C’è un paradosso che si ripete nei penitenziari italiani: per molte persone, l’ingresso in carcere rappresenta il primo vero accesso alle cure. Un dato che interroga il sistema sanitario e rafforza la necessità di un’integrazione strutturale tra carcere e territorio. Dal 2008, con il passaggio della sanità penitenziaria dal Ministero della Giustizia al Servizio Sanitario Nazionale, questo obiettivo è diventato norma.
In Lombardia, dove si contano tra gli 8.800 e i 9.000 detenuti – circa la metà negli istituti milanesi – il modello di erogazione si distingue: non è in capo alle ASL, ma ad Aziende Ospedaliere come l’ASST Santi Paolo e Carlo. Una scelta organizzativa che rispecchia la complessità dell’assistenza in carcere, tra case circondariali a rapido turnover e case di reclusione più stabili, e che oggi punta a garantire continuità terapeutica anche dopo la detenzione.
Ne parlano a TrendSanità Roberto Ranieri (infettivologo e dirigente della sanità penitenziaria in Regione Lombardia) e Barbara Pezzoni (Coordinatrice Sanitaria della Seconda casa di Reclusione Milano Bollate).

Dottor Ranieri, qual è la situazione attuale dell’accesso alle cure nelle carceri italiane?
«Abbiamo osservato, soprattutto negli ultimi tempi, che molte persone, sia italiane che straniere, ricevono diagnosi di patologie gravi solo al momento dell’ingresso in carcere. Paradossalmente, l’ingresso in un istituto penitenziario rappresenta, per alcuni, la prima occasione di accesso alle cure sanitarie. Vengono così alla luce diagnosi di insufficienza renale cronica così avanzata da richiedere dialisi pochi giorni dopo l’ingresso, o scopriamo patologie oncologiche e infettive come HIV mai diagnosticate prima. Questo fenomeno non riguarda solo persone in situazioni di marginalità sociale, ma riflette un problema più ampio di mancato accesso alle cure».
Come sta cambiando l’approccio alla sanità penitenziaria in Lombardia?
«Nella nuova riorganizzazione del sistema sanitario penitenziario lombardo, stiamo concependo gli istituti penitenziari come appartenenti alle “case di comunità”, analogamente ad altre strutture territoriali collegate con gli ospedali, come i SERD, i centri di salute mentale e i consultori. Questo approccio ha due aspetti fondamentali: garantire la continuità di cura tra carcere e strutture sanitarie esterne, e impiegare lo stesso personale sanitario che opera sia in ospedale che nelle case di comunità quindi, nel nostro caso, negli istituti penitenziari».
Nella nuova sanità lombarda, gli istituti penitenziari sono concepiti come parte delle case di comunità
Ci sono già modelli operativi di questa integrazione?
«Sì, presso la Casa Circondariale di San Vittore abbiamo attivato servizi infermieristici condivisi, come l’ambulatorio della ferita chirurgica e del piede diabetico, e servizi di fisioterapia. Anche alcune specialità mediche, come la ginecologia-ostetricia, sono condivise tra San Vittore, Bollate e l’ICAM, Istituto a Custodia Attenuata per le Madri, per le detenute madri con figli. Inoltre, stiamo attivando altre attività come quella odontoiatrica e ortopedica con concorsi specifici come per assumere professionisti che svolgano entrambi i ruoli, ospedaliero e penitenziario. Modelli simili si stanno sviluppando anche a Brescia, Bergamo e in altre realtà fuori dalla Lombardia».
Come viene affrontato il tema delle dipendenze e della salute mentale?
«Per queste problematiche esistevano già percorsi strutturati. Nella Casa Circondariale di San Vittore, per esempio, abbiamo la sezione “La Nave” dedicata ai detenuti tossicodipendenti in trattamento avanzato, dove alla terapia farmacologica si affiancano interventi integrati multidisciplinari con educatori, arte-terapisti e musicoterapisti: si tratta di un percorso “elettivo” sono infatti, circa un decimo i detenuti di questa sezione e un decimo dei detenuti tossicodipendenti presenti nella Casa Circondariale. Recentemente, grazie a nuovi finanziamenti, abbiamo potenziato i centri diurni che impegnano le persone con problemi di salute mentale o dipendenza in varie attività educative durante tutta la giornata feriale con l’auspicio di allargarle anche ai festivi, inoltre, per i detenuti “giovani” dell’Istituto Penale per Minorenni Cesare Beccaria di Milano stiamo pensando di estendere le attività fino alla tarda serata. Riteniamo che l’impegno della persona così strutturato possa prevenire comportamenti problematici e ridurre l’utilizzo di farmaci».
