Liste d’attesa: «Senza fondi non si va lontano. Curare “slow” e ridurre corsa a prestazioni»

Appena pubblicato il decreto del Governo, Marco Bobbio (Presidente di Slow Medicine ETS) lo commenta con TrendSanità: «Va cambiato il paradigma. Per curare davvero servono risorse, personale, tempo e ascolto. Non solo esami...»

«Il problema delle liste d’attesa è un problema molto complesso che riguarda l’organizzazione degli ospedali pubblici, il crescente peso della sanità privata, i continui tagli dei finanziamenti al Fondo Sanitario Nazionale, la riduzione del personale, l’aspettativa irrealistica di ottenere una diagnosi per ogni minimo disturbo, la pressione commerciale delle aziende che producono strumenti diagnostici, la tendenza di molti medici a prescrivere un esame piuttosto che spiegarne l’inutilità e, in ultimo, dunque, anche il problema dell’appropriatezza prescrittiva».

Il netto ridimensionamento dei fondi stanziati rispetto a quelli inizialmente previsti dal Ministero della Salute (gran parte delle misure dovrebbero vivere attingendo a vecchi fondi stanziati in passato) hanno attirato numerose critiche ai provvedimenti del Governo

Tempo e salute, cura e prestazioni, attese e prevenzione, fondi e accessibilità. È costellato di variabili e antitesi il tema delle liste d’attesa tornato al centro dell’attenzione con la presentazione di due provvedimenti del Governo, un Decreto-legge e un Disegno di legge, che puntano a limitare i disagi causati ai cittadini. Il Decreto, entrato in vigore l’8 giugno, prevede l’istituzione della Piattaforma nazionale delle liste di attesa, la creazione di un “Organismo di verifica e controllo sull’assistenza sanitaria”, la creazione di CUP (Centri Unici di Prenotazione) a livello regionale che possano avere a disposizione le agende delle strutture pubbliche e delle private convenzionate, la possibilità di offrire prestazioni anche il sabato e la domenica e modalità per garantire ai cittadini tempi certi per le prestazioni mediante ricorso a intramoenia o privato. Il previsto superamento del tetto di spesa per il personale slitterà al 2025 e nel decreto pubblicato vengono riviste le modalità di tassazione agevolata per i professionisti sanitari che offriranno prestazioni aggiuntive e in orari extra. Il netto ridimensionamento dei fondi stanziati rispetto a quelli inizialmente previsti dal Ministero della Salute (gran parte delle misure dovrebbero vivere attingendo a vecchi fondi stanziati in passato) e i tempi lunghi per vedere effetti concreti (ci vorranno 7 decreti attuativi) hanno attirato numerose critiche ai provvedimenti.

Ma torniamo alle considerazioni iniziali con il tentativo di parlare di liste d’attesa scalfendo un po’ la superficie del consueto dibattito. Perché, se ho un tumore e sto riuscendo a curarlo, o a limitarlo, e devo fare una PET-TC per vedere che succede non posso aspettare 30 giorni e nemmeno 10. Se non ho patologie particolari, invece, non serve fare esami del sangue ogni sei mesi. Ma se il messaggio che mi arriva dalle istituzioni è che fare screening e prevenire è fondamentale, e non viene comunicato correttamente chi deve farlo e per cosa, allora la questione si complica.

«È stato studiato in moltissime ricerche che il 30-40% delle prestazioni eseguite dai cittadini sono inutili, cioè non producono salute, non cambiano la qualità della vita dei pazienti e non hanno influenza sulla durata della loro vita».

È stato studiato in moltissime ricerche che il 30-40% delle prestazioni eseguite dai cittadini sono inutili: cioè non producono salute

Marco Bobbio

Getta un sasso nello stagno il Presidente di Slow Medicine ETS, il cardiologo Marco Bobbio, che cerca di fare chiarezza tra le corrette procedure suggerite per la prevenzione e una delle derive del cosiddetto disease mongering, che potremmo tradurre come commercializzazione delle malattie o come titolava il libro che coniava questa espressione nel 1992: “Spacciatori di malattie: come medici, aziende farmaceutiche e assicuratori ti stanno facendo sentire malato”.

L’associazione che Bobbio presiede da anni sottolinea nel suo manifesto che «la diffusione e l’uso di nuovi trattamenti sanitari e di nuove procedure diagnostiche non sempre si accompagnano a maggiori benefici per i pazienti. Interessi economici e ragioni di carattere culturale e sociale spingono all’eccessivo consumo di prestazioni sanitarie, dilatando oltre misura le aspettative delle persone, più di quanto il sistema sanitario sia poi in grado di soddisfarle».

