Prosegue con questo editoriale dedicato alle medical humanities la collaborazione con il Cultural Welfare Center (CCW) sulla base di un progetto comune di diffusione della conoscenza sul valore delle arti e della cultura per il benessere e la salute
Dal 24 al 26 ottobre si svolgerà in digitale Iconografia della Salute, il festival delle Medical Humanities ideato nel 2020 dal Centro Studi Medical Humanities dell’Azienda ospedaliera di Alessandria, per valorizzare questo approccio, che riunisce numerose discipline che influiscono sul percorso di cura del paziente. I temi delicati e d’attualità della terza edizione del festival sono fiducia e fine vita, strettamente correlati se si pensa al rapporto operatori di cura e persone assistite o ai momenti in cui il caregiver si confronta con le disposizioni anticipate di trattamento.
Ad aprire i lavori del Festival sarà Sandro Spinsanti, uno dei pionieri delle medical humanities in Italia, fondatore e direttore dell’Istituto Giano per le medical humanities, componente del Comitato nazionale per la bioetica e presidente di numerosi comitati etici per la ricerca nonché componente del Comitato Scientifico del Centro Studi Medical Humanities di Alessandria, con una lezione magistrale dedicata alla fiducia, oggetto della sua pubblicazione “Una diversa fiducia”.
Ma cosa sono le medical humanities? Cosa rientra in questa espressione suggestiva, che richiama all’umanizzazione delle cure e all’umanesimo in medicina? Il loro scopo è “trasformare l’immagine stessa della medicina”, sintesi di Sandro Spinsanti presente nel primo editoriale della rivista Arco di Giano, pubblicata nel 1993. A lui chiediamo un approfondimento a partire da questa definizione.
La correlazione tra i valori dell’umanesimo e quelli che guidano la pratica della medicina potrebbe apparire anacronistica: Edmund Pellegrino utilizza una formula a effetto per definire la medicina “la più umana (umanistica) delle scienze e la più scientifica delle humanities”. Come la medicina può attingere ai valori dell’umanesimo e come si collocano in questo senso le medical humanities?
Le medical humanities coltivano un sogno di ampio respiro: assicurare la felice sinergia tra le scienze naturali e le scienze umane, in vista di una medicina che sappia curare e prendersi cura, assicurare cure efficaci dal punto di vista biologico, ma anche rispettose di tutta la molteplicità dei bisogni umani. Dalle medical humanities quindi possiamo aspettarci uno slancio verso l’incontro tra cultura umanistica e cultura scientifica, liberando peraltro la bioetica dalle strettoie dei dibattiti ideologici che la paralizzano, soprattutto in Italia: si pensi al recentissimo dibattito sulla dignità della morte. Mi piace ricordare che le medical humanities non si limitano a quanto la medicina può offrire per la guarigione, ma sono rilevanti rispetto a ogni forma di servizio alla salute: dalla psicoterapia al servizio sociale, dalla prevenzione alla medicina di comunità. Non si rivolgono, quindi, solo ai medici, ma a tutti gli operatori della salute. L’incontro, già da tempo consolidato, della medicina con le scienze sociali e comportamentali (sociologia, psicologia, diritto, economia, storia, antropologia culturale) domanda di entrare in un costruttivo dialogo con la riflessione che sulle pratiche sanitarie sta svolgendo la filosofia morale (teologia morale e bioetica) e con gli apporti delle arti espressive (letteratura, teatro, arti figurative). Lo spettro completo delle conoscenze e abilità acquisite necessarie per una medicina che sia all’altezza delle nostre aspirazioni abbraccia sia ciò che permette di comprendere la salute e la malattia nel contesto sociale e culturale, sia ciò che favorisce da parte di coloro che sono coinvolti nel processo di cura della salute la comprensione empatica di sé, dell’altro e del processo terapeutico. Il riferimento all’espressione medical humanities per includere questo vasto insieme di discipline e di pratiche ha buone ragioni dalla sua parte”.
Cosa ha portato allo sviluppo di questo contenitore di discipline, che non trova peraltro in italiano una adeguata espressione? Come si colloca nel panorama italiano?
Le medical humanities rappresentano un cambio di paradigma, proprio come il cambiamento che tutti conoscono in astronomia, mi riferisco chiaramente alla rivoluzione copernicana. Oggi la trasformazione del rapporto tra professionisti sanitari e le persone che ricorrono alle cure è visibile nella nostra società. Siamo passati da un atteggiamento ippocratico di tipo paternalistico, ossia il medico che fa il bene del paziente, all’etica, o meglio bioetica, tappa intermedia nella quale è rivendicato il diritto all’informazione per il paziente. Ricordo che la medicina non ha nel suo DNA l’ascolto, tanto che Virgilio l’aveva definita la muta ars, mentre il medico, che è uno scienziato di uomini – e di uomini malati – deve non solo sapere cosa è la malattia, ma capire il malato.
