L’infermiere per la comunità

L’infermiere di famiglia e comunità e l’assistenza territoriale sono la chiave di volta del nuovo modello che caratterizza il Servizio Sanitario Nazionale. Il punto con Fnopi e l'esperienza dell'AUSL Reggio Emilia

La sanità va sempre di più nella direzione del territorio e al centro di questo processo c’è l’infermiere. Ma a che punto è l’implementazione della figura dell’infermiere di famiglia e comunità? Cosa manca per raggiungere l’obiettivo? Ne abbiamo discusso con Barbara Mangiacavalli, presidente Federazione Nazionale Ordini Professioni Infermieristiche (Fnopi) e Sonia Romani, responsabile Professioni Sanitarie, Dipartimento Cure Primarie AUSL Reggio Emilia.

Mangiacavalli (Fnopi): “Insieme al ruolo dell’infermiere cambia il modello culturale”

Nelle Case e Ospedali di comunità e Centrali operative territoriali, come ha sottolineato anche l’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali (Agenas), l’infermiere di famiglia e comunità trova il migliore riconoscimento insieme all’importanza dell’assistenza territoriale e domiciliare. Facciamo il punto sul processo con Barbara Mangiacavalli, presidente della Fnopi, che conta quasi 460mila iscritti.

A che punto è l’istituzione della figura dell’infermiere di famiglia e comunità nel nostro Paese?

Barbara Mangiacavalli

L’infermiere di famiglia e comunità e l’assistenza territoriale sono la chiave di volta del nuovo modello che deve caratterizzare il Servizio Sanitario Nazionale. Nella riforma delineata dal PNRR e resa attuativa dal DM 77/2022, è previsto lo sviluppo della domiciliarità e della prossimità e in questo senso un compito fondamentale è assegnato alla figura dell’infermiere di famiglia e comunità (IFeC).

Lo standard stabilito è di un infermiere ogni tremila abitanti e il fabbisogno complessivo è di circa 20mila infermieri di famiglia e comunità e di circa altrettanti 20mila per i vari nuovi servizi sul territorio che consentirebbero di alleggerire i pronto soccorso ospedalieri.

Sul territorio ci sono già tantissimi progetti attivi, come abbiamo raccontato nel documentario ‘Ovunque per il bene di tutti’ (disponibile su Rai Play cliccando su questo link), il risultato del congresso itinerante post pandemia.

Ma di infermieri non ce ne sono abbastanza. Ad oggi non siamo andati oltre le 3mila unità in forza alle strutture del Ssn.

Senza una diversa politica nelle assunzioni e nella formazione si rischia di lasciare tutto solo scritto sulla carta

Oggi l’infermiere di famiglia e comunità è legge e la sua presenza è prevista dalle Case e gli Ospedali di Comunità (a gestione infermieristica) ai servizi di assistenza domiciliare, dalle Centrali Operative Territoriali alle Unità di Continuità Assistenziale fino ai team di infermieri di famiglia e comunità (IFeC), soprattutto per l’assistenza ai più fragili e agli anziani, ma senza una diversa politica nelle assunzioni e nella formazione si rischia di lasciare tutto solo scritto sulla carta.

In che cosa consiste questo ruolo e qual è la novità nei compiti dell’infermiere rispetto al passato?

L’infermiere di Famiglia e Comunità è soprattutto un punto di riferimento unico verso i pazienti

L’infermiere di Famiglia e Comunità è la figura professionale territoriale di riferimento per l’assistenza infermieristica, opera su diversi livelli di complessità in collaborazione con tutti i professionisti presenti nella comunità a cui si riferisce. Può sicuramente erogare alcune prestazioni, soprattutto quelle in cui può avere competenze specifiche, ma è soprattutto un punto di riferimento unico verso i pazienti, interagisce con tutti gli attori e le risorse presenti nella comunità per rispondere a nuovi bisogni, attuali o potenziali e attiva o orienta i giusti percorsi.