È bene ribadire con forza un concetto: aspettare 150 giorni per una mammografia (dati Cittadinanzattiva) prescritta per essere effettuata entro 10 giorni è inaccettabile. Può fare davvero la differenza tra la vita e la morte per una persona. È inaccettabile avere una visita cardiologica solo per 25 cittadini sui 100 di quelli che ne avrebbero bisogno entro 10 giorni (dati Agenas 2023). Così come è difficile da mandare giù che dopo anni di discussione sul tema liste d’attesa ancora non ci siano dati realistici in arrivo in modo costante da tutte le Regioni e Province Autonome.

Ma il punto di vista di Slow Medicine ETS può dare elementi di riflessione che rompano la consueta dialettica sul tema.

«Va detto, intanto, che sottoporsi a tanti screening certe volte anticipa solo delle diagnosi, senza che ci sia poi la possibilità di curarle e migliorare la propria vita. Cioè, non sempre saper prima è meglio. Certe volte saper prima aumenta l’angoscia ma non cambia la storia naturale del paziente».

A chi va rivolto questo monito?

«Il problema dell’appropriatezza prescrittiva dovrebbe riguardare tutti i medici e non solo i medici di medicina generale perché loro spesso sono il terminale di prescrizioni che vengono richieste da altri. Quando un paziente va di sua iniziativa da un professionista privato, paga la visita e questo professionista prepara un elenco talvolta sterminato di esami che devono essere fatti. Allora il paziente ritorna dal medico di medicina generale e “impone” che gli vengano prescritti perché il luminare ha dichiarato che quelli sono indispensabili. Quindi, un medico di medicina generale si vede in qualche modo forzato, o in alcuni casi costretto, a prescrivere degli esami, anche se non li ritiene necessari né utili per il paziente. Rivalersi su di lui per l’inappropriatezza della prescrizione è, a mio parere, decisamente iniquo».

Resta l’impressione di una carenza di comunicazione tra pazienti, specialisti e medici di famiglia. Voi, a proposito, avete deciso di lavorare sull’ascolto dei pazienti e dei medici e degli altri professionisti sanitari.

Aspettare 150 giorni per una mammografia prescritta per essere effettuata entro 10 giorni è inaccettabile. Può fare davvero la differenza tra la vita e la morte

«Già nel 2019 abbiamo lanciato un progetto intitolato Storie Slow chiedendo ai soci e ai simpatizzanti di raccontare storie personali in cui il caso clinico, la malattia, è stata risolta evitando interventi, evitando trattamenti, evitando di fare degli accertamenti o riducendo delle medicine. Aspettando, lasciando che le malattie continuassero nella loro evoluzione naturale. Riducendo quel tanto una terapia a volte imposta dalla fretta tecnologica, dall’idea che prescrivendo comunque qualcosa si può risolvere tutto e subito».

Cosa avete raccolto?

«Abbiamo ricevuto 70 storie scritte da medici, da pazienti, da infermieri, da fisioterapisti. È veramente un ventaglio amplissimo di persone e di casi che sono stati risolti senza bisogno di ricorrere immediatamente ad accertamenti, tecnologia, trattamenti. Anche perché l’organismo umano ha la capacità di risolvere i problemi, è fatto in modo da affrontare le malattie e i disturbi e cercare di superarli spontaneamente. Poi non sempre ci riesce, quindi ben vengano i farmaci, i trattamenti chirurgici, gli esami di laboratorio, ma non sempre questo è indispensabile».

Quali sono stati gli spunti ricorrenti di queste narrazioni?

Sobrietà, rispetto, tempo e accompagnamento sono i quattro concetti chiave emersi dalle storie “slow” che abbiamo raccolto

«Abbiamo individuato i temi più frequenti di queste storie e ne abbiamo messi a fuoco quattro che sono stati sviluppati in un libro (“I gatti della signora Augusta”): la sobrietà è il primo. Il fatto che non sempre sia necessario aggredire le malattie ma si può, in alcuni casi, soprassedere, aspettare e rimandare. O rinunciare a un trattamento ottenendo dei risultati soddisfacenti per il paziente. Il secondo tema è quello del rispetto. Come sanitari dobbiamo accettare e prendere in considerazione le opinioni, i valori, i desideri del paziente. In qualche modo concordare un percorso diagnostico e terapeutico che tenga conto anche delle esigenze del paziente. È uno dei temi più ricorrenti nelle storie che abbiamo raccolto. Il terzo tema è quello del tempo. Per curare bene i pazienti ci vuole del tempo e, infatti, c’è una legge dello Stato (la 219/2017) che nell’articolo 1 comma 8 recita: “Il tempo della comunicazione tra medico e paziente costituisce tempo di cura”. Purtroppo, questa legge viene disattesa troppo spesso e nelle strutture pubbliche si tagliano i tempi perché bisogna “produrre” e la logica della produzione prevale su quella del benessere dei pazienti. E il quarto e ultimo tema è quello dell’accompagnamento. Sono storie di fine vita, di medici, infermieri e psicologi che hanno aiutato i pazienti a passare senza accanimenti diagnostici e terapeutici l’ultimo momento, il più delicato della vita».

