Vaccino accostato a salute e vite salvate oppure a effetti collaterali e decessi? Ad analizzare come i media hanno comunicato i vaccini durante la pandemia, e cosa ne è conseguito nel mondo social, è lo studio Emotional profiling and cognitive networks unravel how mainstream and alternative press framed AstraZeneca, Pfizer and COVID-19 vaccination campaigns, pubblicato su Nature Scientific Reports, a cura di Massimo Stella, responsabile del CogNosco Lab alla Exeter University, in collaborazione con Giancarlo Ruffo, professore di Informatica all’Università di Torino, e i ricercatori Alfonso Semeraro e Salvatore Vilella (Università di Torino).
A commentare i risultati è Massimo Stella, che con il proprio gruppo di ricerca si occupa di data science e scienze cognitive.
Professore, cosa avete riscontrato?
Un cambio improvviso e netto nell’attenzione e nel modo di inquadrare il concetto dei vaccini. Noi abbiamo preso in considerazione i vaccini più diffusi all’epoca del marzo 2021, quindi Pfizer, AstraZeneca, Johnson & Johnson. Perché parlo di marzo 2021? Perché il 15 marzo 2021 in Italia è stata decisa la sospensione temporanea del vaccino AstraZeneca e noi ci siamo focalizzati proprio sull’ecosistema multimediale italiano. Abbiamo analizzato quasi 5mila articoli distribuiti online, ridiscussi 2 milioni di volte su Twitter e su Facebook, quindi con ampia copertura nei social media, provenienti da testate mainstream ma anche da fonti alternative e underground, dall’estate del 2020 fino a giugno del 2021.
La distinzione fra i due tipi di media l’abbiamo effettuata tramite dei fact checker esterni, con un servizio che si chiama Bufale.Net, formato da esperti che mappano le testate giornalistiche in base all’attendibilità o allo stile dei contenuti che promuovono. Quindi abbiamo distinto le notizie fra provenienti da testate mainstream e alternative.
Abbiamo notato che all’indomani del 15 marzo 2021 c’è stato un cambio netto della cornice semantica sia per AstraZeneca che per Pfizer. Se prima del 15 marzo i contenuti “alternativi” sottolineavano già gli effetti negativi del vaccino Pfizer, all’indomani della sospensione di AstraZeneca tutta questa attenzione negativa sul primo è sfumata, a favore del secondo.
Come si è manifestato in concreto questo cambiamento?
Reazioni avverse. Morti. Trombosi. Rischi gravissimi, allergie. Parole che prima non erano state registrate intorno ad AstraZeneca e venivano invece associate a Pfizer. C’è stato questo “passaggio di consegne” e contemporaneamente Pfizer è diventato anche più periferico nel discorso nella debacle sui vaccini.
Questo è avvenuto sia sul fronte delle mainstream news che di quelle alternative?
Sui media mainstream Pfizer veniva discusso in termini sia negativi che positivi. Si trovavano associazioni legate alla fiducia nei vaccini nel prevenire le morti, nel salvare vite e proteggere le persone, nell’aiutare gli ospedali a reggere. All’indomani della sospensione, questa percezione non è cambiata molto intorno a Pfizer, mentre purtroppo anche le testate mainstream hanno iniziato a promuovere associazioni negative nei confronti di AstraZeneca, esaltando le reazioni avverse, i casi di morte e di trombosi.
Un cambio netto del modo in cui i giornali che si dovrebbero poter considerare più attendibili hanno “impacchettato” e presentato a milioni di utenti i concetti di vaccino Pfizer e di vaccino AstraZeneca in modi così radicalmente diversi.
La situazione col tempo si è stabilizzata?
In parte, dopo la reintroduzione del vaccino AstraZeneca sul mercato. Però, nel tempo, le menzioni di effetti negativi non sono mai scomparse. Abbiamo evidenziato come sui giornali “trombosi” fosse rimasta una parola frequente all’interno del dataset, sia nel mondo delle notizie “alternative” che in quelle mainstream: entrambe hanno continuato a dare risonanza agli effetti negativi dei vaccini.
Il vostro studio comprende una comparazione rispetto agli effetti collaterali realmente verificati?
Purtroppo no, perché quando è stato effettuato non erano ancora disponibili dati che sono stati poi rilasciati quest’estate, quindi quasi un anno dopo. Ma va detto che è già preoccupante che ci siano queste associazioni negative.
Perché?
Una mole di associazioni negative nei titoli dei giornali, quindi lette da milioni di persone, almeno a giudicare dal numero di apprezzamenti e reazioni che abbiamo registrato su Twitter e su Facebook, fornisce uno stimolo. Interviene un processo che si chiama contagio emotivo: leggendo un post di Facebook si può venire influenzati dalle emozioni che vengono riportate.
Abbiamo mostrato che il modo in cui sono stati inquadrati i vaccini nei titoli esprimeva sentimenti di paura, ansia, negatività. È preoccupante trovare queste tracce già nei titoli: le emozioni possono passare direttamente alle persone e causare alti livelli di paura
Noi abbiamo mostrato che il modo in cui sono stati inquadrati AstraZeneca e Pfizer nei titoli esprimeva sentimenti di paura, ansia, negatività. Pertanto è preoccupante trovare queste tracce già nei titoli, perché si tratta di emozioni possono passare direttamente alle persone e causare alti livelli di paura.
