato delle risorse sanitarie, che consente di migliorare i risultati di salute dei pazienti
In Piemonte invece sono i medici di famiglia che calendarizzano controlli ed esami dei propri pazienti e ne condividono i risultati con gli specialisti, a cui resta il compito di confermare o cambiare le terapie da somministrare. Questo ha permesso di abbassare la mortalità di questa patologia dal 8 per cento al 2,5 per cento.
«Come medici di famiglia, siamo convinti che questo stesso protocollo di gestione potrebbe essere applicato efficacemente anche con altre tipologie di pazienti cronici e abbiamo già chiesto più volte alla nostra Regione di prendere in considerazione questa ipotesi», ha proseguito Pizzini.
Il valore professionalizzante della condivisione
«Per i medici di medicina generale l’esperimento piemontese ha valore professionalizzante – ha aggiunto ancora Pizzini –. Grazie a questo percorso, reso possibile dallo stanziamento di maggiori risorse che l’accordo con la Regione garantisce ogni anno per i medici di base, ha luogo una implicita formazione continua sul campo nel trattamento di questa patologia cronica ad alta prevalenza (colpisce circa il 7 per cento delle persone) che può essere tenuta sotto controllo con esami a basso costo».
Il paziente diabetico soffre in genere di altre patologie ad esso correlate. Per questo una gestione integrata delle cronicità potrebbe essere la risposta adeguata al problema di comunicazione fra le varie figure sanitarie e gli ospedali.
«Il modello delle Case di Comunità – ha aggiunto Dabbene – può essere adeguato e vincente nelle grandi città, dove la presenza di un luogo fisico in cui incontrare medici e specialisti è certamente un valore aggiunto: per i pazienti è facile raggiungere queste strutture. Viceversa, nella gran parte dei piccoli comuni italiani, sparsi sul territorio nazionale, questo modello non sembra poter funzionare allo stesso modo – ha concluso il vicesegretario nazionale della Federazione Italiana Medici di Medicina Generale –. Nei piccoli centri abitati è fondamentale che il paziente continui ad avere il suo riferimento nel medico di base e che sia questo a poter fare da tramite con gli specialisti nell’ottica di una medicina di prossimità che passi dalla permanenza dei medici di famiglia sul territorio e non dallo spostamento degli stessi nelle Case di Comunità».
Secondo Dabbene, quindi, non saranno le Case di Comunità a risolvere il problema di una maggior copertura sanitaria della medicina di base, ma la sottoscrizione di accordi come quello della Gestione Integrata del Diabete, che avvicinano realmente i medici al paziente senza centralizzare i servizi ma rendendoli ancora più capillari sul territorio nazionale.