Oggi l’informazione non è un atto di benevolenza del medico gentile, ma un diritto del paziente; quindi, l’ascolto è il primo passaggio per un dialogo attraverso la parola, che informa e diventa un diritto: passare dal dovere del medico al diritto del paziente è un cambio di paradigma
Oggi l’informazione non è un atto di benevolenza del medico gentile, ma un diritto del paziente; quindi, l’ascolto è il primo passaggio per un dialogo attraverso la parola, che informa e diventa un diritto: passare dal dovere del medico al diritto del paziente è un cambio di paradigma.
Le medical humanities alimentano questo cambio di paradigma, che si è delineato negli Stati Uniti intorno agli anni ’60 del secolo scorso, con lo sviluppo di un movimento finalizzato a compensare l’unilaterale accentuazione del ricorso alle scienze naturali in medicina, a mio avviso estremamente felice che ha portato l’introduzione di vari corsi di humanities in quasi tutte le scuole di medicina negli USA fin dalla fase pionieristica. Edmund Pellegrino, negli anni ’80, nel delineare un bilancio delle attività formative realizzate, ebbe modo di sottolineare come in un decennio le medical humanities siano entrate in tutto il territorio degli Stati Uniti: non esisteva quasi più scuola medica e infermieristica che non facesse posto alle humanities come parte integrante del curricolo di formazione dei professionisti della sanità.
Per quanto riguarda l’espressione medical humanities, ritengo che non esista in italiano un’espressione analoga che ricopra lo stesso ambito semantico. Ogni tentativo di cercare un equivalente è destinato a creare equivoci ― come l’infelice “umanizzazione” della medicina ― che riflette solo un aspetto parziale della complessa realtà che attiene alle medical humanities.
Proprio per dare una idea della complessità, provo a fare qualche esempio, rispondendo alla domanda relativa alla situazione italiana delle medical humanities, che trovano applicazione in numerosi settori di intervento, che provo a sintetizzare. Poiché abbiamo già citato il concetto del dialogo, mi piace ricordare l’esperienza della medicina narrativa, che pone appunto l’ascolto e la parola al centro del rapporto tra medico e paziente. Un approccio che ha visto un importante momento di condivisione con la Consensus Conference realizzata in collaborazione con l’Istituto Superiore di Sanità nel 2014 e che si alimenta con i progetti di formazione e di sensibilizzazione della Società Italiana di Medicina Narrativa.
Un altro tema inerente alle medical humanities è quello della fiducia: anche in questo caso, abbiamo un ottimo esempio, il progetto Building Trust Italy di Slow Medicine, che oltre dieci anni fa ha avviato il progetto Choosing Wisely Italy e che oggi si rinnova con azioni concrete finalizzate a ripristinare e consolidare la fiducia e contrastare la pandemia di sfiducia che ha colpito il nostro paese (ma non solo) insieme al Covid. Vorrei poi ricordare tutti quei progetti accomunati dal concetto dell’accompagnamento, ispirati soprattutto alla valorizzazione della persona malata, alla sua concezione di una vita di qualità, e quindi sostanzialmente a una medicina “rispettosa”.
Se come ha detto Lei, il medico è uno scienziato di uomini e di uomini malati che deve sapere che cos’è la malattia ma anche capire il malato, cosa significa per il medico – ma più in generale – per i professionisti sanitari, capire il malato? Come si colloca l’immagine di Giano a cui l’Istituto è ispirato?
Vorrei partire da questa immagine di Giano bifronte, un’immagine che tutti abbiamo presente nella mente, con due facce che costituiscono una unità: il dio Giano è figura ricchissima di spessore simbolico, tanto da essere tradizionalmente utilizzata anche per visualizzare la condizione della medicina, chiamata a guardare contemporaneamente nelle opposte direzioni delle scienze della natura e delle scienze dell’uomo, abbinando sapere scientifico e comprensione antropologica nell’arte della cura. Questa immagine è uno dei pochi – se non l’unico contributo – che hanno portato i nostri padri latini alla mitologia, che era stata ‘copiata’ dai greci: hanno appunto creato questa divinità di cui la medicina si è appropriata. Abbiamo infatti riconosciuto che la medicina è fatta di due parti o di due atteggiamenti, che potremmo rappresentare con lo slogan “la medicina conta e racconta”.
