Negli ultimi mesi è tornato al centro del dibattito il tema delle Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (REMS), sulla spinta di una presunta urgenza legata all’aumento delle liste d’attesa.
Il primo segnale in questa direzione è arrivato dal Consiglio Superiore della Magistratura, che nel gennaio 2025 ha approvato un documento di indirizzo in cui si propone l’attivazione di circa 700 nuovi posti, per far fronte alle attuali difficoltà. Sebbene non si tratti di un provvedimento normativo, la proposta del CSM segna un chiaro orientamento che si colloca però in un significativo vuoto informativo.
La REMS è misura di cura, non detenzione
Secondo quanto riportato del XXI Rapporto sulle condizioni detentive dell’Osservatorio Antigone, le Relazioni annuali del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, che fornivano una fotografia aggiornata delle misure di sicurezza, sono ferme al 2023. L’assenza di dati aggiornati impedisce una valutazione delle condizioni effettive della rete REMS e della coerenza tra i principi normativi e le pratiche reali.
La relazione conclusiva relativa all’ordinanza 131/2021 della Corte Costituzionale indicava, sulla base dei programmi regionali approvati dal Ministero della Salute, 771 posti autorizzati nelle REMS, di cui 652 effettivamente disponibili.
Oggi, a quattro anni di distanza, i dati aggiornati parlano di 688 posti disponibili, con 654 effettivamente occupati. Lo scarto tra disponibilità e utilizzo è quindi minimo: solo 34 posti, in calo rispetto agli anni precedenti.
Ciò dimostra che non siamo di fronte a un’emergenza quantitativa, bensì a un problema di gestione e completamento delle strutture già previste.
La riforma, sin dall’inizio, individuava nei servizi territoriali di salute mentale la vera alternativa agli Ospedali Psichiatrici Giudiziari (OPG). Le REMS, del resto, sono il simbolo di una svolta storica nel modo di trattare le persone con disturbi mentali autrici di reato. Una svolta che affonda le sue radici nella riforma di Franco Basaglia, che con la legge 180 del 1978 decretò la fine dei manicomi in Italia e cambiò l’approccio alla salute mentale, per promuovere un modello territoriale, accessibile e orientato al reinserimento sociale.
Non servono più posti, servono migliori valutazioni cliniche
A distanza di anni, però, il sistema è ancora sbilanciato. Si continua a parlare quasi esclusivamente di strutture detentive e disponibilità di posti, mentre il rafforzamento dei servizi territoriali procede a rilento, frammentato e sottofinanziato.
Ne parliamo a TrendSanità con Michele Miravalle, professore associato al Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Torino, coordinatore dell’Osservatorio di Antigone sul carcere.
Qual è l’attuale situazione delle REMS, a dieci anni dalla chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari?

«È piuttosto articolata. Partiamo dai numeri. A luglio 2021, le REMS attive erano 25 provvisorie e solo 11 definitive. Alla fine del 2024, le REMS operative in Italia sono salite a 31. Di queste, 27 sono monitorate dal Sistema Informativo SMOP, che ha registrato la presenza di 606 pazienti. Tra questi, 145 erano cittadini stranieri, pari al 24%, mentre le donne erano 69, circa l’11%.
Per quanto riguarda la presenza di persone straniere, il dato appare stabile rispetto all’anno precedente, ma mostra una tendenza in crescita se si guarda più indietro nel tempo.
Un altro elemento significativo riguarda la distribuzione dei pazienti: circa 120 persone, quindi una buona parte, sono concentrate in un’unica struttura, quella di Castiglione delle Stiviere, in Lombardia. Si tratta di un sistema polimodulare di REMS, l’unico con dimensioni molto diverse rispetto alle altre strutture».
Esistono dati ufficiali?
«Non esattamente e per una ragione di tipo burocratico, come spesso succede in Italia. Da quando il Ministero della Giustizia non ha più la competenza sulle REMS, che sono strutture sanitarie, la raccolta e l’elaborazione dei dati dovrebbero essere affidate alle Regioni e al Ministero della Salute. Ma non accade in modo sistematico. I dati che utilizziamo provengono dal sistema SMOP della Regione Campania, che ha maturato una grande esperienza in materia di OPG e ha sviluppato un sistema statistico poi condiviso con le altre Regioni. Alcune lo aggiornano regolarmente, altre no».
