Se l’iter procedesse come sperato, sarebbe italiano il primo vaccino anti-tumore al mondo a passare in fase 1, cioè alla sperimentazione clinica. Grazie al PNRR, dal quale sono in arrivo 950mila euro per il nuovissimo vaccino 2.0 a DNA per la cura del tumore del pancreas all’ospedale Molinette della Città della Salute di Torino. Il progetto finanziato ha lo scopo di validare ENO3PEP come vaccino di seconda generazione somministrabile potenzialmente a tutti i pazienti con tumore pancreatico, dopo avere ottenuto l’autorizzazione dall’AIFA per il primo studio clinico sui pazienti di tumore pancreatico.
Il Ministero della Salute, nell’ambito del finanziamento PNRR M6C2 Investimento 2.1 Valorizzazione e potenziamento della ricerca biomedica del SSN, ha approvato l’ammissione al finanziamento del bando Proof of concept (PoC), che supporta l’attività di valorizzazione di un brevetto depositato intitolato: “Un vaccino a DNA di seconda generazione codificante per le sequenze immunodominanti di alfa-enolasi per la cura del tumore del pancreas”.
Si tratta di un progetto coordinato dal professor Francesco Novelli, responsabile del Laboratorio di Immunologia dei Tumori del Centro di Ricerca in Medicina Sperimentale (CeRMS) dell’ospedale Molinette, Professore Ordinario di Immunologia e Direttore del Dipartimento di Biotecnologie Molecolari e Scienze per la Salute dell’Università di Torino, sviluppato con il sostegno della Fondazione Ricerca Molinette Onlus. Il Progetto sarà condotto in collaborazione con l’Unità del Policlinico P. Giaccone di Palermo, guidato da Serena Meraviglia (Professore Associato di Immunologia Università di Palermo).
Professor Novelli, qual è a oggi la situazione del tumore al pancreas?
In Italia ci sono circa 14mila diagnosi l’anno: un numero che fa del tumore al pancreas in prospettiva, almeno per quanto riguarda i Paesi occidentali, la seconda causa di morte per tumore nel 2030. Per quanto concerne la prognosi, la sopravvivenza media è leggermente aumentata nel tempo: siamo intorno all’8% a sei mesi. Circa il 20% dei pazienti può essere trattato con la chirurgia a seguito di una diagnosi più precoce.
Com’è nato il progetto del vaccino a DNA contro il tumore al pancreas?
L’iniziativa risale a una ventina d’anni fa, quando, alle Molinette, il mio gruppo di immunologi era intenzionato a capire qualcosa in più sul tumore al pancreas. Abbiamo iniziato a studiare la relazione tra sistema immunitario e tumore pancreatico, perché sapevamo che il tumore al pancreas è molto resistente alle terapie e apparentemente il sistema immunitario non è in grado di fornire grandi risposte anti-tumore. Abbiamo approcciato questa problematica studiando come i pazienti con tumore pancreatico fossero in grado produrre anticorpi contro molecole associate al tumore.
Cosa avete scoperto?
Lo studio ha messo in evidenza almeno 12-13 proteine, che abbiamo definito antigeni associati al tumore pancreatico, che erano in qualche modo capaci essere riconosciute dal sistema immunitario dei pazienti. Ci siamo concentrati sull’enolasi perché una grossa percentuale di pazienti, intorno al 60%, presenta anticorpi contro questa proteina: abbiamo quindi ipotizzato che questo significasse un’attivazione, un riconoscimento da parte dei linfociti dei pazienti, e cercato di capire come sfruttare questa risposta.
Nel 2013, abbiamo sviluppato un primo vaccino a DNA, “clonando”, ovvero inserendo l’intera sequenza dentro un vettore di espressione. Gli esperimenti condotti su modelli animali ci hanno dato subito risultati molto promettenti sul piano della ricerca preclinica: abbiamo riscontrato che il vaccino induceva una forte risposta immunitaria, che permaneva per alcune settimane, dopodiché scemava e il tumore tornava a presentarsi; ma in ogni caso si trattava della prima dimostrazione che stimolando il sistema immunitario, alcune condizioni potevano stimolare una risposta. Poi, studiando questo nei pazienti sottoposti a chemioterapia, abbiamo visto che anche la chemio poteva far aumentare la risposta anticorpale contro gli antigeni, individuando, dal punto di vista sperimentale, modelli animali che aumentassero l’efficacia della vaccinazione in termini di sopravvivenza.
