Amici We Care 2.0: la piattaforma di patient advocacy digitale per pazienti con malattie infiammatorie croniche intestinali

Attiva da quasi un anno, questa iniziativa vuole non solo offrire informazioni e servizi a pazienti e caregiver, ma anche raccogliere dati da condividere con la comunità scientifica. Ne parliamo con Salvatore Leone, direttore generale di Amici Italia

Amici We Care 2.0 è la prima piattaforma digitale di supporto ai pazienti, sviluppata da Amici Italia, associazione nazionale di riferimento per le persone con malattie infiammatorie croniche intestinali (MICI).

Attiva da quasi un anno, questa iniziativa vuole non solo offrire informazioni e servizi a pazienti e caregiver per aiutarli ad orientarsi tra le complesse esigenze di salute, ma anche raccogliere dati utili da mettere a disposizione della comunità scientifica. Ne parliamo con Salvatore Leone, direttore generale di Amici Italia.

Dottor Leone, da dove nasce questa vostra iniziativa?

Questo tipo di attività nasce da lontano. In particolare, già nel 2016 la nostra associazione ha condotto un’indagine con il centro di ricerca EngageMinds HUB dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e con il Patrocinio della Società scientifica di riferimento, IG-IBD (Gruppo Italiano per lo studio delle Malattie Infiammatorie Croniche Intestinali), per individuare dalla voce dei malati stessi che cosa fosse per loro più importante quando si recavano in ospedale e per stabilire se la cura ricevuta fosse accettabile e adeguata. Dal nostro punto di vista, riteniamo che i parametri per valutare l’assistenza sanitaria debbano essere stabiliti da chi riceve il servizio e non da chi lo eroga. Guardando oggi a questo progetto, vediamo che, seppure realizzata nel passato, questa iniziativa era fortemente indirizzata al futuro, con un approccio già allora innovativo.

Da questa indagine è emerso un decalogo della qualità di cura dal punto di vista dei malati che, successivamente, abbiamo sottoposto ai medici del gruppo IG-IBD, chiedendo loro di dare un ordine in termini di importanza alle stesse voci, considerando non quello che ritenevano importante dal punto di vista clinico, ma in base a quelle che, secondo loro, erano invece le esigenze del malato.

Dal confronto sono emersi risultati molto significativi e interessanti: ad esempio, la priorità definita al primo posto dai malati (“Sentire di essere accolto e supportato in un percorso di cura e assistenza condiviso e adattato alle mie esigenze”) nell’elenco definito dai medici compariva al settimo posto così come la seconda priorità per i malati (“Poter dare voce alle mie priorità ed esigenze rispetto alla gestione della malattia e alle cure disponibili e sentirmi parte attiva delle scelte che riguardano il mio stato di salute”) risultava all’ottavo posto per i medici.

Spesso tra il bisogno del malato e la percezione del medico esiste un vero e proprio disallineamento

Questa indagine ha consentito di mettere in evidenza l’esistenza di un vero e proprio disallineamento tra il bisogno del malato e la percezione del medico e ha rappresentato un punto di partenza fondamentale per le nostre ulteriori attività.

Figura 1. Decalogo della qualità di cura nella prospettiva dei pazienti con MICI
Figura 2. Decalogo della qualità di cura nella prospettiva dei gastroenterologi

Infatti, contestualmente, stavamo portando avanti, con l’Alta Scuola di Economia e Management dei Sistemi Sanitari (Altems) dell’Università Sacro Cuore di Roma, un’indagine sui costi diretti e indiretti delle malattie infiammatorie croniche dell’intestino nel contesto italiano. Da questo report è emerso come un paziente affetto da MICI spende oltre 700 € l’anno per curarsi e, se a questo si aggiunge la perdita di produttività o il fatto di dover essere accompagnato alla visita da un familiare, si arriva alla cifra di circa 2.300 € l’anno.

Un paziente affetto da MICI spende oltre 700 € l’anno per curarsi e, considerando anche la perdita di produttività sua o di un familiare, si arriva alla cifra di circa 2.300 €

A partire dal disallineamento riscontrato tra il bisogno del malato e la percezione del medico e incrociando il dato di costo della seconda analisi, i ricercatori hanno stimato che, con il coinvolgimento attivo del paziente nel percorso di cura da parte del medico, si possa raggiungere un risparmio del 20% relativamente ai costi diretti e una diminuzione di assenza dal lavoro del 25%.

Lo studio condotto con EngageMinds HUB ha inoltre messo in evidenza come l’11% dei medici sia effettivamente “engaging”, cioè coinvolga attivamente il paziente nel percorso di cura, mentre il 69% manifesta una sensibilità positiva verso il coinvolgimento del malato, a fronte di un 20% che ritiene ancora che il ruolo attivo del malato sia solo quello di seguire le indicazioni mediche.

Perché sono importanti i Patient Support Program e in che cosa si differenzia la vostra piattaforma?