Anche i dati sulle liste d’attesa non sono aggiornati?
«Le liste d’attesa rappresentano il grande elefante nella stanza. Non si conosce con chiarezza quante siano le persone effettivamente in attesa e questa mancanza di trasparenza non aiuta ad affrontare il problema.
Secondo i nostri dati, le persone con un ordine di ricovero in REMS sono attualmente 690. Un numero consistente, praticamente pari alla capienza complessiva delle REMS oggi operative sul territorio. Ciò porterebbe a pensare che servirebbe il doppio delle strutture. Ma ragionare in questi termini è fuorviante. L’ordine di ricovero emesso dal giudice è, infatti, solo l’atto iniziale di un percorso che, nella maggior parte dei casi, può evolvere, grazie al lavoro dei servizi sanitari territoriali.
Oggi le REMS attive sono 31, ma i dati rimangono ancora incompleti
Essere in lista d’attesa poi non significa necessariamente che si è a piede libero. In molti casi, in assenza di un posto in REMS, le persone sono inserite temporaneamente in percorsi residenziali alternativi, come comunità sanitarie del territorio.
La situazione più problematica riguarda invece circa 30-35 persone che si trovano in carcere, pur non dovendoci essere.
Esiste poi una quota minima, molto ridotta, di persone che, pur avendo un ordine di ricovero, sono lasciate libere sul territorio per mancanza di posti, ma si tratta di casi eccezionali. Non stiamo parlando di pericolosi criminali in libertà, ed è importante sottolinearlo».
Quali sono i dati reali?
«Se si analizzano più a fondo i percorsi individuali, emerge un dato interessante: delle 690 persone con un’assegnazione formale, meno del 40% avrebbe realmente bisogno di essere accolta in REMS.
Questo significa che le liste d’attesa “reali”, ovvero quelle che richiedono effettivamente un posto, si aggirano intorno o al di sotto delle 250 persone. Spesso le decisioni del giudice sono prese a ridosso del reato e senza un adeguato approfondimento sanitario e diagnostico.
Dove si monitora con continuità, molte misure si rivedono nel tempo
Un monitoraggio attento delle liste, inoltre, consente di verificare che molte persone, nel tempo, si stabilizzano dal punto di vista clinico e non necessitano più di un ricovero in REMS. Per legge, infatti, il ricovero è previsto solo in presenza di condizioni di salute che lo rendano indispensabile e che possono essere compensate anche con altre soluzioni.
L’assegnazione iniziale del giudice può dunque cambiare nel tempo. Nelle Regioni dove questo lavoro di monitoraggio è fatto in modo sistematico, le liste d’attesa tendono a ridursi sensibilmente.
Infine, ci sono anche casi limite, quasi tragici nella loro assurdità: tra le 690 persone in lista, risultano anche quelle decedute o dichiarate irreperibili».
Dire, quindi, che c’è una lista d’attesa di 700 persone è solo un’indicazione orientativa?
«Esatto. È un dato da approfondire, che non deve essere letto come un allarme, né come un’urgenza per raddoppiare i posti nelle REMS, come vorrebbero fare al Ministero della Giustizia, per garantire che ogni decisione del giudice sia eseguita in modo automatico. Ma stiamo parlando di misure sanitarie, non di pene detentive.
Quando una persona è dichiarata non imputabile per vizio di mente (questa è la definizione prevista dal codice), è presa in carico dai servizi di salute mentale del territorio, che hanno il compito di elaborare un programma terapeutico individuale.
Si tratta di una misura di sicurezza, non di una condanna. La valutazione sulla necessità di un inserimento in una comunità ad alta intensità, quindi con caratteristiche più contenitive, oppure in assenza di una psicopatologia grave evidente, spetta al giudice dopo essersi necessariamente consultato con i periti e gli operatori della salute mentale del territorio.
Nessuno nega i problemi, ma i principi su cui si fonda questa riforma vanno tutelati
In questo quadro rientra anche la libertà vigilata, in cui la persona è inserita obbligatoriamente in un percorso di cura e reinserimento ed è osservata nella sua quotidianità. Dire che ci sono “pazzi pericolosi in libertà” è una narrazione scorretta. Occorre riflettere, leggere i dati con attenzione e cercare di capire davvero cosa sta succedendo».
