La solitudine è una delle sfide più silenziose e pervasive del nostro tempo. Colpisce anziani e giovani, aree urbane e rurali, e ha effetti profondi non solo sul benessere emotivo, ma anche sulla salute fisica. L’isolamento sociale aumenta il rischio di depressione, declino cognitivo e persino demenza; al contrario, attività stimolanti e relazioni significative possono rallentare l’invecchiamento e migliorare la qualità della vita.
Ma come si può intervenire? Non sempre – e non solo – con farmaci. Sempre più esperienze internazionali e italiane stanno sperimentando approcci che mettono al centro le comunità, le reti sociali e l’ambiente: un paradigma che, nel Regno Unito, ha preso il nome di “social prescribing” e che sta cominciando a radicarsi anche in Italia.
Serve un cambio di mentalità: non possiamo medicalizzare ciò che è un problema sociale
Per approfondire questo tema, TrendSanità ha intervistato Ferdinando Petrazzuoli (Presidente di EURIPA – European Rural and Isolated Practitioners Association – e membro del WONCA Europe Executive Board, e ha raccolto la testimonianza di Sara Paternoster, psichiatra e direttrice per il coordinamento dell’attuazione del social prescribing dell’Azienda Provinciale per i Servizi Sanitari di Trento.
La solitudine come emergenza sanitaria

«È un’emergenza silenziosa che impatta profondamente sulla salute mentale e fisica – spiega Petrazzuoli –. Chi vive isolato, senza stimoli cognitivi o relazionali, va incontro più facilmente a depressione, declino cognitivo, fino a vera e propria demenza. Viceversa, più la mente è stimolata, con attività fisiche e mentali, più riusciamo a rallentare i processi degenerativi dell’invecchiamento».
Il problema riguarda ampie fasce di popolazione: «Non parliamo di pochi casi: la nostra società invecchia e le reti familiari si stanno sgretolando. Un tempo, in una masseria vivevano insieme tre generazioni: bambini, adulti e nonni. Oggi, anche nei contesti rurali, gli anziani restano soli, spesso accuditi da badanti straniere, con cui non condividono neppure la lingua».
Il ruolo della medicina generale e delle comunità
Il medico di base, sottolinea Petrazzuoli, «può, e deve, accendere un riflettore. Ma serve un cambio di mentalità: non possiamo medicalizzare ciò che è un problema sociale. Troppo spesso rispondiamo alla solitudine con una “pillolina”, un antidepressivo. Ma la cura vera è la relazione».
Non parliamo di pochi casi: la nostra società invecchia e le reti familiari si stanno sgretolando
E qui entrano in gioco comunità, parrocchie, associazioni, volontari e amministrazioni comunali: «Serve una sinergia che va oltre la medicina. Noi possiamo segnalare, individuare i pazienti fragili. Poi servono strumenti, risorse e sensibilità sociale e politica».
Cos’è il social prescribing?
Nato e formalizzato nel Regno Unito, il social prescribing affianca all’atto medico la figura del link worker, che indirizza il paziente verso attività sociali, culturali, ricreative o ambientali: «Prendiamo come esempio il gardening, i cori, i gruppi di lettura, le passeggiate guidate o l’impegno nel volontariato: sono tutte prescrizioni sociali – spiega Petrazzuoli –. Il link worker è il tramite tra medicina e comunità. In Italia manca questa figura. In UK, invece, è strutturata e retribuita. È un modello da cui prendere esempio».
Non solo per gli anziani: i giovani ne hanno un gran bisogno, e ciò è ancora più drammatico
E se il divario con l’Inghilterra è evidente, qualcosa si muove anche da noi. «Esperienze come quelle di Sara Paternoster, psichiatra e direttrice per il coordinamento dell’attuazione del social prescribing, ed Emanuele Torri, direttore del servizio di governance clinica, entrambi dell’Azienda Provinciale per i Servizi Sanitari di Trento, vanno in questa direzione, con progetti come il C.O.P.E., che ha applicato per la prima volta il social prescribing per interventi con i giovani in situazione di NEET (Not in Education, Employment or Training), usando anche le tecnologie digitali per ricostruire un legame con la realtà».
L’esperienza di C.O.P.E. in Trentino
«C.O.P.E. ha permesso di ingaggiare anche i giovani più difficili da raggiungere, soprattutto nel sito pilota trentino – racconta Paternoster – grazie agli interventi e allo stile adottati, con risultati quantitativi e qualitativi che sono andati ben oltre le aspettative iniziali, comprovati dalla ricerca che ha valutato esiti e impatto».
Ambiente, tecnologia e inclusione

Il legame con l’ambiente è un altro elemento centrale: «L’essere umano è parte di un ecosistema – osserva Paternoster–. Quando lo sradichi da un ambiente rurale, lo chiudi in un grattacielo, lo separi dalla natura, dagli animali e dagli spazi verdi, crei un deserto relazionale. Non è politicamente corretto dirlo, ma è così: certe periferie sono fabbriche di solitudine. Per questo attività come l’orto urbano, le passeggiate nei parchi e l’accudimento di animali hanno anche una funzione terapeutica. Non solo per gli anziani: i giovani ne hanno un gran bisogno, e ciò è ancora più drammatico».
La tecnologia, se ben usata, può essere un alleato: «Durante la pandemia, strumenti come Zoom e WhatsApp hanno rotto l’isolamento. Anche pazienti con bassa scolarizzazione hanno imparato a usarli. Il problema non è la tecnologia in sé, ma come integrarla in un approccio ibrido». Il progetto C.O.P.E., ad esempio, ha sfruttato le remote consultations per avvicinare i giovani NEET, più inclini a interagire online almeno nella fase iniziale: «Il digitale – ricorda Paternoster – almeno in questo caso può essere un ponte e non un muro».
Oltre la malattia: il reinserimento sociale
Il social prescribing può rivelarsi prezioso anche dopo una malattia grave come il cancro: «Il reinserimento sociale dopo una malattia oncologica è un altro ambito in cui può fare la differenza – afferma Paternoster –. Non basta la guarigione clinica. Serve un accompagnamento alla vita sociale attiva».
In un mondo che isola, prendersi cura oggi significa ricucire legami
Un esempio è il progetto europeo SPACE (Social Prescribing and Civic Engagement), che punta a integrare le attività sociali nei percorsi di cura e inclusione post-cancro. «Perché la salute non è solo assenza di malattia, ma benessere complessivo – conclude Paternoster -. La medicina generale del futuro, ma già del presente, deve allargare lo sguardo. I problemi sociali non si curano con le medicine, ma con le reti di comunità. Serve una nuova alleanza tra sanità, comunità e istituzioni. In un mondo che isola, prendersi cura oggi significa ricucire legami. E, a volte, prescrivere non una compressa, ma un incontro, una passeggiata o una canzone cantata insieme»».