Scuole di specializzazione, l’aumento dei posti non basta

Aumentare i posti nelle scuole di specializzazione per medici non ha risolto i problemi: alcuni concorsi sono andati deserti o quasi. Cresce, invece, la richiesta di una riforma della formazione post-laurea

Medicina di emergenza urgenza, anestesia e rianimazione, radiologia, chirurgia. Sono queste le branche mediche meno ambite dai laureati che in questi giorni sono stati chiamati a scegliere la specialità.

Delle oltre 16.000 borse di specializzazione messe a bando quest’anno (non sono mai state così tante), oltre una su tre non è stata assegnata. In termini assoluti, in questo momento restano vacanti 6.125 posti, il 38% di quelli disponibili.

Le branche maggiormente penalizzate sono quelle che riguardano pronto soccorso e rianimazione, reparti che la pandemia ha messo a dura prova per turni massacranti e contenziosi legali.

Delle oltre 16.000 borse di specializzazione messe a bando quest’anno (non sono mai state così tante), oltre una su tre non è stata assegnata

Colpiscono i numeri della chirurgia generale, con il 50% delle borse non assegnate. I dati dell’Acoi, l’associazione dei chirurghi ospedalieri, mostrano un crescente disinteresse per la branca: nel 2019 erano rimaste non assegnate 90 borse, nel 2020 112, nel 2021 180, nel 2022 213 e quest’anno 405.  

Per contro, hanno fatto il pieno dermatologia, chirurgia plastica ed estetica e ginecologia e ostetricia, specialità ospedaliere che spesso sono affiancate dalla libera professione.

Bandi deserti

Per essere assunto dal servizio sanitario nazionale, a un medico non basta la laurea: deve essere specializzato. “In passato parlavamo di camici grigi per indicare quei colleghi che rimanevano bloccati nel collo di bottiglia delle scuole di specializzazione e dunque non potevano accedere ai concorsi per l’assunzione”, ricorda Guido Quici, presidente della Federazione Cimo-Fesmed.

Negli ultimi anni i numeri dei contratti dedicati ai medici in formazione sono cresciuti, fino ad arrivare ai 16.165 di quest’anno

“I gravi deficit registrati nelle rianimazioni, nelle chirurgie e nell’area della medicina di emergenza urgenza sono purtroppo significativi, perché in un contesto dove mancano molti medici proprio l’area più critica è quella che subisce di più questa crisi, non solo a livello lavorativo ma anche a livello di accesso alla scuola di specializzazione”.

Da qualche anno il concorso è nazionale: i candidati, dopo aver effettuato il test, possono quindi scegliere la propria rosa di sedi e specializzazioni. “Il paradosso oggi è che probabilmente le branche più complesse sono quelle dove occorre meno punteggio – rileva Quici – Una persona che voglia diventare oculista ma abbia conseguito un punteggio basso ha quindi due possibilità: “ripiegare” su anestesia, chirurgia o medicina d’urgenza, oppure attendere l’anno successivo e ripetere il test. Queste branche, infatti, sono talmente bistrattate e pericolose che il collega oculista preferirà rinunciare”.

Un altro aspetto su cui Cimo-Fesmed ha molto insistito è che la graduatoria nazionale pone dei problemi di sostenibilità ed impatta sulla vita personale degli specializzandi: “Oltre al viaggio occorre trovare una casa e riuscire a vivere in una città come MIlano o Roma con lo stesso stipendio di chi si sta formando in un’area più marginale. Così, accade magari che un potenziale oculista si ritrovi a fare il chirurgo plastico perché la sede è più comoda. In questo modo, però, non si tiene conto della predisposizione personale dei medici in formazione”.

Una riforma della formazione

E poi c’è il nodo dello standard assicurato dalle scuole di specializzazione: non tutte quelle accreditate raggiungono il minimo previsto dalla legge. “Questo significa che, una volta terminato il percorso, i giovani colleghi hanno difficoltà a inserirsi nel mondo del lavoro”. 

Per ovviare a questo problema, il sindacato propone il distretto formativo, una sorta di ospedale di formazione: “Le università non sono attrezzate per accogliere i 16.000 studenti previsti dalle borse. Quindi, molte attività si svolgono nelle strutture pubbliche, ma manca un vero ponte tra università e ospedale. Se ci sono tanti studenti ma pochi casi, è difficile che si possa imparare la professione dal punto di vista pratico”.

