Sono dati che arrivano dai programmi di Sorveglianza Nazionale dell’antibiotico-resistenza (AR-ISS) e Sorveglianza delle batteremie da enterobatteri resistenti ai carbapenemi (CRE), coordinati dall’Istituto Superiore di Sanità. È un triste primato, nell’ambito dei Paesi UE, quello della mortalità per antibiotico-resistenza.
Gli ultimi dati disponibili mostrano, infatti, che i livelli di antibiotico-resistenza e di multi-resistenza dei ceppi batterici sotto sorveglianza sono ancora troppo alti, nonostante gli sforzi messi in campo per promuovere un uso appropriato degli antibiotici e gli interventi per il controllo delle infezioni nelle strutture di assistenza sanitaria.
I livelli di antibiotico-resistenza e di multi-resistenza dei ceppi batterici sotto sorveglianza sono ancora troppo alti
Si inserisce in questo scenario il Piano Nazionale di Contrasto dell’Antibiotico-Resistenza (PNCAR) 2022-2025, un documento strategico importante per migliorare e rendere più incisive le attività di contrasto del fenomeno a livello nazionale, regionale e locale e per fornire le linee strategiche e le indicazioni operative per affrontare l’emergenza dell’antibiotico-resistenza nei prossimi anni, seguendo un approccio multidisciplinare e una visione One Health.
Il Piano si articola in cinque aree trasversali di intervento:
- Governance
- Formazione
- Informazione, comunicazione e trasparenza
- Ricerca, innovazione e bioetica
- Cooperazione nazionale e internazionale
I tre pilastri tematici sono invece dedicati alla prevenzione e al controllo dell’antibiotico-resistenza nel settore umano, animale e ambientale:
- Sorveglianza e monitoraggio integrato dell’antibiotico-resistenza (ABR), dell’utilizzo di antibiotici, delle infezioni correlate all’assistenza (ICA) e monitoraggio ambientale.
- Prevenzione delle ICA in ambito ospedaliero e comunitario e delle malattie infettive e zoonosi.
- Uso appropriato degli antibiotici sia in ambito umano, sia veterinario e corretta gestione e smaltimento degli antibiotici e dei materiali contaminati.
Parliamo di antibiotico-resistenza (AR) con il Dottor Fortunato Paolo D’Ancona, primo ricercatore medico dell’Istituto Superiore di Sanità, Dipartimento di malattie infettive, reparto di epidemiologia, biostatistica e modelli matematici (EPI).
Cos’è esattamente l’Antibiotico Resistenza (AR) e il meccanismo attraverso il quale alcuni ceppi batterici “resistono” agli antibiotici?
Di fatto l’AR non è una malattia ma un fallimento terapeutico, quindi l’antibiotico che utilizziamo per bloccare l’infezione batterica perde di efficacia per capacità acquisite dai batteri stessi. Non esiste un solo meccanismo, sono molteplici, proprio perché ogni antibiotico ha sue caratteristiche. I batteri poco alla volta si selezionano, sopravvivono quelli che hanno la capacità di disattivare un particolare antibiotico.
È una capacità naturale dei batteri o si acquisisce con un’evoluzione?
È naturale per alcuni, ma per lo più è acquisita. In genere, più che di un’evoluzione, si tratta di una selezione. Tra i tanti cambiamenti dei batteri, come i virus con le varianti, come abbiamo imparato con il Covid-19, a un certo punto, sotto la pressione selettiva, quelli che sopravvivono sono quelli in grado di disattivare l’antibiotico o di renderlo inefficace. Esistono anche meccanismi di trasmissione di resistenza tra batteri attraverso piccoli filamenti di genoma chiamati plasmidi.
Perché proprio l’Italia detiene il primato dei decessi per AR? E com’è la situazione nel resto dell’Europa?
Intanto non è un primato assoluto. Diciamo che siamo tra i Paesi che subiscono un impatto maggiore dell’AR. Questo perché siamo, rispetto agli altri Paesi, una nazione piuttosto estesa, con quasi 60 milioni di abitanti, quindi siamo in tanti. In più, abbiamo un’alta percentuale di batteri resistenti, molte infezioni trasmesse negli ambienti assistenziali e una popolazione particolarmente anziana. Mettendo insieme questi tre fattori, siamo uno dei Paesi che, purtroppo, ha i numeri più alti di decessi per AR. Quindi, le circa 11.000 persone l’anno che si stima muoiano per AR è la conseguenza di questi tre fattori.
Anche perché usiamo troppo gli antibiotici?
