La salute in carcere è possibile, è un diritto incontestabile, ma ad oggi suona come un ossimoro: ai detenuti non viene sempre garantita l’assistenza sanitaria di cui necessitano, ogni Regione è una realtà a sé stante; eppure, se ottimizzati, gli istituti di pena potrebbero diventare hub di salute molto efficienti, in grado di proteggere la popolazione carceraria e di riflesso quella generale.
A raccontarci luce e ombre dell’assistenza sanitaria nei penitenziari è Roberto Ranieri, infettivologo, dirigente della sanità penitenziaria della Regione Lombardia e vicepresidente SIMPSE, Società Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria.
È possibile la salute in carcere?
Sì, perché è un diritto sancito dalla Costituzione e anche dai vari organismi internazionali. Ma vorrei ribadire che è possibile anche per un altro motivo: almeno nell’ordinamento sanitario italiano, il carcere è l’unica situazione nella quale la persona è completamente assistita – o così dovrebbe essere – indipendentemente dalla nazione di origine. Quindi chi fa ingresso in un istituto penitenziario, di qualunque nazionalità, viene preso in carico completamente dal Servizio Sanitario Nazionale. Se il servizio fosse erogato nel modo giusto, questo rappresenterebbe un vantaggio non solo per la comunità carceraria ma anche per quella generale, all’esterno. I detenuti sono soggetti che difficilmente, prima di entrare in carcere, si sono presi cura di sé stessi in modo adeguato. In carcere il detenuto viene preso in carico, perché la privazione della libertà, che è l’unica pena che deve patire il detenuto, non confligge con il diritto alla salute e a ricevere un’adeguata assistenza sanitaria.
Ciò che è problematico è che questo diritto si ha solo durante la detenzione. È un paradosso, ma ad oggi il problema riguarda più il dopo che il durante: il detenuto, una volta tornato libero, non ha un riferimento territoriale che continui la presa in carico iniziata nel penitenziario. Non c’è collegamento tra questi due mondi. E allora si rischia di buttare tutto il lavoro fatto qui dentro.
Quella che lei ha appena delineato è la situazione ideale, ma in realtà questa presa in carico in carcere non avviene sempre in modo così efficiente.
Sì, e questo è dovuto a diversi fattori. Innanzitutto la ripresa del sovraffollamento nelle carceri: come si vede dai dati dell’ultimo anno, abbiamo assistito a un’escalation di entrate negli istituti, che lavorano al 110-120% della loro capienza. Senza raggiungere i livelli del passato, il fenomeno sta comunque riprendendo questo trend e questo punto è fondamentale se si va a valutare la relazione del garante dei detenuti a proposito del rischio suicidario: è infatti documentato che il sovraffollamento sia collegato all’aumento dei suicidi, e questo è un punto di riflessione che meriterebbe un approfondimento, perché spesso il sovraffollamento è legato all’impossibilità di ricorrere per alcuni detenuti a misure alternative, soprattutto a causa della mancanza di assistenza coordinata sul territorio che potrebbe gestire quei casi che non hanno bisogno del carcere.
Persone con gravi disagi psichici e di tossicodipendenza che dovrebbero essere gestiti negli appositi centri
Parlo di persone con gravi disagi psichici e di tossicodipendenza che dovrebbero essere gestiti negli appositi centri.
Se ci fosse la possibilità di un’assistenza territoriale efficiente con presa in carico da parte delle comunità terapeutiche, dei SERD (Servizi per le dipendenze patologiche) o dei centri di salute mentale, il giudice potrebbe adire a questa soluzione piuttosto che arrivare alla custodia negli istituti penitenziari. Ma c’è anche da dire che questi centri (SERD, SERT, Salute mentale) ad oggi sono in grande sofferenza per mancanza di personale. Senza contare che è ancora più difficile trovare personale che voglia lavorare all’interno dei penitenziari. Questo problema a mio avviso potrebbe essere sanato da una corretta applicazione della riforma delle Case di Comunità. Noi a breve inizieremo in Lombardia un lavoro per riuscire ad assimilare l’istituto penitenziario alle Case di Comunità con partenza dall’Istituto di San Vittore a Milano: è molto importante, perché casa di comunità vuol dire prima di tutto assimilazione con l’esterno. È un servizio territoriale in cui il personale ruota, quindi i professionisti non si ritroveranno a dover curare solo i detenuti ma potranno cambiare e questo gioverà alla stessa professione. E renderà il ruolo di sanitari penitenziari più appetibile.
