Paola Pisanti: «La gestione della cronicità in Italia»

Il Piano Nazionale della Cronicità ha previsto una complessità di interventi a diversi livelli che costituiscono una “nuova riforma” per il nostro SSN. Quali sviluppi ci sono stati nei primi 3 anni dalla sua approvazione?

Intervista a Paola Pisanti, Consulente esperto malattie croniche, Ministero della Salute

Innanzitutto, ci ricorda quali sono gli obiettivi del Piano Nazionale Cronicità (PNC)?

Il Piano è stato approvato in Conferenza Stato-Regioni a settembre del 2016 e si divide in 2 parti. La prima parte è focalizzata sulla persona con malattia cronica indipendentemente dalla malattia che ne determina la cronicità e presenta obiettivi generali validi per tutte le patologie. Anzi, il Piano segue il cittadino prima ancora che sviluppi una patologia, dal momento in cui viene individuato come portatore di fattori di rischio. Il primo passo riguarda quindi la prevenzione, laddove esistano delle misure da mettere in atto per evitare l’insorgenza di patologie prevenibili, oppure la diagnosi precoce, per le patologie non prevenibili. La tempestività della diagnosi è un obiettivo fondamentale del Piano perché in moltissime patologie croniche la diagnosi avviene con grande ritardo rispetto a quanto previsto dalle linee guida. Un altro elemento chiave riguarda l’epidemiologia, intesa non solo a fini di ricerca ma anche di programmazione sanitaria: in particolare, le Regioni sono sollecitate ad utilizzare l’epidemiologia per operare una stratificazione della popolazione in base ai bisogni dei pazienti, che possono essere molto diversificati pur nell’ambito della stessa patologia cronica.

La parte centrale del Piano riguarda la presa in carico della persona che riceve una diagnosi di malattia e accede al Servizio sanitario. Il paziente, da qualsiasi “porta” acceda (la medicina generale, il pronto soccorso oppure uno screening specifico che consenta di individuare un soggetto a rischio), deve essere indirizzato ad un determinato Percorso Diagnostico-Terapeutico-Assistenziale (PDTA), che rappresenta lo strumento principale di assistenza e cura. Ma il Piano va anche oltre, e indica alle Regioni la necessità di stabilire un Piano personalizzato del paziente, che tenga conto dei bisogni complessi dell’individuo e comprenda non solo gli aspetti clinici o sanitari ma tutti gli elementi che influenzano la quotidianità della persona. Ad esempio, si tratta di valorizzare l’empowerment e l’engagement del paziente, a partire dalla comunicazione della diagnosi, con l’obiettivo di arrivare ad un soggetto che, pur presentando una patologia cronica, sia in salute. Il Piano prevede inoltre un Patto di cura, che si deve stabilire con il medico e il team multidisciplinare. Per ogni fase sono state individuate strategie e azioni da mettere in atto a livello regionale, inclusa la valutazione delle misure adottate.

La seconda parte del Piano affronta invece nello specifico alcune patologie per le quali ci siamo resi conto, nella fase di stesura, che erano necessari maggiori approfondimenti. La scelta di queste patologie è stata dettata soprattutto da due criteri in particolare: l’importante ritardo nella diagnosi rispetto alle linee guida (ad esempio per l’artrite reumatoide spesso la diagnosi viene posta dopo 7 anni dai primi segni) e il peso rilevante della patologia, inteso non a livello economico quanto piuttosto sulla vita quotidiana del paziente e della sua famiglia.

