La pandemia di Covid-19 ha messo in evidenza la necessità di nuovi modelli di presa in carico del paziente a livello territoriale, soprattutto per la gestione dei pazienti cronici e fragili. Il tema è molto discusso: recentemente anche la 12° Commissione permanente del Senato (Igiene e Sanità) ha indetto una serie di audizioni proprio su “Potenziamento e riqualificazione della medicina territoriale nell’epoca post-Covid” e la medicina del territorio rappresenta una delle priorità per l’implementazione del piano di utilizzo del Recovery Fund. Anche il sistema di distribuzione dei farmaci sul territorio ha visto importanti cambiamenti nell’ultimo anno, con lo sviluppo di nuove iniziative di consegna dei medicinali a domicilio e l’incremento del ricorso alla distribuzione per conto.
Prossimità e riorganizzazione sono tra le parole chiave che tutti condividono, ma la loro applicazione in pratica suscita diverse interpretazioni.
Abbiamo qui raccolto alcune riflessioni da diversi punti di vista, interpellando Federico Spandonaro (Presidente CREA SANITÀ), Filippo Anelli (Presidente FNOMCeO) e Barbara Mangiacavalli (Presidente FNOPI).
Intervista a Federico Spandonaro
Presidente Centro per la Ricerca Economica Applicata in Sanità (CREA Sanità)
Quali riflessioni possiamo trarre dall’emergenza pandemica sui modelli regionali di medicina territoriale?
Ad oggi, la nostra valutazione deve essere molto prudente: la storia della pandemia di Covid-19 in Italia è caratterizzata da ondate diverse con impatto diverso nelle varie Regioni. Se, da una prima analisi, sembrava emergere che il modello lombardo di presa in carico del paziente cronico non avesse fatto registrare dei buoni risultati, ad esempio rispetto al Veneto, che aveva già una storia di integrazione tra sociale e sanitario, analizzando successivamente i dati della seconda ondata le valutazioni possono apparire diverse.
Al momento non disponiamo ancora di dati che ci consentano di affermare chiaramente quale modello di presa in carico a livello regionale o territoriale abbia funzionato meglio: quasi tutti i modelli hanno segnato il passo e dimostrato elementi di debolezza. In generale, dobbiamo riconoscere che manca in Italia un modello forte di presa in carico del paziente e, pur essendoci alcune realtà, come l’Emilia Romagna o il Veneto, dove il sistema funziona meglio, la gestione del territorio non ha ancora trovato una soluzione adeguata.
Di quali innovazioni ha bisogno la medicina territoriale per essere più vicina ai pazienti e garantire meglio l’assistenza e l’appropriatezza?
Nella bozza di Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), una delle due componenti è proprio centrata sul territorio. La strategia che mi pare stia maturando è quella di riproporre il concetto di Casa della Comunità che, seppur con caratteristiche diverse, richiama la Casa della Salute e ne ricorda la funzione di struttura intermedia rispetto all’ospedale. Che queste strutture servano non ci sono probabilmente molti dubbi, ma personalmente nutro qualche perplessità sull’idea di fondo, e cioè che siano necessarie sul territorio delle strutture intermedie che possano operare come una sorta di “filtro” per intercettare il paziente con un bisogno sanitario non grave ed evitare l’accesso all’ospedale. A mio parere questo atteggiamento è “antistorico” nel senso che il punto di riferimento della medicina è oggi la medicina fortemente specialistica, che si realizza all’interno degli ospedali. Considerando le attività degli ospedali si scopre che i ricoveri sono circa il 30% in meno rispetto a 10 anni fa, pertanto una parte assolutamente rilevante delle attività ospedaliere si concentra ormai sulle attività specialistiche ambulatoriali.
Forse dobbiamo ripensare la nostra idea di territorio: non può essere il territorio che ha l’obiettivo di “escludere” il ricorso all’ospedale, ma è l’ospedale che deve prolungarsi nel territorio. Pur nelle diverse realtà, il modello è sempre lo stesso: quando il paziente ha un problema di salute prima si reca alla Casa della Salute e poi, se e solo quando si aggrava, va in ospedale. A mio parere, il paziente si sentirebbe maggiormente assistito nel suo percorso terapeutico se sapesse che chi lo prende in carico in prima battuta dispone di un collegamento strutturato e strutturale con l’organizzazione specialistica che lo prenderà eventualmente in carico per gli accertamenti di secondo livello. Come succedeva anni fa, con il medico condotto che, a volte, era in qualche modo affiliato a una struttura ospedaliera.