Non tutte le scuole di specializzazione accreditate raggiungono lo standard minimo previsto dalla legge

Riflessioni in linea con quanto emerso durante l’ultimo congresso dell’Acoi: “Abbiamo dedicato una sessione proprio al problema delle vocazioni chirurgiche, con i giovani specializzandi che hanno presentato i risultati di una survey”, spiega Pierluigi Marini, past president di Acoi e presidente del congresso che si è tenuto a Roma nel mese di settembre.

Tre gli aspetti emersi sul calo delle iscrizioni a chirurgia: la mancata soddisfazione del percorso post laurea, il contenzioso medico legale e la retribuzione.

Il primo aspetto riguarda la formazione pratica, ritenuta inadeguata, come anticipato da Quici. “Per svolgere gli interventi previsti dalla legge servono volumi di attività chirurgica molto alta, che l’università non è in grado di fornire. Per questo motivo le scuole di specializzazione hanno fatto convenzioni con gli ospedali – evidenzia Marini – Il problema, secondo i giovani colleghi, è che il coordinamento è centralizzato in università e non permette loro di fare quanto previsto dall’obbligo formativo”.

L’Acoi ha presentato una proposta di riforma del percorso formativo, che prevede un upgrade della figura giuridica dello specializzando, che diventa assistente in formazione, sganciandosi dal tutor. “Secondo noi questo permetterebbe di sviluppare meglio le loro attitudini chirurgiche”, continua Marini.

Qualità della formazione post-laurea, contenzioso medico legale e retribuzione penalizzano la scelta della specializzazione in chirurgia

In questo momento, a fronte di un’insufficiente preparazione, c’è il contenzioso medico legale, “una cosa molto pericolosa perché sta sconvolgendo il rapporto medico-paziente, che deve essere di complicità e non di contrasto – rileva Marini – L’obiettivo finale deve essere la salute del paziente, ma in chirurgia il risultato non può essere garantito”.
Infine, la retribuzione: “Siamo i peggio pagati in Europa. A parte i primari nessuno si può permettere un’assicurazione personale per coprire i costi legali. Ospedali e chirurghi sono diventati istituzioni non assicurabili e gli stessi ospedali spesso non hanno l’assicurazione il rischio è così elevato da non essere considerato accettabile e le gare vanno deserte”.

Quali prospettive

Secondo i dati Eurostat, i chirurghi in Italia erano 7.000 nel 2016, mentre nel 2025 saranno 3.500 a causa dei pensionamenti e delle uscite volontarie. Le nuove assunzioni pesano per circa 2.400 unità, facendo quindi passare il numero di chirurghi da 7.000 a 5.900.

Chi può abbandona la professione, soprattutto chi ricopre ruoli non apicali. In questi colleghi, la passione lascia il posto alla frustrazione”. Dal congresso Acoi è emerso come il 41,8% dei chirurghi sia pronto ad abbandonare la professione.

Dal congresso Acoi è emerso come il 41,8% dei chirurghi sia pronto ad abbandonare la professione

Durante il Covid le istituzioni ci avevano promesso tecnologie, ammodernamento degli ospedali, personale, formazione… A due anni di distanza gli investimenti in sanità sono sempre meno”, sospira Marini.

Tra le priorità dell’Associazione, quindi, una riforma della formazione, uno sforzo per “restituire serenità a chi svolge questa professione” e un tentativo per risolvere il problema del contenzioso medico-legale.

E poi una proposta sulle retribuzioni: “Andrebbero rivisti i parametri di pagamento, magari basandoli sul rischio professionale delle varie categorie – suggerisce Marini – Non tutti i medici svolgono lo stesso lavoro e sarebbe utile differenziare”.

Negli ultimi anni gli ospedali, per assicurare i servizi della medicina d’emergenza urgenza hanno attinto ai gettonisti, medici a chiamata pagati molto meglio rispetto ai propri dipendenti. Esistono chirurghi a gettone? “Ancora no, ma la direzione è quella – sospira Marini – Le competenze richieste sono elevate, ma ci arriveremo. Con i numeri attuali non potremo garantire a lungo gli interventi”. 

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Michela Perrone
Giornalista pubblicista