Partenariato pubblico privato (PPP): uno strumento poco usato soprattutto per gli acquisti in sanità. Perché? Per molti versi è visto solo come uno strumento di project financing, per altri si porta dietro un’ombra di corruzione di cui è difficile liberarsi nel nostro paese. E i pochi provveditori che ci provano sono visti come visionari e portati davanti a un giudice a spiegare perché hanno scelto di fare un PPP.
Se usato in modo corretto, in realtà il partenariato pubblico privato potrebbe stimolare il mercato a produrre innovazione e a rispondere in modo più efficace a bisogni sanitari. Potrebbe diventare un modello diffuso per gli acquisti in sanità, basato sulla condivisione di conoscenze e sulla collaborazione tra pubblico e privato. Ne abbiamo parlato in una Diretta Live dedicata, e oggi vi proponiamo una sintesi di quell’incontro, a cui hanno preso parte Veronica Vecchi (Associate Professor of Practice of Government, Health and Not for Profit, SDA Bocconi), Lucia Mollica (Direttore SC Provveditorato, ASL TO3) e Roberto Bonatti (Avvocato esperto in contratti pubblici e diritto della concorrenza, dello Studio Legale Russo Valentini di Bologna).
Solo una norma del codice dei contratti
In Italia il partenariato pubblico privato è stato da sempre concepito come una procedura del codice dei contratti (D.lgs. 50/2016) e questo non ha consentito di dare la giusta attenzione al PPP come forma contrattuale. “L’istituto giuridico della concessione – spiega la professoressa Vecchi – può rappresentare il riferimento per il partenariato pubblico privato perché, se andiamo a vedere la definizione che ci venne data dall’Unione europea, è una spiegazione molto ampia: si parla di un contratto di una certa durata con un significativo apporto di capitali privati e con una allocazione dei rischi all’operatore economico, che si attua attraverso un meccanismo legato alla performance. Ovviamente, nel momento in cui ci spostiamo sulla sanità, dobbiamo capire come applicare tutto questo”.
Il partenariato pubblico privato in sanità è stato applicato per i grandi investimenti di tipo immobiliare e ha consentito di rinnovare, in tempi rapidi, le infrastrutture sanitarie di alcune regioni, tra cui Veneto, Lombardia e Toscana.
Lo strumento è stato utilizzato soprattutto per l’edilizia sanitaria a partire dal 2002, in un contesto in cui né l’amministrazione pubblica né gli operatori economici erano ancora pronti.
“Il fatto che i codici dei contratti siano di matrice prevalentemente appaltistica – riprende Vecchi – non ha sicuramente aiutato a sfruttare al meglio le potenzialità del partenariato pubblico privato. Recentemente, il PPP è stato applicato alle tecnologie sanitarie. Ma è uno strumento che può anche andare oltre l’istituto della concessione e può rappresentare una nuova frontiera del procurement sanitario”.
In Italia, queste operazioni un po’ più innovative, applicate alle tecnologie sanitarie, sono state avviate con la procedura a iniziativa privata (l’articolo 183 comma 15 del Codice degli Appalti): “Credo che sia una modalità molto interessante – conclude Vecchi – soprattutto quando queste proposte di iniziativa privata sono sollecitate da parte delle aziende sanitarie, perché danno l’occasione di richiedere al mercato delle soluzioni e portano a confronti interessanti durante la valutazione delle proposte”.
Un quadro complesso anche a livello normativo
Codice dei contratti a parte, le norme sul PPP sono abbastanza frastagliate e manca una visione d’insieme sia a livello europeo sia a livello italiano.
Il quadro normativo esistente è incompleto e non disciplina tutte le forme di partenariato possibile. “L’Europa lascia gli stati membri liberi di decidere quanto spingere sul partenariato pubblico privato – spiega l’avvocato Bonatti – e ci sono ordinamenti che se ne avvalgono molto, mentre in altri, come quello italiano, ci sono più difficoltà a far attecchire questo tipo di procedure. Le leggi italiane sono poche, riconducibili all’istituto tradizionale della concessione di costruzione e gestione, che è sempre esistito nel nostro ordinamento e che, in tempi più recenti, è stato completato da un insieme di figure contrattuali differenti, ma pur sempre riconducibili ad una collaborazione tra il pubblico e privato”.
Ci sono poi le norme e la disciplina delle società miste, che hanno avuto un’evoluzione storica nel nostro ordinamento alla fine degli anni novanta e inizio anni duemila e che poi, per tutta una serie di ragioni, si sono perse per strada.