In questo senso, la vera esigenza di digitalizzazione in sanità riguarda il paziente cronico e potrebbe fornire un’ulteriore soluzione per ripensare il rapporto con gli ospedali: ad esempio, se il medico di base potesse effettuare un teleconsulto con uno specialista alla presenza del paziente, questo sarebbe sicuramente meno propenso a recarsi in presenza dallo specialista in ospedale.
Servono strutture diverse (e quali) o ruoli diversi per i medici e le altre professionalità della salute?
La questione dei ruoli è un altro elemento totalmente irrisolto del “territorio”. A partire dai distretti, che vengono nuovamente rilanciati ma che rimangono un’entità non definita per il paziente (…e non solo!). Ad oggi, quali sono i compiti del distretto? Siamo sicuri che, in un’ottica di maggiore digitalizzazione della sanità, ci sia ancora bisogno di un distretto con funzione di coordinamento?
Molte sono le decisioni che vanno ancora prese su questo tema. C’è da definire il ruolo dell’infermiere di famiglia: lavorerà nello studio del medico di base oppure si ripenseranno le USCA? Manca l’accordo anche sul posizionamento del medico di medicina generale all’interno del servizio sanitario nazionale: per alcuni dovrebbero essere dei dipendenti, per altri è meglio che continuino ad essere convenzionati. A mio parere, il punto chiave è andare oltre la questione del rapporto di dipendenza o meno dal SSN e stabilire piuttosto regole di coordinamento e di suddivisione dei ruoli all’interno del servizio sanitario.
Guardando all’Europa, ci sono esperienze che possono far immaginare un’evoluzione diversa per l’assistenza territoriale?
Per i medici di medicina generale in Italia abbiamo una struttura molto solida e non penso che ci siano altri modelli da prendere a riferimento. È vero che, negli anni, sono stati esclusi dalla prescrizione dei farmaci innovativi, e questo ha rappresentato, secondo me, un errore. Però negli ultimi tempi si è andati nella direzione opposta e si è tornati ad ampliare le possibilità di prescrizione per gli MMG.
Sul ruolo dell’infermiere invece nel nostro Paese siamo davvero indietro. Nonostante la formazione universitaria degli infermieri, di fatto il ruolo non è mai cambiato. Ma la condizione del Paese è cambiata e l’emergenza Covid l’ha messo in evidenza: la riqualificazione del loro ruolo è uno degli elementi chiave di rilancio del territorio.
Intervista a Filippo Anelli
Presidente Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri (FNOMCeO)
In concreto, di quali innovazioni ha bisogno la medicina territoriale per essere più vicina ai pazienti e garantire meglio l’assistenza e l’appropriatezza?
Quello che manca oggi sul territorio è una rete che metta a disposizione del cittadino, in maniera capillare, e in modo sinergico, tutte le competenze migliori e necessarie per la sua salute. Oggi sul territorio abbiamo i medici di medicina generale, i pediatri di libera scelta, qualche infermiere, i collaboratori di studio; e basta. Questo sistema non è più sostenibile: ai cittadini vogliamo garantire, insieme, tutte le professionalità che abbiamo a disposizione. E le vogliamo garantire in un sistema di team orizzontale, dove non c’è un ‘capo’ a predominare ma una sinergia di competenze a governare. Un team multiprofessionale con il medico di medicina generale, il pediatra di libera scelta, lo specialista, l’infermiere, l’assistente di studio, l’assistente sanitario, il tecnico radiologo, il fisioterapista, lo psicologo, l’ostetrica. È questo il modello di erogazione delle cure che può soddisfare le domande di salute dei cittadini.
Servono strutture diverse (e quali) o ruoli diversi per i medici e le altre professionalità della salute?
