Nel panorama sanitario, il genetista medico è una figura sempre più strategica. Non solo nell’ambito della prevenzione, ma anche nei percorsi diagnostico-terapeutici, poiché permette di individuare precocemente malattie ereditarie, genetiche e rare, aprendo la strada a interventi tempestivi e personalizzati e migliorando l’accesso alle cure.
Non solo: grazie a diagnosi precoci e trattamenti adeguati, il genetista contribuisce anche a ridurre costi evitabili e sprechi legati a terapie inappropriate o tardive.
A TrendSanità ne parliamo con Paolo Gasparini, presidente della Società Italiana di Genetica Umana (SIGU), per approfondire le aree di competenza e le criticità legate a questa specialità medica per una medicina sempre più personalizzata.
In che modo si è evoluta la figura del genetista medico, anche alla luce delle nuove terapie per le malattie rare?
«È opinione diffusa che i genetisti medici lavorino solo in laboratorio, nell’eseguire test genetici sempre più complessi, ma oggi il genetista clinico è soprattutto un medico a tutti gli effetti e per sua formazione deve riuscire ad avere una visione globale delle problematiche delle persone che lo consultano. Parliamo di oncologia, di medicina riproduttiva, e certamente anche del complesso ambito delle malattie rare, che per la larghissima maggioranza ha una causa genetica. Oggi, poi, con l’arrivo delle terapie innovative per le malattie rare, il nostro ruolo è diventato ancora più centrale.
Un altro aspetto importante è che ci occupiamo delle patologie in senso molto ampio. È, di fatto, l’unica disciplina che è rimasta una vera disciplina medica trasversale. Le malattie ereditarie sono più di 8.000, colpiscono tutti gli organi e tutte le età. Questo vuol dire che siamo tenuti ad occuparci di pazienti di età variabile dall’epoca prenatale (siamo noi ad occuparci della diagnostica prenatale) fino all’età anziana, dove vediamo moltissime patologie in cui la genetica gioca un ruolo importante, come l’Alzheimer o il Parkinson. Allo stesso tempo ci troviamo ad affrontare malattie che interessano ogni distretto del corpo: patologie dell’occhio, dell’orecchio, del cuore, del fegato, ma anche condizioni multisistemiche.
In una medicina sempre più frammentata e iperspecialistica, che si occupa di un singolo organo, spesso ci si dimentica che esiste una figura in grado di avere una visione d’insieme, olistica, che tenga conto di tutte le connessioni. Capita così che una persona con problemi a occhio e orecchio sia vista da due specialisti diversi, senza che nessuno dei due metta insieme i pezzi. È proprio qui che il genetista medico può fare la differenza».
Oltre alla diagnosi, quali sono i principali campi di intervento della genetica medica?
«Il primo punto, quello fondamentale, è la consulenza genetica. Si parte sempre da lì. Il genetista cerca di inquadrare il problema del paziente e, più in generale, della sua famiglia. Oppure della coppia, se si tratta di persone che stanno affrontando un percorso riproduttivo.
A seguire, c’è tutta la parte della diagnostica, che oggi è davvero avanzatissima. Parliamo di tecnologie molto sofisticate, come l’analisi dell’esoma, lo studio dei geni e anche l’uso combinato di diverse tecnologie cosiddette omiche. Ad esempio, possiamo mettere insieme dati genomici e dati metabolici per avere un quadro molto più completo.
Una volta ottenuta la diagnosi, cosa che oggi è possibile in molti casi proprio grazie a queste tecnologie e al lavoro dei genetisti, si aprono diversi scenari. Una volta identificata la malattia, ad esempio, si può spiegare alla famiglia quali sono i rischi di ricorrenza per una scelta di genitorialità più consapevole.
Il secondo riguarda la presa in carico del malato: una volta fatta la diagnosi, si può subito attivare un percorso di cura e di supporto. Qui il genetista ha anche un ruolo di coordinamento, cioè può indirizzare verso specialisti, logopedisti, fisioterapisti, riabilitatori, a seconda della patologia».
Qual è il ruolo del genetista nella medicina personalizzata e quali sono i vantaggi di un approccio multidisciplinare?
«Gran parte delle terapie di cui parliamo oggi sono terapie innovative. Ci sono, ad esempio, le terapie geniche, come quella per l’amaurosi congenita di Leber, ma anche trattamenti innovativi che non sono propriamente genici, come i modulatori del gene CFTR usati nella fibrosi cistica. Si tratta di farmaci progettati proprio in base all’assetto genetico della persona, quindi altamente specifici.
Parliamo di medicina personalizzata, costruita su misura del singolo paziente, aspetto particolarmente evidente nell’oncogenetica e farmacogenetica, settori in grande crescita
Le faccio un esempio concreto: a Trieste abbiamo sviluppato un modello che, a mio avviso, funziona molto bene. Il genetista riceve il campione e redige un referto tecnico, perché solo il genetista ha davvero le competenze per identificare correttamente le varianti genetiche rilevanti. Il genoma contiene milioni di basi, è impensabile che un farmacologo o un oncologo possano districarsi da soli in questa complessità.
Una volta pronto, questo referto tecnico è inviato al farmacologo, che lo interpreta all’interno del quadro clinico del paziente.
Ecco, questo è un esempio molto chiaro di come dovrebbe funzionare la medicina personalizzata e un lavoro multidisciplinare, dove le competenze si integrano. E trattandosi in gran parte di genetica, è evidente che il genetista debba avere un ruolo centrale.