Un tema cruciale è la continuità assistenziale dei percorsi terapeutici che intraprendono i detenuti. Come viene gestita in caso di trasferimento tra istituti o al momento del rilascio?
«È fondamentale garantire una continuità tra la presa in carico durante la detenzione e dopo il rilascio. Per questo stiamo implementando un sistema di presa in carico anticipata da parte delle strutture territoriali prima del rilascio del detenuto come nel caso dei Centri di salute mentale cosa che già avviene per i Centri SERD. Ci teniamo anche alla presa in carico del paziente cronico, anche la persona cardiopatica o diabetica, cioè tutte le patologie croniche che richiedono una presa in carico ed un elemento chiave è l’attribuzione del codice fiscale all’ingresso in carcere, che permette di mantenere un’identità anagrafica e sanitaria anche dopo il rilascio. Stiamo anche migliorando i sistemi di registrazione delle vaccinazioni, integrandoli con quelli presenti sul territorio».
Presa in carico anticipata e identità sanitaria garantita: così si assicura continuità di cura tra carcere e territorio
Parliamo di finanziamenti degli interventi…
«In Lombardia abbiamo circa 9mila detenuti, che rappresentano tra un quinto e un sesto del totale nazionale, e spesso con casi più complessi dal punto di vista sanitario rispetto ad altre Regioni. Nel 2024 la Lombardia ha ricevuto 24 milioni di euro di finanziamento per la sanità penitenziaria di cui 19 milioni solo per Milano, ma la spesa effettiva è stata di 35 milioni, costringendo la Regione a coprirne la differenza. Il sistema di finanziamento, basato solo sul numero di detenuti e non sull’effettivo carico sanitario, andrebbe rimeditato. Circa il 33% dei detenuti in Lombardia è straniero e tra il 30% e il 50% ha problemi di dipendenze, con percentuali molto più alte nelle Case circondariali come San Vittore di Milano, dove gli stranieri arrivano al 70% e i casi di dipendenza superano il 50%. Questi sono i dati che dovrebbero essere considerati anche per la presa in carico assistenziale».
Dottoressa Barbara Pezzoni, la Seconda Casa di Reclusione Milano Bollate (MI) è considerata un modello di riferimento. In cosa si distingue?

«A Bollate, il detenuto in entrata firma un patto di responsabilizzazione con l’amministrazione penitenziaria e con la sanità. È l’inizio di un percorso di riabilitazione sia medico sia civile, venendo così preso in carico dal punto di vista sanitario, come avviene anche nelle altre quattro carceri milanesi. Abbiamo sviluppato percorsi diagnostico-terapeutici personalizzati per i pazienti cronici, con follow-up ed esami programmati a scadenze precise, per evitare che ci siano “pazienti invisibili” che si perdono nel sistema».
Ci può parlare dell’iniziativa dei “peer supporter”?
«Abbiamo formato alcuni detenuti come “peer supporter” che si trovano nei vari reparti e possono segnalare precocemente sintomi o malesseri dei compagni, soprattutto per prevenire gesti autolesivi o suicidari. Inoltre, sempre nel campo della formazione e di educazione conduciamo campagne di prevenzione e screening, come la recente prima campagna di vaccinazione antinfluenzale del mese di novembre scorso che ha raggiunto circa 470 pazienti su circa 1.400, e stiamo avviando screening oncologici in collaborazione con la Fondazione Libellule Insieme. Prima di ogni campagna, facciamo un lavoro di educazione e formazione dei pazienti per aumentarne l’adesione».
Prevenzione partecipata: i detenuti formati come peer supporter sono sentinelle di salute e umanità dentro il carcere
Avete introdotto altre novità organizzative?
«Da gennaio 2025 abbiamo istituito la figura del Medico di reparto, figura che già esiste nelle altre carceri milanesi e fondamentale nella presa in carico sanitaria e nell’educazione del paziente. Avere un sanitario di riferimento è cruciale in un setting chiuso come quello penitenziario per garantire assistenza nel momento del bisogno».
Il nuovo approccio alla sanità penitenziaria rappresenta un cambio di paradigma che vede il carcere non più come un’istituzione isolata, ma come parte integrante del tessuto sanitario territoriale, con l’obiettivo di migliorare la qualità delle cure e garantire la continuità assistenziale anche dopo la detenzione.