A quel punto abbiamo iniziato a cercare di accumulare dati per una prima sperimentazione sull’uomo, ma il Covid e altre situazioni ci hanno rallentato, in particolare i costi del passaggio dalla fase preclinica alla sperimentazione: la validazione in termini di dati che garantiscono la sicurezza del vaccino, la bio-distribuzione e la tossicologia sono molto costosi e devono essere effettuati non più da noi in laboratorio, ma da centri specializzati.
Come siete arrivati al nuovo vaccino 2.0 a DNA?
Nel frattempo abbiamo sviluppato una seconda generazione di vaccino, in cui, studiando i pazienti, abbiamo cercato di selezionare solo alcune sequenze della molecola enolasi in grado di dare una risposta ancora più forte dal punto di vista immunitario, quindi abbiamo riformulato il vaccino clonando solo alcuni “pezzi” della molecola e abbiamo visto dai modelli un risultato molto buono, con una risposta ancora migliore e più persistente nel tempo. Così abbiamo deciso di fare un brevetto: la scommessa era di attrarre eventuali investitori nel campo farmaceutico e biotech per accelerare i tempi della sperimentazione preclinica sull’uomo e produrre il vaccino in condizioni cosiddette di “Good Manifacturing Practice” (GMP) per la sua somministrazione ai pazienti.
Il progetto, che prevede l’assunzione di tre ricercatrici under 40, ha come obiettivo il completamento degli studi preclinici, di tossicità e biodistribuzione e la raccolta di tutte le informazioni necessarie per ottenere dall’AIFA l’autorizzazione ella sperimentazione clinica di un vaccino anti-alfa-enolasi di seconda generazione
Quando è uscito il bando PNRR per progetti con dietro un brevetto da valorizzare, abbiamo presentato la domanda e ottenuto un importante finanziamento, con cui ci aspettiamo di completare i dati di biodistribuzione e tossicologia, di dettagliare ulteriormente i meccanismi con cui il vaccino funziona e di valorizzarlo. Pensiamo, nel giro di un anno e mezzo o due, di poter presentare la documentazione ad AIFA per avere il permesso per una prima sperimentazione in Italia di vaccini a DNA anche di fase 1, con l’idea che possa attrarre investitori visto che la via pare così promettente.
Qual è quindi il valore del PNRR per la ricerca?
Il passaggio dalla fase di ricerca pre-clinica di un potenziale nuovo prodotto terapeutico all’approvazione dello studio clinico da parte di AIFA è il più difficile a causa dei costi molto elevati della ricerca tossicologica e per la produzione e la preparazione del vaccino in condizioni cosiddette di Good Manifacturing Practice (GMP) per la somministrazione ai pazienti
Il PNRR mette a disposizione una quantità significativa di denaro per permettere di fare il passaggio che per noi è critico. Abbiamo i dati preclinici dei nostri topolini che hanno sviluppato il tumore pancreatico su cui il vaccino funziona, facendo aumentare in modo significativo la sopravvivenza. Se i risultati si confermassero, nei pazienti otterremmo un aumento della sopravvivenza di mesi o anni. Ma per sostenere i costi per arrivare alla fase si parla di un investimento di alcuni milioni, che ci ha sempre impedito di compiere questo ulteriore passo. Il finanziamento che abbiamo ricevuto ci permette anche di fare un passaggio nell’industrializzazione del brevetto e di passare dalla fase di laboratorio a un prototipo pronto per la sperimentazione: un salto tecnologico notevole, che ci metterebbe in condizione di avviare studi di fase 1 su 10-15 pazienti e di testare eventuali effetti collaterali della terapia, e, visto che dietro c’è un brevetto, se lo studio sarà approvato, si potrà pensare di attirare investitori molto più grandi.
Il Covid da un lato ha sdoganato i vaccini a mRNA, ma anche fatto emergere la preoccupazione di parte della popolazione verso questo tipo di prodotto. Cosa ne pensa?
La tecnologia dei vaccini a DNA è analoga a quella a mRNA ed è conosciuta da molto tempo. Non a caso le collaborazioni sviluppate durante la pandemia hanno utilizzato tecnologie che l’immunologia dei tumori ha messo a punto negli ultimi dieci anni, con la differenza che per il Covid è stata messa a disposizione una quantità astronomica di denaro per arrivare in fondo, che non era stata messa a disposizione per l’immunologia dei tumori. La stessa Moderna era una piccola ditta nata per produrre vaccini a mRNA per i tumori, ma non era mai riuscita ad arrivare alla sperimentazione clinica perché non c’erano fondi sufficienti.
