Tempo di vacanze, tempo di Green pass. L’introduzione del passaporto vaccinale in Europa ha reso manifeste le carenze dal punto di vista dell’integrazione dei sistemi sanitari nell’Unione. Ne abbiamo parlato con Roberta Siliquini, docente di Igiene all’Università di Torino, già presidente del Consiglio Superiore di Sanità.
A che punto siamo?
“In attesa di capire dall’Europa come intende mettere insieme i dati dei vaccini dei cittadini europei. Ma di sicuro non è in previsione a breve termine una piattaforma comune, che a oggi non esiste né per il Covid né per altro. Anche lasciando da parte il tema della Certificazione verde e della pandemia, che ci ha messi di fronte in modo evidente a questa mancanza, l’assenza di questo tipo di strumento limita l’assistenza sanitaria per i cittadini europei”.
Come, in concreto?
“Intanto, non c’è possibilità di accesso a una serie di informazioni che potrebbero essere utili per l’assistenza sanitaria. Pensiamo a un cittadino italiano che abbia bisogno di cure urgenti in Germania: non c’è modo di verificare la presenza di patologie pregresse o quali farmaci stia assumendo. C’è poi il caso dei vaccinati in un Paese con una dose, che però non viene riconosciuta in un altro. Come Università di Torino abbiamo degli studenti spagnoli di Medicina che quest’inverno qui sono stati sottoposti alla vaccinazione, insieme ai compagni, in modo che potessero frequentare i reparti. Ci hanno scritto tre giorni fa dicendo che là li faranno vaccinare di nuovo, perché non c’è un data base europeo dei vaccini e il loro certificato cartaceo non è considerato valido”.
Perché secondo lei questo ritardo nell’implementazione di strumenti coordinati?
“Quando nel 2021 parlo di piattaforme informatiche comuni mi viene da pensare si tratti di cattiva volontà o di non eccessivo sforzo, perché oggi si può arrivare ad avere strumenti che garantiscono una certa sicurezza. Il fatto che le leggi sulla privacy dei vari Paesi siano diverse penalizza, ma credo che questo punto finora non sia stato per nessuno la priorità. Del resto non esistono sistemi comuni anche a livello inferiore”.
Qual è la situazione in Italia?
“L’integrazione non esiste nemmeno a livello interaziendale: se un paziente viene trasferito deve portare con sé il dischetto con la Tac o la risonanza perché da un altro ospedale non c’è possibilità di accedere. È grave anche che i sistemi informativi delle diverse regioni non si parlino”.
Sono in corso tentativi di migliorare la situazione?
“La pandemia ha accelerato il processo di informatizzazione dell’Anagrafe nazionale vaccini, previsto dal 2017. Non c’è altro sul tavolo al momento per far dialogare altri dati sanitari a livello interregionale. La digitalizzazione è uno degli obiettivi del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) e mi auguro che sia sviluppato adeguatamente”.
Il Pnrr può rappresentare la svolta da questo punto di vista?
“Assolutamente sì. Una piattaforma informatica con i dati sanitari dei cittadini non solo renderà più efficace la cura, ma diventerà una fonte di dati importantissima anche a fini preventivi ed economici. Parliamo sempre di Big Data e la sanità può fornirne tanti. Credo che il Pnrr sia un’occasione non solo dal punto di vista economico, ma anche come impulso vero alla trasformazione digitale di tutta la parte sanitaria. La salute è un volano fondamentale per il Paese da ogni punto di vista: per questo è necessario che i dati siano trattati in modo adeguato. Ma soprattutto bisogna averli”.