Nella medicina, le parole sono importanti. Ma quando a mancare è proprio la lingua comune, può diventare difficile costruire quella relazione di fiducia tra medico e paziente che dovrebbe essere alla base della buona cura. È da questa consapevolezza che nasce il progetto sperimentale sul paziente simulato all’interno del corso di Medicina e Chirurgia in lingua inglese dell’Università Sapienza di Roma. Un’iniziativa pensata per gli studenti internazionali che, pur studiando in inglese, devono affrontare i tirocini clinici parlando italiano, spesso con molte difficoltà.

«Non tutti i nostri studenti immaginano un futuro nel nostro Paese – racconta Marianna Maranghi, professore associato di Medicina Interna che ha seguito in prima persona il progetto con Rossella Melcarne, dottoranda presso la Sapienza – e per questo non ritengono importante studiarne la lingua, almeno finché non arrivano in ospedale. Il nostro intento era provare a avvicinare gli studenti ai pazienti in un contesto “protetto”, dove potessero emergere le difficoltà senza timore di essere giudicati».
Un ponte tra aula e corsia
Il corso, ideato in collaborazione con tutor e studenti del corso di laurea, nasce infatti come spazio di sperimentazione realistica, un ponte tra l’aula universitaria e il mondo clinico. Al centro dell’esperienza un attore professionista nel ruolo del paziente e piccoli gruppi di studenti che si cimentano con la raccolta anamnestica in italiano. Tutto sotto la guida di tutor e docenti, in un ambiente più rilassato rispetto all’ospedale.
Il paziente simulato è uno spazio di sperimentazione realistica, un ponte tra l’aula universitaria e il mondo clinico
Il progetto è stato costruito “in casa”, come raccontano le due ideatrici: «Non esisteva molta letteratura in merito: dopo aver fatto una revisione sistematica, abbiamo deciso di creare un nostro modello».

La scelta è ricaduta su uno scenario clinico comune – il dolore – perché già noto agli studenti dal punto di vista teorico, e quindi più accessibile come primo passo nella pratica comunicativa. Per l’interazione con il paziente, gli studenti si sono affidati a una griglia preparata dai tutor seguendo il metodo SOCRATES, un acronimo per ricordare i vari step nella valutazione utilizzato soprattutto dagli operatori sanitari nei servizi di emergenza.
Dal dialogo al feedback
Durante gli incontri, ogni studente ha affrontato un colloquio individuale con il paziente simulato, seguito da una discussione collettiva. Non solo: anche l’attore ha fornito un feedback sulla relazione, restituendo un punto di vista prezioso su aspetti spesso trascurati, come il linguaggio del corpo e l’atteggiamento empatico.
A questo si è aggiunto un secondo livello di esercitazione, con la stesura di un report clinico scritto, che è stato corretto prima dai tutor e poi dai docenti. Obiettivo: migliorare non solo la comunicazione verbale, ma anche quella scritta, fondamentale nella pratica medica quotidiana.
«Gli studenti hanno preferito non riprendersi, ma solo registrare la propria voce»
Una curiosità? «Avevamo dato la possibilità agli studenti di registrarsi in video per rivedere l’incontro e analizzare anche il linguaggio non verbale – racconta Maranghi -. Eppure, nessuno ha voluto farlo. Hanno scelto solo la registrazione audio. Forse una forma di pudore, forse un modo per concentrarsi sul contenuto più che sull’immagine. Ma è stato comunque sorprendente».
Un esercizio di empatia

Una delle scoperte più interessanti emerse dalla sperimentazione è che, paradossalmente, gli studenti con maggiore difficoltà linguistica sono spesso riusciti a stabilire una comunicazione più efficace, sfruttando gestualità, tono di voce, sguardi: tutti strumenti che in medicina fanno la differenza, e che raramente vengono insegnati.

«È stato interessante vedere come, anche senza parlare perfettamente italiano, alcuni siano riusciti a stabilire un legame profondo con il paziente – racconta Melcarne –. Questo ci ha fatto riflettere molto anche sul nostro modo abituale di comunicare in corsia».
Un’impressione condivisa anche dalle tutor coinvolte nella realizzazione del progetto, Chiara Iurato e Margherita Floris: «Questa esperienza ci ha fatto capire che la relazione medico-paziente è un ambito dove non si finisce mai di imparare. Anche chi è già al quinto o sesto anno ne può trarre beneficio».
I numeri e il futuro
Il progetto, partito in via sperimentale con 19 studenti del terzo anno, ha ricevuto feedback positivi: circa l’80% dei partecipanti ha espresso un alto livello di soddisfazione e molti hanno chiesto di ripetere l’esperienza. «Un paio di loro mi hanno chiesto di poter venire in reparto, a parlare con dei pazienti veri – sorride Melcarne –. Ovviamente non si è trattato di un colloquio clinico, ma la loro volontà ha testimoniato come il progetto abbia fatto da pungolo per far loro affrontare una situazione che temono proprio per la barriera linguistica».
Anche per questo, la seconda fase, ora in corso, si apre anche agli studenti del secondo anno e prevede scenari più complessi, con pazienti “difficili” da gestire, come quelli particolarmente chiacchieroni o i reticenti.
L’intenzione è di inserire l’attività tra quelle obbligatorie
Per ora, l’assenza di risorse e di un team strutturato limita la possibilità di realizzare un follow-up clinico durante il quarto anno, quando gli studenti affrontano i tirocini veri. Ma le ideatrici sperano che, con il tempo, il progetto possa essere ampliato e reso parte integrante del percorso formativo obbligatorio.