Noi abbiamo un’alta percentuale di batteri resistenti per diversi motivi. Per prima cosa, un uso non appropriato degli antibiotici, li usiamo troppo, spesso senza la prescrizione del medico, oppure il medico li prescrive perché alcune persone lo chiedono insistentemente. Poi c’è la diffusione, poiché spesso l’AR è associata alle infezioni correlate all’assistenza. Che cosa succede? Se in certi ospedali o nelle RSA c’è una più alta percentuale di batteri resistenti, se non si isolano i casi singoli o se comunque non si blocca la trasmissione con le adeguate misure, c’è il rischio che si creino focolai epidemici, quindi una grande diffusione di questi batteri. Tale diffusione ovviamente aumenta il numero dei batteri resistenti e dei decessi.
L’impatto maggiore è nelle persone più fragili, come gli anziani o chi presenta malattie concomitanti
L’impatto maggiore è nelle persone più fragili, come gli anziani o chi presenta malattie concomitanti. Non è che improvvisamente tutti gli antibiotici non funzionano, ma è un fenomeno progressivo: usando una metafora, trattare i pazienti con batteri diventa sempre più difficile ed è come pedalare in salita e non si vede ancora all’orizzonte un po’ di pianura.
Un’altra problematica sono i costi, perché si allungano i ricoveri e i trattamenti. L’Italia, secondo le stime dell’OCSE, è uno dei Paesi europei che presenta i costi più alti dovuti all’antibiotico-resistenza. È come se questo fenomeno ci costasse quasi 5 euro a persona, mentre in Paesi come Norvegia o Danimarca siamo al di sotto dell’euro a persona. Sono costi aggiuntivi, perché si allungano i tempi di degenza, le persone operate talvolta devono essere rioperate, perché si possono infettare le ferite chirurgiche o le protesi impiantate. La chirurgia invasiva è quella a più alto rischio di infezioni correlate all’assistenza. AR e infezioni legate all’assistenza, infatti, sono spesso associate.
C’è anche il forte impatto psicologico sul paziente che non solo resta in ospedale per più tempo, ma può essere messo in isolamento.
Lo confermo, ci sono degli studi che mostrano che questo fenomeno colpisce soprattutto nell’ambito della chirurgia. Facciamo un esempio, una persona è operata, sembra che sia andato tutto bene dal punto di vista chirurgico, ma dopo un certo numero di giorni comincia la febbre. Quindi, indipendentemente dall’isolamento che potrebbe essere necessario se l’infezione è causata da certi batteri, c’è la percezione del fallimento dell’intervento, perché di fatto questa infezione è una complicanza post-operatoria: è andato tutto bene, ma la ferita si è infettata. Spesso c’è un impatto non solo sul paziente ma anche sui familiari.
Poi c’è anche l’aspetto legato all’isolamento. Quando ci sono pazienti ricoverati in ospedale con alcuni patogeni come Pseudomonas aeruginosa sono sistemati in camere separate, con un cartello fuori che fornisce indicazioni precise ai sanitari e ai familiari e con un tipo di assistenza diversa e maggiori precauzioni per le infezioni a trasmissione da contatto. Per alcuni patogeni, come Klebsiella pneumoniae, inoltre, alcune persone possono essere portatrici del batterio; anche se stanno bene, sono una potenziale fonte di contagio per altri. Tanto è vero che si eseguono all’interno degli ospedali, per pazienti da ricoverare in unità particolari come la terapia intensiva, dei tamponi per identificare i portatori e prendere le adeguate precauzioni per evitare che trasmettano l‘infezione ad altri ricoverati.
Un paziente spaventato, magari in isolamento, vedrà la guarigione come un traguardo lontano con tutto il disagio psicologico che comporta
Uno studio sulle ISC (Infezioni da Sito Chirurgico) e sull’impatto negativo sul paziente, anche dal punto di vista della salute mentale, a causa del dolore e dell’ansia, ha arruolato 760 pazienti da 21 centri del Regno Unito. Misurando la qualità della vita correlata alla salute, ha rilevato una riduzione dell’11% a 30 giorni nei pazienti con ISC. Quest’ultimi hanno, inoltre, sperimentato un notevole aumento del dolore attribuito all’infezione, che ha portato a un deterioramento del loro benessere, tra cui insicurezza e depressione. Hanno anche manifestato un senso di disagio nell’osservare le proprie cicatrici, per una mancanza di familiarità con l’aspetto di una tipica ferita in via di guarigione. Infine, hanno espresso un senso di angoscia e stati depressivi che hanno portato all’isolamento sociale, associando sentimenti di paura e ansia ai segni e ai sintomi della ISC. Vi è anche un effetto sulla vita quotidiana dei pazienti, con ripercussioni sulla loro rete sociale e sulle relazioni familiari.