L’oncogenetica è, ovviamente, tutta quella parte della genetica che si occupa dei tumori, tra cui i tumori cosiddetti germinali, cioè quelli che hanno una componente ereditaria.
Un altro esempio riguarda il tumore della mammella. Una quota significativa dei tumori al seno ha una base genetica ereditaria, capita spesso che ci sia una storia familiare, come una madre, una zia o una sorella con lo stesso tipo di tumore. È un esempio classico di predisposizione genetica in ambito oncologico.
Ci sono poi altre sindromi ereditarie ben conosciute, come la poliposi del colon, dove è evidente una predisposizione familiare, legata a mutazioni che, una volta presenti, aumentano fortemente il rischio di sviluppare un tumore.
Ma c’è un’altra area della genetica oncologica, che riguarda invece le cosiddette mutazioni somatiche, cioè quelle mutazioni che non sono ereditarie, ma che si sviluppano solo all’interno del tumore. In questo caso le analisi genetiche servono a identificare trattamenti specifici, molto più mirati rispetto al passato.
In un certo senso possiamo dire che i genetisti medici si occupano soprattutto dell’aspetto ereditario, dei casi in cui c’è familiarità, mentre gli oncologi, in particolare quelli che lavorano nell’ambito dell’oncologia molecolare, si concentrano maggiormente sulle mutazioni somatiche, cioè su quelle che si trovano nel tessuto tumorale o nelle cellule ematologiche tumorali.
In pratica, il genetista è preparato nel calcolo del rischio, nel valutare le probabilità di ricorrenza di una determinata malattia. L’oncologo, invece, è specializzato nel trattamento, sa interpretare le mutazioni presenti nel tumore per scegliere il farmaco più adatto».
Quali sono oggi i limiti alla diffusione capillare della genetica medica e cosa si potrebbe migliorare?
«I genetisti medici oggi sono presenti soprattutto nei grandi ospedali, quelli di riferimento a livello regionale. Non sono presenti in tutte le strutture e questo è un problema, perché la medicina personalizzata, quella che utilizza in modo estensivo la genomica, ha bisogno di essere organizzata in modo strutturato.
Le tecnologie che usiamo, i macchinari per le analisi genetiche, sono molto costosi e hanno anche una durata relativamente breve, quindi è comprensibile pensare a una logica “hub and spoke”, cioè concentrare nei centri principali la massa critica, sia di strumenti che di personale, quindi sia di medici specializzati in genetica che genetisti laboratoristi esperti in grado di utilizzare le tecniche più sofisticate.
Il problema nasce però quando, nei centri più piccoli o periferici, la figura del genetista medico manca del tutto. Ciò comporta che alcuni pazienti si perdano lungo il percorso, oppure sono gestiti in modo non corretto, perché manca quella visione genetica che sarebbe invece fondamentale.
Spesso poi chi prende le decisioni, chi ha il potere di organizzare la rete sanitaria, non ha ancora ben chiaro il ruolo del genetista medico. Non ha capito fino in fondo quanto sia importante questa figura, quali siano le sue responsabilità e il suo contributo in un contesto sanitario che sta andando sempre più verso la medicina di precisione.
Un altro problema, fino a pochi anni fa, era la carenza di specialisti: non ce n’erano abbastanza per coprire il territorio. Oggi la situazione è migliorata, le scuole di specializzazione formano ogni anno svariate decine di nuovi genetisti medici, ma resta ancora molto da fare per garantire una presenza capillare e strutturata.
Il genetista dovrebbe diventare una figura centrale, al pari del geriatra o del pediatra, grazie alle sue competenze nell’interpretare i dati genetici e nel gestire patologie complesse. Tuttavia, la collaborazione tra specialisti è ancora troppo poca, manca una vera cultura del lavoro in team, fondamentale per garantire un’assistenza integrata».
Il genetista non può agire da solo, ha bisogno del confronto costante con altri specialisti per interpretare correttamente i dati e costruire percorsi di cura su misura per ogni paziente
Qual è oggi il vostro ruolo invece nella salute riproduttiva e nel supporto alla pianificazione familiare?
«Una volta che si arriva a una diagnosi, è il genetista che la comunica alla coppia. Nel momento in cui si restituisce quella diagnosi, si apre automaticamente anche un discorso sulle prospettive riproduttive.
In questo modo la coppia, se lo desidera, può affrontare un percorso riproduttivo con consapevolezza. E ci sono anche strumenti diagnostici specifici a disposizione, come la diagnosi prenatale oppure, se richiesto, la diagnosi preimpianto nell’ambito della PMA, procreazione medicalmente assistita.
C’è poi tutta la fase prima, quella delle coppie che fanno test genetici per capire se sono portatrici di patologie genetiche o specifiche varianti genetiche, prima ancora di concepire. Lì, purtroppo, regna una certa confusione. Ci sono coppie che fanno dieci test, altre cinque, altre niente: molto dipende dal ginecologo cui si rivolgono, dalle sue conoscenze o dai suoi interessi. A volte sono richieste analisi completamente inappropriate o addirittura inutili. Si tratta di un problema da risolvere, perché proprio in quella fase iniziale servirebbe chiarezza, informazione, accompagnamento.
Non dimentichiamo che oggi sul mercato è possibile acquistare liberamente dei kit per test genetici più o meno affidabili, ai quali il paziente, o la coppia, può accedere direttamente senza alcuna prescrizione medica. Nella maggior parte dei casi queste persone pagano profumatamente qualcosa che non ha un reale valore clinico, oppure non è adatto al loro caso specifico».