Questi team dovranno avere a disposizione strutture adeguate e soprattutto strumentazioni adeguate, in modo da poter svolgere analisi e prestazioni diagnostiche di prima istanza, consulti in telemedicina, somministrare terapie iniettive. All’interno del team ognuno deve svolgere, in autonomia e indipendenza, la propria professione. E questo ritengo sia difficile realizzarlo col modello della dipendenza. Deve continuare a prevalere il modello della libera scelta del professionista, che va esteso a tutto il team. È il modello della fiducia, perché la relazione di cura, che è parte integrante e fondamentale della cura stessa, si basa sull’alleanza terapeutica, che è, appunto, il rapporto di fiducia che si instaura tra il cittadino e il professionista.
Guardando all’Europa, ci sono esperienze che possono far immaginare un’evoluzione diversa per il ruolo del medico di base e dello specialista ambulatoriale?
Va bene guardare ad altre esperienze ma senza perdere quella capillarità che è patrimonio della nostra medicina generale, la dislocazione del medico anche nei comuni più piccoli e isolati. Sono i medici, i professionisti, il vero tessuto connettivo del nostro servizio Sanitario nazionale.
La telemedicina può essere un supporto alla gestione della cronicità? Quali nodi rimangono ancora da sciogliere?
Le nuove tecnologie possono essere un utile supporto, devono integrare e mai sostituire la visita medica. Penso all’utilità di un teleconsulto tra il medico di medicina generale, con il paziente nel suo studio, e uno specialista. Penso al monitoraggio dei 500mila pazienti Covid domiciliati. I nodi da sciogliere riguardano principalmente la tutela dei dati sanitari del paziente. In ogni caso, come il nostro Codice deontologico prevede, il consulto e le consulenze mediante le tecnologie informatiche della comunicazione “a distanza” devono rispettare tutte le norme deontologiche che regolano la relazione medico-persona assistita.
Intervista a Barbara Mangiacavalli
Presidente Federazione Nazionale degli Ordini delle Professioni Infermieristiche (FNOPI)
In concreto, di quali innovazioni ha bisogno la sanità territoriale per essere più vicina ai pazienti e garantire meglio l’assistenza e l’appropriatezza?
La principale innovazione in realtà è la realizzazione ex novo di un’organizzazione territoriale nuova, una specie di “DM 71 del territorio” per definirlo in analogia al DM 70 di revisione delle strutture ospedaliere, che consenta di avere personale dedicato sufficiente alle mutate esigenze dei cittadini e dei pazienti – siano essi Covid, ma anche non Covid che in questi mesi sono stati tralasciati spesso proprio per carenza di organici – e strutture specifiche in funzione h24 che consentano di evitare il ricorso al pronto soccorso e comunque all’ospedale, da dedicare ai casi più gravi in acuzie.
Un esempio classico sono gli Ospedali di comunità, che rappresentano il luogo di elezione per i pazienti fragili e bisognosi di un’assistenza non erogabile a domicilio, il cui modello è stato definito e approvato anche con un0intesa Stato Regioni che tuttavia è rimasta in stand by in molte Regioni proprio per il sopraggiungere dell’emergenza Covid.
Servono strutture diverse (e quali) o ruoli diversi per gli infermieri e le altre professionalità della salute?
Per le strutture, oltre l’Ospedale di comunità a cui ho accennato, sarebbe necessario un reale potenziamento dei dipartimenti di prevenzione e dell’organizzazione distrettuale dell’assistenza, la creazione anche di Case di comunità, diverse dalle Case della salute. Le Case della salute sono l’espressione dell’assistenza a livello ambulatoriale sul territorio per bisogni specifici dei singoli cittadini, quelle di Comunità rappresentano invece un punto di riferimento per necessità legate alla collettività e l’esempio più immediato è proprio quello della pandemia.
Ma lasciando da parte la tipologia delle strutture, che evidentemente sarà poi legate ai singoli contesti dell’organizzazione nelle singole Regioni, quello che è davvero essenziale sono i ruoli da definire per i professionisti della salute.