Come mettere in relazione questi concetti con i recenti provvedimenti annunciati dal Governo?

«Ecco, un po’ la logica che sembra pervada la medicina di oggi in Italia e non solo, perlomeno quella che anima il DL e il DDL, è una logica che investe molto sulle prestazioni e poco sulla cura. Cioè, noi eroghiamo prestazioni, state tranquilli, vi consentiamo tutte le prestazioni che volete, tutti gli esami che volete ve li diamo, eccetera… Ma la cura è un’altra cosa, vuol dire avere del tempo per stare dietro al paziente per capirlo, per capire le sue esigenze, le sue aspettative, i suoi bisogni. Per trovare la cura più adatta per lui, mettendo insieme le conoscenze che derivano dalle linee guida con le sue aspettative».

Da dove partire per modificare questo paradigma?

Fondi vanno reperiti tagliando contributi alle assicurazioni e alle mutue integrative che sono spesso solo un volano di prestazioni senza reali benefici

«Il sistema sanitario va rifinanziato in modo sostanziale, su questo non c’è nessun dubbio. Dove trovare i fondi? Magari tagliando quelli che vengono erogati alle mutue integrative, per esempio. Le mutue integrative sono nate con l’idea di supportare e integrare le strutture pubbliche quando non sono in grado di erogare dei servizi, ma in realtà sono esse stesse volano di prescrizioni perché più accertamenti si fanno più questi creano ulteriori accertamenti. Si trova sempre un valore fuori dalla norma, o quella piccola lesione riscontrata nella radiografia. Tutto questo avvia una cascata di ulteriori prestazioni che poi ricadono sul sistema sanitario nazionale e aggravano, di conseguenza, i tempi di attesa. E c’è anche il fatto che, essendo spesso prestazioni offerte dall’assicurazione, c’è l’idea per cui se ne debba necessariamente “approfittare”. Ho sentito delle persone dire: “Quest’anno ho diritto ancora a far due visite cardiologiche”. E le farà perché è un suo diritto, perché ha pagato il premio assicurativo. Sempre più spesso vengono offerti gratuitamente “pacchetti di prevenzione”, quello dermatologico, quello polmonare, quello renale, ecc… che non hanno mai dimostrato di ridurre l’incidenza di malattie gravi ma piacciono, perché danno l’illusione di poter scoprire e risolvere le malattie prima che creino disturbi.  Tutte iniziative che genereranno ulteriori richieste di accertamenti».

Resta il problema dei fondi. Passata la pandemia si sono subito ridotti i fondi alla sanità…

«Prima di tutto va finanziato il SSN e vanno ridotti i finanziamenti a strutture private che invece di ridurre il carico per lo Stato incentivano questa ondata di prescrizioni. Poi bisogna ridurre gli sprechi all’interno degli ospedali. Per esempio, esami del sangue ripetuti, prescritti solo a scopo difensivo. Bisogna ripensare alla sanità pubblica in termini di risparmio, che non vuol dire tagliare in modo indiscriminato. Negli ultimi 20 di lavoro che ho passato negli ospedali ho visto gli assessori e i direttori degli ospedali che avevano il compito di fare dei tagli, di ridurre le spese, ma si è trattato prevalentemente di tagli lineari. Riduciamo le spese del 10% e riduciamo a tutti in modo uguale perché è più semplice invece di fare l’analisi dei problemi e scegliere di tagliare dove ci sono degli sprechi e finanziare le attività che creano salute. Con i tagli lineari, invece, si tagliano sia le cose inutili sia quelle utili, si risparmia, ma si curano peggio i pazienti».

Infine, c’è il tema del personale.

«Uno dei tagli più dannosi che ha colpito negli ultimi vent’anni la sanità è stato proprio quello sul personale, col mancato turnover. Questo, ovviamente, ha complicato tutto. E ora ci troviamo con bassi stipendi, scarsa attrattività dell’impegno negli ospedali, concorsi pubblici che vanno deserti e la concorrenza dei lavori a gettone nel pronto soccorso per 700 euro a turno. Per invertire la tendenza dobbiamo garantire degli stipendi, delle carriere adeguate e un lavoro gratificante e soddisfacente. Sono tante le cose che in questi ultimi decenni sono andate perse nella sanità pubblica. Si è giocato soltanto di rimando, non si è più investito, non ci sono state le persone, le risorse e la capacità di capire cosa fosse realmente necessario per garantire le cure necessarie per tutti».

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Cesare Buquicchio
Giornalista professionista. Condirettore TrendSanità. Capo Ufficio Stampa Ministero della Salute dal 2019 al 2022. Direttore scientifico del corso di perfezionamento CreSP, Università di Pisa