Se la definizione di scienze della natura e scienze umane sembra troppo astratta, possiamo ricorrere ad un esempio: prendiamo noi stessi, malati, dal medico, che attraverso l’anamnesi conta i battiti del nostro cuore, misura la glicemia, poi prescrive una pillola, nella quale noi abbiamo molta fiducia. Ma questo è solo metà del percorso, perché accanto alla medicina che spiega e conta, c’è quella che comprende. Comprendere è l’altro pezzo del percorso: per comprendere bisogna ascoltare il malato – concetto sul quale mi sono già soffermato – perché il malato ha storie da raccontare, anzi, la sua malattia non è disfunzione degli organi ma è una storia, con sintomi, vissuti, emozioni che vengono sconvolte.
La medicina che informa è un grande progresso, ma se prima di informare non c’è l’ascolto, siamo di fronte ad una cattiva medicina
Questo è proprio il metodo che abbiamo imparato a denominare come medicina narrativa: possiamo ben capire che non si tratta solo del racconto della propria storia, ma è il raccontarsi, cosa che presuppone che dall’altra parte ci sia qualcuno che ci ascolta. La medicina che informa è un grande progresso, ma se prima di informare non c’è l’ascolto, siamo di fronte ad una cattiva medicina.
Siamo di fronte ad un approccio narrativo in cui i percorsi di cura diventano storie, oltre che valutazioni con dei criteri etici: ebbene ritengo che questa sia una dimensione che fa parte essenziale di questa nostra medicina moderna, che non svaluta la medicina basata sui fatti, sulle prove, sui numeri e sui farmaci. Possiamo dire che la medicina è fatta di due cose, di pillole e parole.
Vorrei aggiungere però una osservazione un po’ critica relativa alla immagine di Giano, che ci restituisce una polarità doppia che potrebbe essere fuorviante, perché le due teste si danno le spalle, guardando due direzioni opposte. Possiamo tenere l’immagine della polarità, ma dobbiamo fare lo sforzo intellettuale difficilissimo di far girare le due teste, in modo che non si ignorino, anzi si guardino. Credo che questa sia la sfida più grande.
Un’ultima domanda, legata ai percorsi formativi dedicati alle medical humanities: ha citato l’esperienza americana, ma Lei stesso ha insegnato ai giovani medici e ha organizzato con l’Istituto Giano una grande quantità di incontri, seminari, corsi di perfezionamento dedicati alle humanities. Oggi come vede la situazione sul fronte accademico, i percorsi universitari per i professionisti della salute dedicano abbastanza spazio alle medical humanities? E per quanto concerne la formazione executive, esistono percorsi tesi a valorizzare questo approccio?
Ritengo che vi siano molte buone pratiche in Italia, ma in generale si riscontra nella formazione dei medici e dei professionisti sanitari una penalizzazione delle scienze umane. A fronte di un ampio spazio dedicato al curricolo degli studi alle scienze biologiche e tutti i loro fondamenti (chimica, fisica, genetica…) è scarsa l’attenzione dedicata a quelle sociali, sia dal punto di vista descrittivo della realtà umana, sia prescrittivo dei comportamenti (penso a etica e diritto). Molti degli sforzi delle medical humanities sono rivolti a correggere a posteriori uno sguardo deformato da un riduzionismo indotto da una frequentazione praticamente unilaterale delle scienze biomediche durante il curricolo formativo.
La formazione ha dunque il compito di porre rimedio ad una de-formazione che interviene purtroppo precocemente. Sarebbe davvero urgente la necessità di equilibrare e integrare le due culture sia nei percorsi universitari che in quelli di formazione executive per una migliore presa di coscienza da parte della classe dirigente della sanità.
Sandro Spinsanti, laureato in teologia e in psicologia, ha insegnato etica medica presso la facoltà di medicina dell’Università Cattolica di Roma e bioetica all’Università di Firenze e il suo contribuito alla riflessione sulla nuova sanità si è espresso nella partecipazione a numerosissimi convegni, corsi di formazione e iniziative culturali. Ha fondato e diretto la rivista di Medical humanities L’Arco di Giano (1993-2000) e successivamente Janus, Medicina: cultura, culture (2001-2012). Ha pubblicato volumi, saggi e articoli divulgativi su periodici e riviste ed è possibile seguire le sue riflessioni sul sito www.sandrospinsanti.it, periodicamente aggiornato. È inoltre componente del Comitato Scientifico del Centro Studi Cura e Comunità per le Medical Humanities dell’Azienda Ospedaliera di Alessandria, promotore del festival Iconografia della Salute.