Da qualche anno stiamo assistendo alla creazione di Patient Support Program (PSP) come programmi di monitoraggio dei pazienti da remoto che molte aziende produttrici, soprattutto di farmaci biologici, stanno avviando, e per alcune di queste iniziative, come Associazione, abbiamo concesso il patrocinio.

Da qualche anno si assiste alla creazione di Patient Support Program (PSP) come programmi di monitoraggio dei pazienti da remoto

Dall’analisi di questi programmi abbiamo notato una criticità importante: nonostante l’ingente investimento da parte delle aziende produttrici e anche a fronte di progetti ben strutturati, l’arruolamento dei pazienti risulta molto scarso. E questo perché il PSP non può essere pubblicizzato né dall’Associazione che concede il patrocinio né dall’azienda produttrice né dall’infermiere; l’unico soggetto che può promuovere il PSP è il medico che però, come è noto, negli ultimi anni è stato investito di un sempre maggiore carico di burocrazia da evadere e di sua competenza. Avviene pertanto che, nella pratica clinica quotidiana, il medico che si trova davanti un paziente che potrebbe beneficiare di un PSP, tra le innumerevoli incombenze burocratiche a cui deve attenersi, debba anche scegliere, tra i circa 20-30 PSP attualmente attivi, a quale programma indirizzare il singolo paziente. E non è finita qui: poiché alcuni PSP sono brandizzati, se il paziente cambia farmaco (e questa è una evenienza tutt’altro che rara, in questo periodo storico dove la spending review si sta realizzando non tanto sugli sprechi quanto sui bisogni), è necessario cambiare anche il programma di riferimento.

Come si vede, una situazione complessa che non favorisce le esigenze dei pazienti.

Per superare questa criticità, la nostra Associazione ha deciso di cercare di innovare il terzo settore, dando vita ad un PSP dell’associazione: una sorta di contenitore “etico” dove tutte le aziende produttrici interessate, volendo, possono investire una percentuale di capitale per realizzare un progetto di assistenza promosso dall’associazione dei pazienti, nel quale sono presenti diversi servizi, da erogare al singolo paziente in base al suo percorso di cura e al trattamento che riceve.

La pandemia inoltre ci ha dato lo spunto per un ulteriore cambiamento portandoci a realizzare un programma di assistenza non in forma tradizionale ma in forma digitale. Con la pandemia abbiamo capito che il digitale è già il presente e, se prima avevamo già gli strumenti digitali ma per svariati motivi non li utilizzavamo, ora li stiamo addirittura utilizzando troppo e, in alcuni casi, non in maniera appropriata. Anche su questo vorremmo intervenire con il nostro progetto.

In che modo il dato può essere al servizio della salute del paziente e utile per la comunità scientifica e la società nel complesso?

La nostra riflessione nasce anche dall’analisi dei trend complessivi sulla sanità: nel 2030 (che non è una data così lontana come può sembrare) nel mondo saremo circa 8,6 miliardi di persone e nel 2020 le persone collegate a Internet erano già circa 5 miliardi. Questo è un fenomeno che va governato: molte persone iperconnesse significa molte persone che possono avere accesso alle informazioni e alla gestione della propria malattia.

Anche su questo aspetto il nostro obiettivo è molto ambizioso perché vorremmo provare a raccogliere dei dati da mettere a disposizione della comunità scientifica.

La tendenza a farsi la diagnosi da soli, se l’informazione non viene validata, rappresenta un grosso problema

In sanità noi siamo passati da un approccio empirico (basato sull’analisi dei fenomeni naturali) all’approccio teorico (basato sullo sviluppo di modelli da confrontare con la realtà) per arrivare ora alla fase computazionale. In questo senso, al giorno d’oggi abbiamo potenzialità incredibili che non conosciamo ancora e non sappiamo sfruttare al meglio. Ad esempio, il 70% delle persone, prima di andare dal medico, cerca su Google i sintomi della malattia. Questa tendenza a farsi la diagnosi da soli, se l’informazione non viene validata, rappresenta un grosso problema. Noi non dobbiamo rimanere fuori da questo sistema ma dobbiamo governarlo. “Do it yourself diagnosis” non significa “fatti la diagnosi da solo” ma significa fornire al paziente tutte le informazioni e farlo andare dal medico quando e se effettivamente necessario.

La piattaforma Amici We Care rappresenta un progetto modulare che si svilupperà sulla base di quello che ci dicono i pazienti, sul gradimento del malato, che rappresenta da sempre la nostra “stella cometa”, con una serie di tecnologie a disposizione, che verranno implementate seguendo l’innovazione e la ricerca: ad esempio penso alla calprotectina, un parametro che si può misurare da remoto e fornisce indicazioni sull’infiammazione intestinale. E già da ora sono disponibili ai nostri soci servizi di teleconsulto gratuito con specialisti o servizi di telemonitoraggio attraverso l’ausilio di dispositivi indossabili d’avanguardia e certificati.

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