Il Piano Nazionale Demenze (PND), approvato il 30 ottobre 2014, è stato elaborato dal Ministero della Salute in collaborazione con le Regioni, l’Istituto Superiore di Sanità e le Associazioni Nazionali dei pazienti e dei familiari. Si tratta di un importante documento di sanità pubblica che fornisce indicazioni strategiche per il miglioramento degli interventi nell’ambito delle demenze.
Tra gli obiettivi del Piano rientra anche la creazione di un’adeguata rete di servizi dedicata ai casi di demenza. Per questo, nel 2017, il Ministero della Salute ha approvato le Linee di indirizzo Nazionali sui Percorsi Diagnostico Terapeutici Assistenziali (PDTA) per le Demenze che forniscono indicazioni efficaci per potenziare gli interventi in ambito medico-sanitario e sociale nella gestione delle demenze. Nello specifico, questo documento propone una definizione condivisa, teorica e operativa, dei PDTA e indica gli elementi per costruire tali percorsi destinati alla persona con demenza e alla sua famiglia, nell’ottica di fornire un supporto a chi è delegato alla progettazione e attuazione dei PDTA a livello regionale e locale, anche per “livellare” la forte eterogeneità e disomogeneità nei diversi territori.
Per comprendere “lo stato dell’arte” ci rivolgiamo al Professor Camillo Marra, Responsabile UOSD Clinica della Memoria della Fondazione Policlinico Agostino Gemelli – IRCCS presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma e Presidente della SINdem, Associazione autonoma aderente alla SIN per le demenze.
Professor Marra, ci presenta innanzitutto il Piano Nazionale Demenze e ci spiega che cosa comporta?
“Il Piano Nazionale Demenze è un documento di indirizzo, non definisce percorsi o piani di intervento. Descrive i requisiti, gli organismi, le caratteristiche e le qualità che dovrebbero essere rappresentati nei percorsi diagnostico-assistenziali per le demenze. Percorsi che poi, ogni Regione, dovrà definire. Sono, quindi, delle linee di indirizzo, che non hanno una validità pratica ma indicano gli obiettivi che si dovrebbero raggiungere per un ottimale sviluppo dei servizi e della presa in carico della patologia demenziale. In particolare, hanno permesso di costruire il modello di riferimento attorno al quale è stato scritto il PDTA nazionale per le demenze, ovvero il documento che descrive i requisiti che dovrebbero caratterizzare il percorso diagnostico-assistenziale del soggetto con demenza, anche a livello regionale.
In questo momento i PTDA regionali sono stati redatti soltanto da alcune Regioni
In questo momento i PTDA regionali sono stati redatti soltanto da alcune Regioni, come Veneto ed Emilia Romagna. Dovrebbe essere pronto a breve anche quello per il Piemonte. Per la Regione Lazio, invece, è stato recentemente stilato da un tavolo regionale, formato dall’Assessorato alla sanità e dall’Istituto Superiore di Sanità, e presentato l’8 febbraio 2023. Si è indicato quello che la Regione prevede debba essere l’organizzazione dei servizi per le demenze, dalla diagnostica più precoce, alla presa in carico del paziente nella fase terminale.
Può sembrare che di concreto non ci sia nulla, invece, c’è tanto. In questo momento nel Lazio abbiamo, ad esempio, 35 CDCD (Centro per i Disturbi Cognitivi e le Demenze), strutture RSA e Centri diurni e centrali di continuità assistenziale per la cronicità. L’obiettivo è rendere organica la presenza di queste strutture sul territorio, creare un flusso di pazienti e una modalità di accesso alle cure che accompagnino il paziente in tutto il suo percorso, evitando che questi centri, che lavorano in fasi diverse della malattia, siano completamente scollegati. Lo scopo è quindi creare un nuovo e più efficace percorso assistenziale. Ovviamente è un processo “a cascata”.
Adesso esiste un PTDA regionale che descrive come deve essere la linea di percorso per un paziente che arriva con un sospetto di demenza, che necessita quindi di accertamenti, al quale saranno prescritte le cure, in cui si prevede anche la somministrazione di terapie innovative, quando usciranno nuovi farmaci. Poi si prevede il passaggio ai centri diurni, alle RSA, l’intervento delle associazioni dei familiari, le case della salute, l’intervento di tutti quegli attori che entrano in gioco nel percorso dopo la fase diagnostico-terapeutica, quando il paziente comincia ad avere una certa cronicità.
Che cosa occorre fare a questo punto? Deve essere recepito il PDTA della Regione all’interno dei singoli distretti e delle singole aziende, perché sono questi ultimi che dovranno farsi carico di creare nel loro territorio una serie di punti di riferimento e di percorsi in cui il paziente sappia dove andare con l’avanzare della malattia. Ma anche l’operatore sanitario dovrà sapere dove inviare il paziente per i percorsi che riguardano, ad esempio, le cure palliative o altri aspetti che caratterizzano la fase più avanzata della malattia. È quindi, come dicevo, un percorso a cascata.