Stratificazione della popolazione, integrazione ospedale-territorio, applicazione dei PDTA e domiciliarità sono obiettivi fondamentali del PNC

Tra i principali obiettivi del Piano, ricordiamo innanzitutto, la creazione di modelli omogenei di stratificazione della popolazione, per garantire che non ci siano differenze interregionali ed evitare eventuali problematiche nel passaggio di un paziente da una Regione ad un’altra; quindi la verifica di come le Regioni stanno mettendo in atto l’integrazione ospedale-territorio, con l’elaborazione di eventuali ulteriori strumenti per rendere più stretto questo rapporto. Come abbiamo detto, il Piano indica nel PDTA lo strumento principale per seguire il paziente ma è importante verificare che questo strumento venga utilizzato in maniera corretta, considerando che non tutte le patologie si prestano alla costruzione di un PDTA: in quest’ottica stiamo portando avanti con la Fondazione Ricerca e Salute (ReS) un lavoro di analisi che ha evidenziato come condizioni preliminari per la stesura di un PDTA la multidisciplinarietà e l’esistenza di linee guida o di consenso relative alla patologia.

Un altro obiettivo è la demedicalizzazione della vita quotidiana del paziente, intesa come impegno a fare in modo che il malato cronico non sia discriminato per la sua condizione patologica nell’ambiente lavorativo, familiare e a scuola, pur garantendogli una migliore assistenza e cura dal punto di vista clinico, facilitando l’accesso al servizio sanitario e migliorando l’appropriatezza delle terapie e delle prestazioni.

A che punto è il recepimento del Piano nelle diverse Regioni? Ci sono esperienze particolarmente significative per l’applicazione del PNC?

Per monitorare l’applicazione del PNC è stata istituita a livello ministeriale una Cabina di regia composta da rappresentanti del Ministero della Salute, come i Direttori generali delle funzioni di Programmazione, Prevenzione, Alimenti, Sistema statistico, Sistema informativo, e di altre istituzioni, come l’Istituto Superiore di Sanità, l’Agenas e l’AIFA, oltre ad esperti a livello nazionale di cronicità. La Cabina di regia inoltre ha il compito di raccogliere le “buone pratiche” che si stanno portando avanti nelle diverse Regioni.

In questi tre anni, sono 11 le Regioni che hanno recepito formalmente il Piano, ma anche altre Regioni che non hanno ancora predisposto un atto formale si stanno indirizzando verso questo modello di gestione della cronicità.

Nella fase di stesura del Piano è stata condotta una ricognizione di tutti i modelli assistenziali sulla cronicità esistenti in Italia, con l’obiettivo di predisporre un documento che non fosse in conflitto con quello che già esisteva nel nostro Paese. Alcuni modelli organizzativi erano già attivi, come ad esempio quello delle Reti cliniche integrate in Toscana, i modelli di stratificazione messi a punto in Veneto o le esperienze di Lombardia ed Emilia Romagna. Il Piano ha inteso rafforzare il concetto della necessità di un nuovo modello di gestione, offrendo uno spunto soprattutto alle Regioni che non avevano ancora affrontato questo argomento. Ad esempio in questi anni abbiamo visto come le Case della Salute, che rappresentano una modalità operativa di Unità di Cure Complesse Primarie (UCCP), sono state adottate anche in Lazio.

Inoltre, se è vero che alcune delibere regionali contengono un recepimento ancora molto formale del Piano, altre Regioni, come l’Umbria, sono scese più nella pratica e hanno individuato i vari passaggi da mettere in atto, quali saranno i compiti dei Direttori generali nell’applicazione del piano, individuando alcuni PDTA specifici e prevedendo una riorganizzazione generale dell’assistenza. Perché il punto chiave del Piano riguarda proprio l’organizzazione, in continuità con quanto previsto e realizzato fino ad oggi, a partire dalla Legge 833 di Istituzione del Servizio Sanitario Nazionale, ma con una nuova visione del cronico rispetto all’acuto, che porta con sé una serie di cambiamenti anche nel comportamento professionale di tutte le figure coinvolte.

In merito ai cambiamenti a livello organizzativo, nella Cabina di regia e nella valutazione dell’applicazione del PNC avete già riscontrato se sono stati implementati sistemi innovativi di remunerazione dell’assistenza ai malati cronici?