“Per dare un quadro normativo completo sul PPP – conclude Bonatti – è giusto citare non solo la norma del Codice dei Contratti che lo prevede, ma anche quelle forme di collaborazione tra pubblico e privato che sono previste specificamente nella materia sanitaria e, in particolare, le sperimentazioni gestionali dell’articolo 9-bis del decreto legislativo 502/92, cioè la legge di riforma del Servizio sanitario nazionale, che consentono non solo di utilizzare lo schema classico della concessione, prevalentemente orientato alla costruzione di opere sanitarie, ma anche di iniziare una sperimentazione nell’ambito dei servizi e di conseguenza delle forniture. Si possono quindi immaginare forme gestionali di erogazione del servizio sanitario nella collaborazione tra il pubblico e il privato”.
Proprio perché disciplinato in tanti modi diversi, il compito di chi decide di usare il PPP è anche quello di saper scegliere le modalità giuste. Il PPP deve essere “sartorializzato” secondo il caso specifico.
Il PPP deve essere “sartorializzato” secondo il caso specifico
“In sanità – riprende Vecchi, che è anche responsabile scientifico dell’Osservatorio sul Management degli Acquisti e dei contratti in Sanità (MASAN) della Bocconi – anche alla luce delle ingenti risorse finanziarie che arriveranno, dobbiamo utilizzare il partenariato pubblico privato soprattutto per introdurre innovazione e per generare un effetto leva. I capitali pubblici a disposizione sono tantissimi, soprattutto quelli che arriveranno dal programma europeo Next Generation, dobbiamo però riuscire a utilizzarli per generare un’addizionalità finanziaria, unendoli ai capitali privati, che oggi sono molto interessati a investire sulla sanità sia nel campo dell’edilizia, sia sulla parte tecnologica, ad esempio la telemedicina.”
In buona sostanza, il partenariato pubblico privato ci serve perché mette a sistema le competenze del privato e lo responsabilizza sugli obbiettivi da raggiungere.
In altri termini, la pubblica amministrazione dovrebbe abbandonare la logica del codice dei contratti e cercare di capire cosa serve davvero e, di conseguenza, come coinvolgere il privato per conseguire l’obiettivo. In tutto questo, il Codice degli Appalti aiuta a selezionare l’operatore economico.
Un esempio virtuoso
La Asl 3 di Torino è stata una delle poche realtà della sanità pubblica che ha scommesso sul Partenariato Pubblico Privato. Come racconta la stessa protagonista, Lucia Mollica, provveditore della Asl3 di Torino, l’impresa è stata tutt’altro che facile: “Il progetto è nato da una proposta di alcuni operatori economici che hanno identificato alcuni fabbisogni dell’Asl da poter offrire usando il partenariato pubblico privato. Hanno quindi proposto servizi in merito ai sistemi RIS PACS (Radiological Information System e Picture Archiving and Communication System) all’emodinamica, alla sterilizzazione e al servizio di tac e risonanza magnetica. La direzione ha accettato la proposta, tranne la sterilizzazione per cui si è deciso di usare l’appalto tradizionale”.
“Avevamo tre mesi per valutare la proposta del privato. E sono nate le prime criticità. In quel momento il prezzo dei device si stava abbassando e non eravamo in grado di definire, nell’ambito dei dieci anni in cui sarebbe durato il PPP, come avremmo potuto predeterminare un abbassamento coerente con le logiche del mercato. Per cui è stata eliminata tutta la parte di device dal PPP e sostituita, su richiesta della direzione, con la creazione della nuova radiologia all’ospedale di Pinerolo.
In ogni caso, questo progetto ha un aspetto innovativo sostanziale: i RIS PACS.
Siamo un’azienda che ha tre ospedali, sei presidi sanitari, 67 strutture sanitarie: la nostra ASL va dalla periferia di Torino fino a Sestriere e tutte le valli ad esso collegate, quindi questo servizio di imaging non riguardava esclusivamente un ospedale, ma tutti i centri che producono immagini e le trasmettono a 300 sedi in contemporanea.
Nonostante le gravi difficoltà abbiamo realizzato nei tempi il progetto. La mia esperienza è che il partenariato funziona se c’è una grande disponibilità anche da parte dell’amministrazione e di tutta la struttura sanitaria a perseguire l’obiettivo che si vuole raggiungere”. Ma non è stato tutto rose e fiori, anzi.
Una collaborazione non priva di rischi
A parte l’innovazione apportata da questo tipo di collaborazione, occorre considerare tutta la questione relativa ai rischi, che sono a carico del destinatario.