Possono portare le persone a non seguire un certo consiglio razionale per evitare una possibile minaccia anche solo basandosi sul nome dell’azienda che ha prodotto il vaccino. Riflettendo sul caso AstraZeneca, a posteriori, crediamo che i titoli abbiano portato a certe scelte, perché in effetti il vaccino AstraZeneca non è stato più utilizzato per fare le dosi booster e per la terza dose si è scelto di passare a Moderna o ad altri vaccini diversi.
Ci sono delle differenze fra i diversi social?
Su Twitter le emozioni più positive nei confronti dei vaccini possono viaggiare più rapidamente, vengono “retweettate” in maniera più rapida. Altre emozioni come la tristezza o lo scoraggiamento da un punto di vista psicologico tendono invece a ridurre la facilità con cui gli utenti cliccano “retweet” per un certo contenuto, come abbiamo mostrato in un altro articolo sempre centrato su Twitter e vaccini.
Un meccanismo analogo funziona anche su Facebook. La differenza principale è che molte persone lo usano proprio per cercare notizie su questi argomenti e quindi possono essere ulteriormente più esposte al fenomeno del contagio emotivo.
Uno studio come il vostro si può quindi considerare un segnale preoccupante in termini di comunicazione delle emergenze delle vaccinazioni?
Decisamente. L’obiettivo precipuo dello studio è stato di analizzare la struttura delle associazioni sintattiche tra le parole all’interno dei titoli: siamo in grado di mostrare come sono state connesse tra di loro le idee in quest’ambito, ma la stessa tecnica potrebbe essere applicata anche ai “tweet” e ai post di Facebook.
La tecnica usata dai ricercatori ha il potere di ricostruire il modo in cui vengono associati i concetti fra loro, fornendo una mappa dei discorsi preminenti che stanno affluendo sulle piattaforme
Questa tecnica ha il potere di non fornire soltanto una lista asettica di parole, ma di ricostruire il modo in cui vengono associati i concetti fra loro e quindi di fornire una sorta di mappa dei discorsi prominenti che stanno affluendo sulle piattaforme.
In concreto, non si tratta solo di vedere se nello stesso titolo o post sui social media sono presenti i termini “morte” e “vaccino”, perché sono possibili sia associazioni come “il vaccino evita la morte” che “il vaccino causa la morte”: il nostro sistema è in grado di fare questo tipo di analisi. Avendo a disposizione un contenuto del genere, è possibile dare un campanello d’allarme sulla base di studi che lasciano poco spazio all’ambiguità.
Avete ragionato anche sul perché si sia manifestata una tale preoccupazione verso i vaccini?
Ci sono varie possibili spiegazioni sulle ragioni per cui le percezioni negative possano fluire così abbondantemente. Da un punto di vista psicologico, per esempio, la presenza di una minaccia comporta automaticamente degli stimoli di reazione, che possono essere però diversi.
Nella teoria di Plutchik delle emozioni di base, la paura e la rabbia sono due risposte di reazione nei confronti di una minaccia esterna. La paura porta all’inibizione del pericolo, quindi si cerca di evitarlo del tutto. La rabbia, invece, conduce a un’azione concreta contro il pericolo stesso. Noi abbiamo trovato evidenze di paura, ma questo era un anno fa.
Adesso, in virtù della mia esperienza online, credo che se ripetessimo lo stesso esperimento potremmo trovare tracce anche di rabbia. Lo si vede dai trend su Twitter contro personaggi politici specifici e in particolare contro il ministro della Salute dell’epoca. Sono reazioni attese da un punto di vista psicologico, perché anche la rabbia è un modo di reagire nei confronti di una minaccia.
L’Intelligenza Artificiale e la psicologia, combinate, possono essere molto utili per capire questi pattern. È anche quello che facciamo noi nell’articolo: non ci limitiamo a un approccio informatico o di data science, ma vogliamo interpretare da un punto di vista psicologico quali sono le ripercussioni di questi pattern identificati dall’intelligenza artificiale. L’operazione si può compiere infatti perché l’intelligenza artificiale può leggere migliaia di articoli in pochi secondi, mentre l’essere umano, sì, può fare la stessa cosa e anche meglio, ma di certo non con quei numeri e non con quella rapidità. Abbiamo bisogno di questi strumenti.
Qual è quindi secondo lei il concetto fondamentale che emerge dal vostro studio?
L’idea che abbiamo che le testate mainstream siano sempre perfette nel promuovere percezioni assolutamente inoppugnabili è uno stereotipo da sfatare. La disinformazione può arrivare da qualsiasi canale. Per questo abbiamo bisogno di strumenti che siano in grado di comprendere le emozioni e il contenuto semantico. Disinformazione può anche essere la testata mainstream che appunto sottolinea in modo negativo e abbinando alla paura gli effetti collaterali del vaccino proveniente da una determinata label. Ecco, questo è un mito che la nostra ricerca cerca di smontare.
L’idea che le testate mainstream siano sempre perfette nel promuovere percezioni assolutamente inoppugnabili è uno stereotipo da sfatare. La disinformazione può arrivare da qualsiasi canale
Purtroppo è evidente che anche le testate mainstream possono promuovere delle percezioni distorte. Il fatto che un contenuto sia stato pubblicato sul sito “x” o “y” non è sufficiente a proteggerci dal rischio di sviluppare delle percezioni distorte o distaccate dalla realtà. Abbiamo davvero necessità di strumenti automatici che vadano caso per caso e che ci aiutino anche a vedere le cose da un punto di vista terzo, senza sostituire il criterio dell’utente, ma supportandolo e aiutandolo a identificare quali sono i contenuti chiave di un certo pezzo o quali sono le emozioni principali di un certo modo di scrittura.
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