Per il momento siamo ancora nella fase iniziale e non abbiamo esperienze concrete, anche se Ministero e Regioni stanno lavorando su questo aspetto. In effetti, tra gli strumenti per favorire l’applicazione del Piano, avevamo già inserito il riferimento ad un sistema di remunerazione non più a prestazione ma a performance, perché il percorso del paziente cronico può essere caratterizzato, ad esempio, da una maggiore spesa per i farmaci bilanciata da un risparmio sulle mancate ospedalizzazioni. In questo senso per il cronico è auspicabile il superamento dei silos di spesa separati (farmaci, prestazioni, ospedale, territorio).

In questi tre anni, sono 11 le Regioni che  hanno recepito formalmente il Piano

Un altro elemento utile per l’applicazione del Piano è il Nuovo Sistema Informativo Sanitario (NSIS) che, oltre ai flussi già esistenti (SDO, i farmaci, le prestazioni specialistiche…), ha predisposto linee di monitoraggio aggiuntive sull’assistenza territoriale, la riabilitazione e la residenzialità.

Nella stessa ottica si è inserito il Nuovo Sistema di Garanzia (NSG) con l’obiettivo di indicare alle Regioni come identificare il target di popolazione attraverso l’analisi dei dati amministrativi e di fornire gli indicatori di processo e di esito per una rilevazione omogenea a livello nazionale. Ad esempio, dalla sperimentazione effettuata in alcune Regioni è emerso che l’esame del fondo oculare per il paziente diabetico in alcune realtà viene effettuato ogni due anni e in altre no.

In conclusione, quale impatto auspica che possa avere il Piano Nazionale Cronicità sul nostro sistema sanitario?

Prima di concludere, vorrei ancora sottolineare due elementi fondamentali, che chiamano in causa importanti innovazioni tecnologiche e di processo. Innanzitutto la domiciliarità, cioè cercare di portare il più possibile i pazienti al proprio domicilio, evitando le riacutizzazioni della malattia e le conseguenti ospedalizzazioni. Gestire il paziente a domicilio significa sfruttare al meglio la sanità digitale, quindi tutto quello che riguarda la telemedicina, il teleconsulto e la teleassistenza, aspetti ai quali il Piano dedica particolare attenzione.

E infine, l’autonomia del paziente, con l’obiettivo di rendere le persone sempre più autonome nella gestione della propria patologia, soprattutto laddove vengono utilizzati alcuni devices, come nel diabete o nella BPCO.

Senza dubbio, questi cambiamenti influenzeranno in maniera significativa il nostro sistema sanitario e anche il comportamento professionale di tutte le figure coinvolte. Ad esempio, recentemente con il Ministero della Salute e l’Ordine degli psicologi ho lavorato all’elaborazione e alla pubblicazione di un documento sul ruolo dello psicologo nella gestione della cronicità. Lo stesso si dovrà fare con altre categorie, soprattutto per quelle figure che hanno lavorato sempre in maniera molto settoriale e che ora vengono inserite in questo percorso di diagnosi e cura. Tutto ciò dovrà però essere sempre visto e integrato nella cornice del Piano, che deve rappresentare un cambiamento epocale sia per l’ospedale sia per il territorio.

Come si vede, il Piano apre ad una complessità di interventi e per il suo intento di rottura rispetto al passato può essere giustamente considerato, secondo me, “una nuova riforma”, perché dà una visione della cronicità completamente diversa dall’approccio precedente.

In questo senso, il Piano va ad influenzare la “cultura” delle persone, sia chi cura sia chi viene curato e, come tutto quello che passa attraverso un cambiamento culturale, richiede tempi lunghi. Prima dovranno manifestarsi le ricadute culturali e poi saremo in grado di rilevare anche i risultati operativi. Ci vorrà un po’ di tempo però credo che la prima pietra sia stata posta.

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Rossella Iannone
Direttrice responsabile TrendSanità