È una pedina fondamentale di controllo dello stato di salute dei cittadini per la popolazione più fragile, come le persone più anziane o i pazienti cronici, ma non solo. È una figura utile anche per la divulgazione delle buone pratiche sanitarie tra i più giovani, nelle scuole e nei luoghi di aggregazione. Inoltre mira al potenziamento e allo sviluppo della rete sociosanitaria e si sviluppa dentro le comunità e con le comunità rispetto alla quale fa una valutazione dei bisogni di salute; prevenzione primaria, secondaria e terziaria; conosce i fattori di rischio prevalenti nel territorio di riferimento, la relazione d’aiuto e l’educazione terapeutica; stende piani assistenziali infermieristici, individua quesiti di ricerca infermieristica, orienta anche ai servizi, fa una valutazione, indicazione e prescrizione dei presidi necessari.

Monitora l’aderenza terapeutica, l’empowerment e valuta i sistemi di telemonitoraggio ed è lui che attiva consulenze infermieristiche, si occupa della formazione dei caregiver e delle persone di riferimento.

Ma soprattutto collabora a strategie assistenziali di continuità ospedale territorio, definisce e contribuisce a protocolli, procedure, percorsi e progetta e attua gruppi di auto mutuo aiuto.

Come si sta evolvendo l’assistenza territoriale in Italia, in relazione e di pari passo con l’introduzione dell’infermiere di famiglia e comunità?

Dove si è deciso di investire sul territorio si trovano esperienze già avviate e in alcuni casi precursori del DM 77

Più che di un’evoluzione forse è il caso di parlare della realizzazione. Finora l’assistenza territoriale non aveva canoni o parametri di vero riferimento ed era organizzata secondo modelli legati a necessità che via via si manifestavano, legate ai bisogni di salute e di assistenza delle persone e plasmati sulle singole organizzazioni. Sostanzialmente dove si è deciso di investire sul territorio si trovano esperienze già avviate e in alcuni casi precursori del DM 77.

Ma la pandemia e l’avanzamento dell’età e delle cronicità hanno reso necessaria un’organizzazione omogenea.

In tutto questo, come già accennato prima, l’infermiere di famiglia e comunità ha un ruolo centrale non solo come professionista, ma come modello culturale e professionale che porta con sé. L’evoluzione dell’assistenza territoriale finora si è evoluta con le previsioni contenute nei Contratti istituzionali di sviluppo, sottoscritti tra Regioni e ministero della Salute in cui il numero di strutture risulta ancora più alto rispetto a quelle finanziate.

Ma ora l’evoluzione è in stallo e la vera sfida è proprio quella di andare oltre le strutture e garantire che i professionisti, i processi e i modelli organizzativi siano modificati per non ricalcare l’esistente. La pandemia infatti ha mostrato come l’organizzazione dell’assistenza territoriale fosse fragile e non in grado di rispondere al meglio ai bisogni assistenziali.

Ci sono esempi virtuosi in cui il servizio è già stato implementato e a cui ci si può ispirare?

La prima regione dove è stato introdotto l’infermiere di famiglia e comunità – già nel 2004 – è il Friuli Venezia Giulia. In Regione Toscana invece è stato deliberato fin dal 2018. Ma esistono anche progetti illuminati e precursori come il piemontese Co.N.S.E.N.So.. Da anni inoltre esiste un’associazione, l’Associazione italiana Infermieri di famiglia e comunità, che lavora per l’implementazione di questa figura e con cui abbiamo collaborato per la produzione del nostro position statement.

I principali risultati, rilevati in un sondaggio sulla qualità dei servizi nelle zone dove il servizio è stato attivato, sono la risposta immediata e tempestiva alle esigenze della popolazione, che si rivolge al servizio di Pronto Soccorso in modo più appropriato, con il 18% in meno di accessi.