Redigere il Piano Nazionale Demenze e il PDTA è stato molto importante, perché sarà su quei documenti che le varie Regioni disegneranno i loro PTDA regionali, anche se poi saranno i direttori regionali di distretto che dovranno recepire nel concreto e implementare il piano nel loro territorio.
Le Regioni che si stanno muovendo obiettivamente sono ancora poche. Questa lentezza, secondo lei, a cosa è dovuta?
Solo nel 2021 è stato per la prima volta sovvenzionato con un finanziamento ad hoc da parte del Ministero
Molto è legato alle amministrazioni locali e alla mancanza di fondi. Il Piano Nazionale Demenze è stato pubblicato ormai quasi 10 anni fa ed è rimasto una scatola vuota a lungo, lontana da una piena applicazione. Solo nel 2021 è stato per la prima volta sovvenzionato con un finanziamento ad hoc da parte del Ministero: 15 milioni di euro per tre anni e sarà rifinanziato. I fondi quindi ci sono, ma sono limitati. 5 milioni annui per tutta Italia sono veramente pochi per costruire sia i percorsi assistenziali locali, sia per coprire le carenze di organico nelle varie strutture e nelle varie Regioni. Quello che si è fatto è cercare di coprire le fasi iniziali diagnostiche, quindi, ad esempio, la mancanza nei CDCD della figura del neuropsicologo, necessaria nella fase iniziale del percorso diagnostico. Proprio grazie al finanziamento del Piano Nazionale Demenze sono stati assunti in Italia circa 100 neuropsicologi. Una goccia nel mare, ma che vanno a coprire dei vuoti in alcuni distretti in cui mancava questa figura che serve come punto di partenza per avviare il percorso diagnostico.
Ora abbiamo il finanziamento e si spera che il PND cominci a camminare sulle sue gambe e che le Regioni inizino a recepirlo.
Che tipo di visione strategica e a lungo termine promuove il PND per la presa in carico delle persone con demenza? È coerente anche con i bisogni delle famiglie e dei caregiver? C’è una visione complessiva?
Sì, il PND ha varie caratteristiche e finalità, stabilisce obiettivi di formazione, di aiuto ai pazienti e ai caregiver, di diagnostica in fase precoce, di aumentare la sensibilizzazione, ecc. Sono tanti i punti del Piano che lo rendono un progetto piuttosto attuale, anche se è in corso un’attività di revisione al Tavolo Nazionale, che forse vedrà la luce alla fine del 2023. A cosa serve? Ad accogliere gli aggiornamenti, lo sviluppo di nuove tecniche di diagnostica molecolare avanzata, i biomarkers, a includere le nuove terapie e gli aspetti della prevenzione in maniera un po’ più consistente.
Per lei che è in prima linea nella gestione clinica delle demenze, si poteva fare qualcosa in più?
Il PND è una carta di intenti, che poi deve essere recepita dalle Regioni
Il PND è tutto sommato molto innovativo, moderno, scritto bene e introduce molti aspetti importanti. Ripeto, è una carta di intenti, che poi deve essere recepita dalle Regioni. Probabilmente è stata tenuta un po’ a margine la promozione dell’attività di ricerca, che guarda alle nuove terapie innovative. Resta comunque un piano moderno, va solo “aggiustato”.
Forse mancano le attività che permettono la concreta attuazione del piano. Il tavolo ha lavorato molto bene, ha prodotto molti documenti utili: il PDTA, il documento sui servizi informatici per la gestione del paziente in rete, come deve essere comunicata una diagnosi di demenza al paziente e al caregiver, ecc. Quindi, sono stati redatti degli ottimi documenti; però molto resta da fare, affinché questo piano diventi realtà o che tutti gli obiettivi si realizzino. Un po’ come la nostra costituzione. Quanti dei suoi articoli sono stati pienamente realizzati? Non molti. Il problema è sempre quello delle risorse. Se sono limitate si devono fare delle scelte. Per le demenze, affinché tutto funzioni come si deve, sono i mezzi economici che servono. Il PND è sicuramente qualcosa da cui iniziare.
Nel 2001, con l’arrivo dei primi farmaci per la demenza, nacquero i centri che dovevano valutarne l’efficacia terapeutica (centri Kronos). I 490 centri Kronos che furono costruiti a suo tempo, sono cresciuti, si sono sviluppati, alcuni sono spariti. Ora sono gli attuali CDCD specializzati nelle demenze. Quindi, quello che abbiamo attualmente si è costruito sulle ceneri di quel progetto, nato su una base spontanea, grazie a una speciale attenzione culturale che il nostro Paese ha sempre avuto verso gli anziani.
Se non si assegnano risorse al settore delle demenze (ed è comunque la prima volta che si sono messi in campo 15 milioni di euro per 3 anni), si continuerà a svolgere attività di servizio con quello che è stato costruito nel corso degli ultimi 20 anni. Tuttavia, con l’arrivo dei nuovi farmaci il cambio di passo diventerà necessario e il lavoro che si sta facendo è in quella direzione.