Qual è il ruolo dei medici di base? C’è scarsa informazione o poca consapevolezza dei rischi?
Partiamo da un presupposto diverso. È necessario accrescere la consapevolezza dei medici verso la drammaticità del fenomeno dell’AR, ma anche fornire gli strumenti corretti per la giusta terapia. L’AIFA ha pubblicato un manuale che aiuta nella scelta corretta dell’antibiotico per le situazioni più frequenti, basato sul manuale dell’OMS chiamato AWaRE.
Si tratta di una classificazione degli antibiotici, introdotta nel 2017 e che divide questo tipo di farmaco in tre gruppi:
- Access: antibiotici che hanno uno spettro di attività ristretto e un buon profilo di sicurezza in termini di reazioni avverse, da usare preferibilmente nella maggior parte delle infezioni più frequenti quali ad esempio le infezioni delle vie aeree superiori;
- Watch: antibiotici a spettro d’azione più ampio, raccomandati come opzioni di prima scelta solo per particolari condizioni cliniche;
- Reserve: antibiotici da riservare al trattamento delle infezioni da germi multiresistenti.
In questo modo si cerca di fornire un’indicazione corretta per il trattamento e supportare il medico nella scelta terapeutica. È un grande passo avanti per aumentare la disponibilità di indicazioni per la cura corretta e, soprattutto, in lingua italiana. Questo è un aspetto da non sottovalutare, poiché riferendosi a linee guida americane, ad esempio, alcuni medici potrebbero avere delle difficoltà a leggerle.
Molte persone spesso si auto-medicano ricorrendo agli antibiotici. Manca un’adeguata informazione sull’AR che consenta una maggiore cognizione del rischio?
Più dell’80% degli antibiotici, secondo l’AIFA, sono usati in comunità. L’uso in ospedale è già meno del 20%, quindi gli sforzi per ottimizzare la prescrizione antibiotica vanno concentrati nell’assistenza sanitaria al di fuori degli ospedali, è lì che si consumano troppi antibiotici. È importante quindi ridurre il numero di antibiotici utilizzati. Poi, di fronte a una malattia virale, non prescrivere subito l’antibiotico ma cercare di capire se si tratta di influenza o di Covid-19 e se non ci sono segni particolari di infezione batterica non prescriverli affatto. L’antibiotico deve essere quello giusto al momento giusto.
Quali attività di contrasto sono previste nel Piano Nazionale di Contrasto dell’Antibiotico-Resistenza?
Il PNCAR è un piano di tipo globale, mette insieme l’area umana, veterinaria e ambientale. Uno strumento multidisciplinare in cui diverse figure professionali stanno dando il loro contributo. I pilastri portanti sono tre.
Il primo è la sorveglianza, capire il numero delle infezioni, come sono usati gli antibiotici, quanti ce ne sono nell’ambiente, ecc. Secondo pilastro, prevenire le infezioni, perché meno infezioni ci sono, meno antibiotici servono. Faccio un esempio: si parla spesso di vaccinazione antinfluenzale, non solo perché l’influenza può essere una malattia grave nell’anziano, ma perché una persona meno si ammala e meno c’è il rischio che assuma inutilmente antibiotici. Quindi, anche la vaccinazione è uno strumento di prevenzione dell’AR. Poi ci sono le misure da prendere in ospedale per evitare che certe infezioni si trasmettano. Infine, il terzo grande pilastro per il buon uso degli antibiotici, sia in ambito umano, sia veterinario.
Tra le misure del Piano Nazionale di Contrasto dell’Antibiotico-Resistenza c’è anche la formazione e l’incremento delle linee guida per il trattamento
Non mancano strumenti come la formazione, l’informazione e la comunicazione alla popolazione, che va informata sull’uso spesso inutile degli antibiotici, che vanno prescritti solo se necessari, e invitata a vaccinarsi. Ma anche la redazione di documenti tecnici che aiutino i medici sia nella prevenzione, sia nel buon uso degli antibiotici. In alcune patologie, infatti, è bene non prescrivere antibiotici senza fare prima i test di coltura. Ad esempio, nei Paesi del Nord Europa, prima di somministrare gli antibiotici ci vuole la prova che ci sia davvero un’infezione batterica in atto, tranne ovviamente nei casi più severi.
L’obiettivo resta quello di aumentare la comunicazione e la consapevolezza del cittadino del comportamento corretto anche, ad esempio, in corrispondenza delle campagne vaccinali e nel periodo invernale.
Aggiungo però che rispetto ad alcuni anni fa, è aumentata la cognizione del problema. Il Covid-19 poi ha rallentato parecchio l’implementazione del piano, ma ora dovremmo riuscire a raggiungere molti più obiettivi concreti in questa lotta.