Si tratta di una tecnologia solida ed è assolutamente provato che non è pericolosa in alcun modo. Diversi colleghi nel mondo stanno lavorando nel mondo per approntare vaccini a DNA o mRNA nel campo dei tumori, ma al momento nessuno è approvato per la sperimentazione in fase 1: qualora succedesse in Italia, il nostro sarebbe il primo al mondo.
Ancora, sul Covid possiamo aggiungere che l’uso estensivo su milioni o miliardi di persone ha dimostrato ampiamente la sicurezza di questi vaccini, mentre una delle ragioni della recrudescenza dell’infezione in Cina è proprio il fatto che il vaccino che hanno usato era tradizionale e non a mRNA. L’esperienza del Covid e quella precedente, limitatamente alle sperimentazioni cliniche condotte, ci dicono che non c’è pericolo: è molto più probabile una possibile inefficacia, non tanto gli effetti collaterali.
Il vero problema della ricerca oggi quindi sono i fondi?
È la scala di fondi. I finanziamenti per i progetti preclinici per dimostrare il concetto di un nuovo farmaco si possono ottenere da molte fondazioni e noi stessi per molti anni ne abbiamo ricevuti dall’AIRC, ma non possono essere usati per sostenere studi clinici. Quando parliamo di studi clinici, però, i costi sono molto più importanti, intorno a 5-6 milioni di euro. Questo gap deve essere colmato o da fondi dedicati da parte della sanità pubblica, ad esempio mettendo a disposizione finanziamenti per sperimentazioni cliniche, oppure si può pensare di rendere appetibile il prodotto per investitori che pensano di poterne trarre profitti e si decidano a investire. La strada dei brevetti è quella speranza. Nel nostro caso, produrre un vaccino da somministrare a 10-12 pazienti si può stimare un costo di 2-3 milioni di euro: i fondi per la ricerca non sono sufficienti.
Sui vaccini Covid molto si è discusso in tema di sospensione dei brevetti. Il problema si potrà porre anche per un vaccino come il vostro?
In prospettiva potrebbe, ma per ora direi di no. Il Covid ha dimostrato che grazie a finanziamenti di milioni di miliardi di dollari immediatamente disponibili è stato possibile condurre in maniera accelerata sperimentazioni di fase 1 e fase 2 e nel giro di sei mesi si è potuta ottenere l’autorizzazione per partire. Nel nostro caso e in altri, le cose sono molto lente ed è fondamentale innanzitutto rendere appetibile il progetto ad aziende o fondi che vogliano trarre profitti per avere aiuti ad arrivare alla clinica.
In ultimo: quanto è importante l’immunoterapia per i tumori?
Ho sin dall’inizio salutato con grande entusiasmo l’era dell’immunoterapia che si è aperta qualche anno fa ed è stata confermata dal Nobel a James P. Allison and Tasuku Honjo. Sono profondamente convinto che il sistema immunitario possa essere usato come farmaco da dirigere contro il tumore: un concetto che prima non faceva parte dell’oncologia e che ha già aperto numerose strade molto promettenti per alcuni tumori, sia con l’uso di anticorpi mirati per l’inibizione dei checkpoint immunologici che bersagliano specifiche proteine.
Credo che il tumore sia una malattia che si sviluppa insieme al sistema immunitario ed è in grado di modificarlo o corromperlo, oppure il sistema immunitario può scatenare risposte anche distruttive nei confronti del tumore. Il tumore al pancreas è particolarmente refrattario all’immunoterapia: sappiamo che recenti farmaci per l’inibizione dei checkpoint immunologici non hanno avuto effetto su di esso, quindi a maggior ragione uno studio come il nostro può essere interessante. Abbiamo capito nel corso degli anni che il tumore pancreatico corrompe il sistema immunitario e lo fa lavorare a suo favore.
In modelli animali il vaccino ENO3PEP si è rivelato più efficace e potente rispetto a quello di prima generazione nel bloccare la progressione del tumore e nello scatenare una risposta immunitaria anti-tumore
I nostri dati dimostrano che con questi vaccini di seconda generazione in qualche maniera c’è la possibilità di far scaturire una risposta antitumorale molto efficace, almeno all’inizio, ma penso che si tratti della via più promettente ed efficace per contrastare il tumore al pancreas: forse non eradicare, ma quantomeno cronicizzare la malattia tumorale è un fine possibile. L’obiettivo per i prossimi anni è di far aumentare la sopravvivenza dei pazienti soprattutto con tumore al pancreas a un livello accettabile.