“Nel corso della realizzazione di questo progetto – riprende Mollica – abbiamo riscontrato dell’amianto. Un fatto del genere comporta un ritardo enorme nella realizzazione dell’opera e quindi abbiamo collaborato affinché, mentre si portavano avanti tutte le operazioni necessarie alla bonifica dell’amianto, si accelerassero, dove possibile, le attività edilizie. Stiamo parlando di attività da portare avanti con l’ospedale funzionante, quindi con una serie di problematiche da risolvere non indifferenti”.
La valutazione del rischio pare essere la questione centrale per la fattibilità e il successo del PPP.
Ed è un’analisi che viene fatta in modo diverso dal pubblico e dal privato. Per il pubblico il rischio è legato alle modifiche e agli imprevisti che ci possono essere e al mantenere stabile il rischio per tutta la durata del contratto. Dall’altro lato, per il privato il rischio da evitare è che i processi decisionali amministrativi dell’ente pubblico si ripercuotano sulle attività imprenditoriali.
La valutazione del rischio è centrale per la fattibilità e il successo del PPP
Il partenariato pubblico privato deve essere in grado di risolvere queste criticità: nella fase di predisposizione degli atti bisogna essere bravi a prevedere il più possibile, ma allo stesso tempo bisogna lasciarsi un margine di flessibilità contrattuale, negoziale, per poter aggiustare l’evoluzione della situazione per tutta la durata del contratto.
“Finché il pubblico continua a ragionare in un’ottica puramente di responsabilità erariale e di allocazione delle competenze strettamente burocratiche – afferma l’avvocato Bonatti – il PPP difficilmente decollerà. Se, al contrario, il pubblico iniziasse a ragionare in termini manageriali, tale approccio potrebbe generare innovazione. Ma questa visione manageriale deve essere supportata anche dall’amministrazione regionale e condivisa con tutti gli operatori del servizio sanitario regionale, perché solo con la collaborazione di tutta la parte pubblica è possibile mettere in piedi un progetto di collaborazione efficace, che non sia solo finalizzato alla costruzione e alla gestione di un’opera”.
Se si volesse davvero generare innovazione e fare da volano per tutta una serie di altre attività utili per la sanità, questa forma di collaborazione dovrebbe essere utilizzata anche per la gestione integrata di una parte dei servizi che normalmente sono erogati solo dalle strutture pubbliche.
Per la dottoressa Mollica, il periodo pandemico ha messo ancora più in luce il concetto di rischio in un PPP: “Uno dei servizi di risonanza, per esempio, ha avuto un forte rallentamento a causa della pandemia da Covid che ha imposto il cambiamento degli accessi a diverse zone dell’ospedale, incluse alcune aree dedicate alla risonanza. Non potevamo togliere i servizi ai pazienti e siamo dovuti intervenire, ma lo abbiamo fatto anche perché il privato ha dato un valore a questa attività, che si basa sugli accessi alla risonanza. Dobbiamo renderci conto di che cosa vuol dire per loro il rischio di domanda, però non siamo noi che dobbiamo ridurre la domanda chiudendo i reparti o dedicandoli ad altro. Bisogna abbracciare una nuova visione di contratto che consideri tutto il periodo in cui il contratto è in vigore”.
E Mollica si considera a pieno titolo un provveditore visionario, nel senso statunitense del termine, non quello italiano, che minimizza i visionari.
Per il provveditore il nodo non deve essere la procedura ma il contenuto dei contratti
“La procedura è l’ultimo problema al mondo per un provveditore, il nodo è il contenuto dei contratti, su questo ho dovuto lavorare molto, sperimentando miei limiti e anche dei miei collaboratori. Un aspetto su tutti ha pesato in modo considerevole: quando abbiamo realizzato questo PPP siamo stati assaliti dai media come se avessimo svenduto l’azienda a un privato. In Italia probabilmente si sconta un po’ questo problema culturale, non soltanto nell’ambito sanitario. Il pubblico è accusato di corruzione e il privato di corrompere. Noi siamo dovuti andare davanti al giudice per spiegare il perché della scelta di questa forma contrattuale. Non è stato facile”.
L’ombra della corruzione
Secondo le indagini svolte da ANAC, le procedure di gara in sanità che sono state interessate da situazioni di corruzione sono meno dello 0,5%. Quindi, come si giustifica questa ombra di corruzione quando, a conti fatti, i numeri di casi in sanità sono irrisori?