L’abuso di sostanze in carcere continua a crescere e anzi sta cambiando, perché?
Oggi negli istituti si abusa anche di sostanze legali come antidolorifici e oppiacei
Sta cambiando perché il problema non è più, o comunque non solo, l’abuso di cocaina, ma anche di sostanze legali che, combinate con la cocaina, ne possono amplificare l’effetto. C’è già una tendenza sul territorio che poi viene amplificata nei penitenziari.
Ma negli istituti si abusa anche di sostanze legali come antidolorifici e oppiacei. Un fenomeno che non si riesce ad arginare perché ad oggi, paradossalmente, esistono dei trattamenti sostitutivi per chi abusa di cocaina ed eroina, ma non per questi nuovi abusi.
Noi abbiamo una bellissima legge sulle tossicodipendenze, la 309 del 1990, che a quel tempo era una delle più all’avanguardia in Europa e permetteva la terapia sostitutiva nel caso di dipendenza, ad esempio, da cocaina, ma ignorava e ignora completamente la situazione attuale, cioè l’abuso di sostanze legali. Ci sono molecole che vengono utilizzate spesso come stabilizzanti dell’umore e vengono richieste dal detenuto: il medico non sempre riesce a soddisfare le richieste e questo può sfociare in aggressività o rivolte. Questo loop (richiesta – rifiuto – rivolta) è generato dallo stesso detenuto e noi spesso lo assecondiamo per cercare di contenere la situazione. Per questo, in parallelo all’intervento sulle Case di Comunità, ne stiamo pensando un altro per intervenire su questo abuso che sta mettendo in difficoltà anche la polizia penitenziaria. Credo non vi sia una reale presa di coscienza su questo nuovo fenomeno che, ripeto, non riguarda le sostanze stupefacenti già note, ma altri farmaci, come gli analgesici.
Non è che non si sa, è che non si interviene in modo adeguato. Dove abbiamo provato a ridurre l’uso di questi farmaci, c’è stata in effetti anche una riduzione dell’aggressività da parte dei detenuti. Ridurre l’aggressività significa rendere più sicuro e appetibile anche il ruolo degli agenti di polizia penitenziaria e del personale sanitario. Come vede, tutte le questioni di cui stiamo parlando sono intrinsecamente collegate.
Se la salute in carcere fosse erogata nel modo giusto, gli istituti potrebbero diventare un hub di salute per screening e vaccinazioni?
Assolutamente sì e lo abbiamo dimostrato sia con gli screening e le terapie per l’epatite C (il Carcere di Opera è stato il primo istituto penitenziario HCV free, ndr) sia con le vaccinazioni anti-Covid.
Gli screening sono uno strumento di prevenzione e diagnosi fondamentale ma che nel mondo esterno non è percepito come importante. Parlo ad esempio di epatite C, per cui nelle carceri della Lombardia e non solo abbiamo fatto un lavoro straordinario. Il problema è fuori. Gli stessi SERD non fanno gli screening come dovrebbero perché manca un’adeguata informazione e cultura sull’importanza della prevenzione.
Al detenuto, invece, una volta che entra, viene consigliato lo screening. Molti all’inizio non vogliono farlo non perché contrari ma perché al momento dell’ingresso i pensieri sono altri; quindi, abbiamo pensato di riproporlo in un altro momento, qualche giorno dopo. Questa è un’ottima opportunità di prevenzione che in altri contesti il detenuto non avrebbe sfruttato.
Un altro modo per proporre lo screening è che sia un professionista non necessariamente appartenente al mondo sanitario a farlo, in questo modo il detenuto si sente meno pressato. Il terzo aspetto da considerare è quello di proporre forme alternative di screening perché il prelievo ematico non è molto gradito, e per alcune etnie il prelievo di sangue può essere considerato un sacrilegio. Ad esempio, dove possibile, si potrebbero utilizzare test rapidi che possono essere autosomministrati.
In questo modo abbiamo portato la percentuale di screening dal 50-60% quasi al 90% in questi tipi di patologie, una percentuale molto più alta rispetto a quella popolazione generale che si attesta intorno al 20-30%.