Per l’assistenza a livello territoriale la parola d’ordine deve essere multi-professionalità. Senza alcun livello di dipendenza o subordinazione tra una professione e un’altra che devono procedere parallelamente e congiuntamente secondo la propria specifica formazione e, anzi, semmai con un livello di skill mix tra diverse figure legato a singole situazioni e/o competenze, senza mai invadere quelle altrui, ma rendendo intercambiabili e sostituibili determinate figure ad altre nel pieno rispetto della sicurezza e della competenza clinica del paziente.
Anche l’OCSE in uno dei suoi recenti rapporti sulla salute ha sottolineato in questo senso la necessità di “un passaggio verso l’assistenza sanitaria primaria basata su team che integrino in modo flessibile le competenze di vari operatori sanitari per migliorare i risultati in pazienti con patologie croniche e multi morbidità (team interprofessionali per pazienti complessi nelle cure primarie)”.
Guardando all’Europa, ci sono esperienze che possono far immaginare un’evoluzione diversa per il ruolo dell’infermiere?
Sicuramente i ruoli che gli infermieri ricoprono nei nostri maggiori partner europei sono un’indicazione di come può essere sviluppata la professione nell’immediato. Nel Regno Unito ad esempio – che ha attinto alle nostre professionalità infermieristiche regolarmente prima della pandemia giudicandole le migliori disponibili in Europa dal punto di vista formativo – gli infermieri sono classificati su diversi livelli e in ognuno di questi hanno vari gradi di carriera possibili fino alla dirigenza, anche in base alla tipologia di specializzazione che li caratterizza. A dimostrazione della crescita professionale basta guardare ai vari livelli retributivi che partono dai circa 27.000 euro per un neoassunto in formazione e raggiungono i 113.000 euro (media circa 52.000 euro) per un dirigente specializzato, mentre da noi la media annuale è unica e ferma a 32-33mila euro/anno circa.
In Spagna (ma non solo, è cosa frequente anche in altri paesi europei), ancora, l’infermiere è anche prescrittore. L’accordo storico tra medici ed infermieri spagnoli è stato raggiunto nel 2017 e prevede la possibilità di stilare protocolli e linee guida che permetteranno di regolamentare la prescrizione infermieristica, con e senza la supervisione del medico, e senza che gli infermieri abbiano una formazione aggiuntiva al corso di laurea.
Da noi si deve puntare sicuramente – come già è presente negli altri paesi – alla specificità infermieristica, i cui primi segnali sono arrivati proprio con la legge di Bilancio 2021, alle specializzazioni e alla loro relativa infungibilità perché un infermiere specificamente formato in uno dei settori necessari all’assistenza (un esempio è l’infermiere di famiglia e comunità previsto anche dalla legge 77/2020 per il territorio) non venga poi utilizzato in altre funzioni non proprio della sua specializzazione.
La telemedicina è in un momento di grande espansione: dal vostro punto di vista, può essere un valido supporto alla gestione della cronicità? Quali nodi rimangono ancora da sciogliere?
La telemedicina e in generale la teleassistenza è sicuramente un livello di evoluzione necessario alla corretta assistenza ai cronici che grazie alle tecnologie possono essere monitorati ha 24 e supportati in tutte le loro necessità anche da remoto per consentire il monitoraggio della loro condotta terapeutica e nel caso un primo intervento immediato rispetto a tempi che per svariate ragioni potrebbero allungarsi per un intervento in presenza.
Il nodo maggiore da sciogliere è evidentemente quello dell’informatizzazione che deve essere delle aziende, dei professionisti e anche degli stessi cittadini assistiti. A oggi questo capitolo è ancora decisamente indietro rispetto alle reali necessità: un ruolo importante durante la pandemia per il controllo della presenza di patologie concomitanti – quelle appunto che hanno provocato la maggior parte dei decessi – avrebbe potuto averlo il fascicolo sanitario elettronico.
A luglio 2020 questa innovazione, ormai conosciuta da anni, è attivata con il consenso però per l’85% della popolazione in Emilia-Romagna, il 77% in Friuli-Venezia Giulia e il 60% in Lombardia, ma è del tutto assente ad esempio in Calabria, Abruzzo e Bolzano e comunque segue una geografia di maggiore applicazione (ma non ovunque) nel Nord (tranne al Centro la Toscana).