Aumentare i posti nelle REMS può voler dire fare un passo indietro?
«Sì, perché se si comincia a dire che servono il doppio dei posti, significa non avere il coraggio di ammettere che la riforma delle REMS non piace e si vorrebbe tornare agli ospedali psichiatrici, che avevano una capienza massima di 1300 persone ma ne hanno ospitate almeno 1500.
Se davvero pensiamo di avere bisogno del doppio delle REMS, stiamo tornando a quei numeri. È un modo per far fallire una riforma che invece andrebbe difesa, con tutti i suoi limiti.
E c’è un altro aspetto: creare le liste d’attesa significa evitare di sovraffollare le REMS, come invece accade spesso nelle carceri, dove molte strutture ormai non reggono più. Nelle fasi iniziali, se psichiatri e personale delle REMS non si fossero opposti con decisione, si sarebbero accolte tutte le persone con ordine di ricovero: 20 posti che avrebbero ospitato 50, 60 o anche 70 persone, replicando proprio gli aspetti peggiori del carcere, cioè il sovraffollamento. E se anche i direttori delle carceri si rifiutassero di accogliere il doppio delle persone previste, magari il problema sarebbe affrontato, invece di convivere in una perenne emergenza ai limiti della legalità.
Rifiutare il sovraffollamento nelle REMS è, dunque, un atto di tutela per chi ci lavora e per chi deve essere curato. Qualsiasi primario ospedaliero ha un numero definito di posti letto e, quando è costretto a mettere barelle nei corridoi, finisce, giustamente, sui giornali».
Cosa si può fare per migliorare la situazione?
«Anche se la strada è ancora lunga, un primo passo è migliorare il dialogo tra giustizia e sanità. Sono due mondi con finalità diverse e linguaggi spesso incompatibili, ma che devono imparare a comunicare.
I magistrati, per vari motivi, faticano ad applicare il principio fondante delle REMS. Non sempre coinvolgono i servizi sanitari per valutare insieme la situazione e in molti casi continuano a vedere le REMS come un’evoluzione degli ospedali psichiatrici, senza coglierne la natura sanitaria e riabilitativa.
Servono luoghi stabili di confronto tra giustizia e sanità
Serve un cambio culturale. A volte arrivano nelle REMS persone che non hanno alcun disturbo psichiatrico, ma sono soggetti antisociali, individui violenti, con difficoltà di adattamento e spesso con una storia di abuso di sostanze. In questi casi, gli operatori segnalano che l’aspetto prevalente è quello criminale e che la REMS non è il luogo adatto. Ma non sono poliziotti e non spetta a loro gestire questi casi.
Allo stesso modo, ci sono anche situazioni in cui una persona che è indirizzata in carcere avrebbe invece bisogno di essere accolta in REMS.
Per questo è urgente creare uno spazio istituzionale stabile in cui salute e giustizia possano confrontarsi prima di prendere decisioni, valutando insieme la collocazione più adeguata per ciascuna persona».
È quindi una questione culturale?
«Assolutamente sì. Abbiamo ancora un codice penale il cui impianto risale a 100 anni fa e questo non aiuta.
Il sistema delle REMS può funzionare solo se attorno esistono servizi territoriali di salute mentale solidi e operativi. Il de-finanziamento cronico di questi servizi è devastante
Se vuoi portare avanti un progetto terapeutico e non hai operatori, non hai spazi nelle comunità, non hai risorse per immaginare percorsi alternativi alla REMS, è inevitabile che si crei un circolo vizioso. È il gatto che si morde la coda. L’assenza di alternative finisce per giustificare il ritorno alla logica manicomiale “datemi grandi strutture e ci butto dentro tutti”. In questi “recinti” però vivono male tutti, pazienti e operatori.
La vera sfida è costruire percorsi ed è una sfida complessa. Ci saranno rallentamenti, battute d’arresto, forse anche dei passi indietro. Ma per affrontarli e gestirli servono strutture adeguate e professionisti competenti.