Cultura. Stereotipi. Idee sbagliate scolpite nella pietra, difficili da cancellare, anche se esistono esempi virtuosi, come quelli della Asl3 di Torino.
Secondo ANAC, sono meno dello 0,5% le procedure di gara in sanità gravate da corruzione
“Immaginare che non ci possa essere una collaborazione tra pubblico e privato o che il pubblico funzionario non possa parlare con rappresentanti dell’industria, fuori da ogni contesto di gare o di progetti, semplicemente per conoscersi, è francamente eccessivo – ribatte l’avvocato Bonatti – perché in realtà non esiste nessuna norma che vieti ad un pubblico funzionario di incontrare e ricevere i rappresentanti dell’impresa per parlare di questi progetti e idee e per condividerle lato pubblico. In questo senso, io rilevo due aspetti che dal punto di vista culturale potrebbero aiutare: il primo è il dibattito che si sta creando proprio in questi giorni sulla modifica del codice degli appalti in senso più permissivo, più liberale sotto certi aspetti rispetto ai molti vincoli e alle numerose procedure esistenti. L’altro, inaspettatamente, viene proprio da ANAC, la quale in una delibera dello scorso marzo, sottolineava due aspetti che normalmente dal lato pubblico non vengono mai considerati: l’importanza della comunicazione e della trasparenza pubblica e l’esigenza, in tutti i contratti di partenariato pubblico privato, della buona fede contrattuale”.
Il problema della visione tradizionale degli appalti è che la si vede soltanto dal lato della gara e quando finisce la gara è finito tutto. Invece è lì che inizia il contratto, è lì che va gestito, insieme agli imprevisti. È quello il momento in cui le parti devono iniziare a dialogare in buona fede per risolvere gli inconvenienti che man mano si pongono nell’esecuzione del lavoro. È la fase dell’esecuzione quella che conta di più, non la fase della procedura di gara.
Un problema di competenze
Uno degli ostacoli maggiori all’utilizzo efficace di uno strumento come il PPP è la mancanza di competenze: “Dalle analisi fatte nel nostro osservatorio MASAN – riprende Vecchi – abbiamo intuito che il problema non risiede nel codice dei contratti, ma nella carenza di capacità, sia nella pubblica amministrazione sia nel mercato. Con le risorse ingenti che sono state stanziate, anche recentemente, la pubblica amministrazione potrebbe assumere figure altamente specializzate e investire in formazione”.
Un altro ostacolo è dato dalla sfiducia: “Purtroppo il partenariato pubblico privato – riprende l’esperta della Bocconi – è stato utilizzato in sanità soprattutto per l’edilizia sanitaria, con una visione molto ‘appaltistica’ e quindi questo ha portato alla generazione di contratti non ottimali, che hanno portato anche alla risoluzione degli stessi. Queste sono operazioni che richiedono diverse competenze e molta sartorializzazione. Abbiamo parlato di contratto standard che è sicuramente un punto di riferimento, ma non è risolutivo se non ci sono delle competenze che sono in grado di applicare il contratto caso per caso. Il mercato può offrire soluzioni interessanti se adeguatamente stimolato, quindi la pubblica amministrazione deve essere in grado di esercitare una committenza attiva”.
Come per tutti i cambiamenti, occorre fare piccoli passi alla volta, iniziando con piccoli contratti di qualche anno (per le tecnologie sanitarie si sta sui dieci anni) e da lì cercare di fare dei passi in avanti, migliorando di volta in volta.
Le competenze servono non solo per sartorializzare i contratti, ma anche per valutare il valore e l’efficienza di un progetto.
“Oggi – conclude Vecchi – con il partenariato pubblico privato possiamo raggiungere il go big, cioè generare valore, perché diciamo all’operatore economico ‘Portami verso questo obiettivo strategico e se non mi ci porti, io non ti pagherò o ti pagherò solamente in parte’. Da questo punto di vista abbiamo bisogno di adottare delle metodologie ad hoc, per misurare obbiettivi e valori raggiunti. Gli strumenti ci sono, non è un tema di corruzione, e la paura delle varie istituzioni la possiamo superare solamente con un investimento in competenza, sia da parte del pubblico sia da parte del privato”.
In questo senso un ruolo importante potrebbe essere svolto dalle Centrali di committenza regionale, supportando le aziende sanitarie ma soprattutto compiendo un’azione di capacity building, perché la centrale di committenza non serve solo per risparmiare, ma anche per generare valore attraverso l’impiego di figure competenti e acquisti più sofisticati.