Un altro modo per prendersi cura delle persone detenute è intervenire subito con una terapia in presenza di una specifica diagnosi oppure agganciare la persona a un servizio esterno. Se un detenuto ha l’epatite C, io devo poter intervenire subito per curarlo, visto che ad oggi i farmaci ci sono. Bisogna iniziare un percorso di cura e seguirlo, sono io medico che devo andare verso di lui e non lui o lei che deve venire da me. Stiamo parlando di persone che già all’esterno avevano difficoltà a prendersi cura di sé stesse, vanno quindi guidate. Bisogna poi lavorare sull’educazione, spiegando ai detenuti perché occorre fare gli screening e vaccinarsi: un detenuto informato informerà anche gli altri.
Una volta che si spiega bene la vaccinazione o lo screening, riscontriamo poi un’ottima aderenza. Questa comunicazione viene fatta da personale non sanitario, in modo quindi che al detenuto appaia disinteressato. Si spiega che il vantaggio non è solo per lui che si vaccina, ma anche per la comunità in cui vive, quella penitenziaria e quella generale, in cui tornerà una volta libero. Se io spiego tutto questo, anziché imporre semplicemente un prelievo o un vaccino, ho molta più aderenza perché il detenuto si sente al centro di questo percorso, non lo subisce.
Come è andata con le vaccinazioni anti Covid?
La copertura della popolazione penitenziaria è superiore a quella degli agenti di polizia penitenziaria e della popolazione generale
Questo è un esempio concreto di quanto la vaccinazione in carcere abbia protetto non soltanto la comunità carceraria, ma anche la società. Perché molti detenuti sono poi usciti, vaccinati. L’aspetto interessante è che la copertura della popolazione penitenziaria è superiore a quella degli agenti di polizia penitenziaria e della popolazione generale! Questo perché i detenuti si sono sentiti più coinvolti in questo percorso di vaccinazione rispetto agli agenti penitenziari che di fatto appartengono al mondo esterno, in cui la copertura vaccinale come sappiamo è stata più altalenante.
Negli istituti di reclusione della Lombardia abbiamo più del 90% di persone vaccinate con la quarta dose. Ma non abbiamo mai imposto la vaccinazione. L’abbiamo spiegata. E l’abbiamo fatto impiegando personale non sanitario. Abbiamo inoltre parlato della vaccinazione in generale senza nominare la malattia o il nome del vaccino. Tutte piccole azioni che hanno fatto la differenza. Ora ci apprestiamo a fare le vaccinazioni anti Pneumococco, Herpes Zoster e Papilloma virus.
Cosa chiederebbe al Ministero della Salute e al Ministero della Giustizia per migliorare la salute in carcere?
Innanzitutto, che possa essere applicata la riforma sulle Case di Comunità diffusamente in tutti gli istituti e in tutte le Regioni; in secondo luogo, che venga rivista la legge 309/90 sulle dipendenze, una revisione che di fatto è già in corso, io stesso sto partecipando a gruppi di lavoro organizzati dal Dipartimento della politica antidroga della Presidenza del Consiglio dei Ministri; in terzo luogo, implementare gli screening sul modello dell’epatite C, un modello che, devo riconoscere, è stato possibile anche grazie a un grande sforzo da parte del Governo. Si dovrebbe poter intervenire sugli stili di vita, dall’alimentazione al fumo.
Credo che il Ministero della Giustizia debba impegnarsi a trovare percorsi di cura alternativi sul territorio, perché non si può dare colpa sempre al magistrato che non li trova: spesso li cerca senza successo e lo vediamo tutti nel nostro lavoro.
Per quanto riguarda il disagio psichico, a parte l’intervento sull’articolazione dei centri di salute mentale sul territorio, più che aumentare il numero di posti, occorre razionalizzare le assegnazioni nelle REMS (Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza) nelle articolazioni di salute mentale, con criteri che vengano condivisi dal magistrato con i medici e che diano priorità non solo a chi attende da più tempo, ma anche ai casi realmente più gravi. Occorre poi che ci sia un collegamento sanitario tra il detenuto che esce e torna in comunità, altrimenti tutto il lavoro fatto prima si perde. Ad oggi chi esce dai penitenziari non ha una cartella clinica da potersi portare dietro, non ha una tessera sanitaria. Niente, una volta che esce, tutto è resettato.
Per fare tutto questo non occorrono solo fondi, ma anche un cambio di cultura che veda gli istituti di pena come luoghi che privano della libertà ma che al contempo si prendono cura di chi vive al loro interno, per il bene dell’individuo ma soprattutto della collettività. Il carcere può essere hub di salute e di riabilitazione, ma ci vogliono cultura e informazione per raggiungere questi obbiettivi.