Altro effetto-beneficio è la riduzione dei ricoveri (in quanto si agisce prima che l’evento acuto si manifesti) con conseguente riduzione dei costi: sempre nelle aree di riferimento si parla di un tasso di ospedalizzazione più basso della media di almeno il 12% rispetto alle zone dove non opera questo tipo di professionista.

Poi si è registrata una maggiore capacità di presa in carico integrata in fase intensiva (in ospedale) e in fase estensiva (sul territorio) con circa il 4% in più di over 65 presi in carico e oltre il 5% in più di over 75.

Gli accessi domiciliari sono aumentati in media del 23,8%, anche per la riduzione dei tempi di percorrenza.

Abbiamo tanti altri “effetti collaterali” positivi: è percepita infatti una migliore qualità di vita e un maggiore sostegno non solo all’assistito ma anche alla sua famiglia e ai caregiver.

Quali sono le prossime tappe attese per arrivare a un pieno compimento di questo servizio in tutto il Paese?

Sono tappe generali che devono prevedere lo sviluppo degli strumenti necessari a dare gambe alla riforma del territorio e che, a questo punto, si concentrano tutti su quelle che sono le indicazioni date dallo stesso Ministro della Salute, Orazio Schillaci: investire anche in termini di formazione e di sviluppo delle competenze, sia specialistiche, che trasversali, legate a nuovi modelli di organizzazione del lavoro multidisciplinare e integrato. E poi aumentare il numero di iscritti nelle università e colmare la carenza di figure specialistiche  C’è quindi l’esigenza di organizzare il lavoro in team multiprofessionali e multidisciplinari per garantire un’assistenza qualificata su tutto il territorio nazionale.

Allo stesso tempo, occorre accelerare la riorganizzazione della sanità pubblica, con al centro la persona, meno incentrata sull’ospedale e con una assistenza territoriale più forte.

Quali sono le principali criticità da superare a tale scopo e come?

Le criticità riguardano il mancato riconoscimento della flessibilità del personale in termini di ruolo e competenze; la necessità di una formazione adeguata di natura specialistica sugli infermieri che operano sul territorio; l’inadeguatezza dei presidi assistenziali nella rete ospedaliera e territoriale; i modelli organizzativi che non rispondono a un’evoluzione del SSN nel senso di multiprofessionalità, interdisciplinarietà, abbandono dell’attuale gerarchizzazione dell’assistenza a favore della scelta del professionista giusto per il bisogno del cittadino, creazione di vere reti socio-assistenziali, ma senza la giusta valutazione quali-quantitativa del personale necessario configurano solo una “manutenzione” del sistema.

La vera sfida è indubbiamente il territorio

La vera sfida è indubbiamente il territorio e in questo l’infermiere di famiglia e comunità rappresenta una soluzione per tutto il Paese e in particolare in molte regioni anche in base alla loro configurazione oro geografica: la collaborazione tra infermieri di famiglia e di comunità sul territorio e lo sviluppo della tecnologia – sociale e di cura – per il sostegno in quelle zone che oggi spesso vengono spopolate perché prive proprio di supporti sociali e più in generale di servizi pubblici, rappresenterebbe anche uno strumento utile, oltre che alla tutela della salute delle persone e all’assistenza ai loro bisogni, alla riduzione delle attuali disuguaglianze.

Come? Si deve dar forza al nuovo modello di lavoro che prevede la creazione di una rete di servizi in cui le professioni operano in team senza subordinazioni tra loro e soprattutto senza invasioni di campo.

È indispensabile abbandonare modelli obsoleti di rapporti interprofessionali e abbattere le disuguaglianze contrattuali, di posizione e, perché no, anche economiche, che oggi caratterizzano le professioni sanitarie.

La FNOPI come sta sostenendo la nascita di questa nuova figura?

La Federazione per definire le linee del cambiamento, dello sviluppo professionale e del necessario recupero di attrattività della professione infermieristica da parte dei giovani –  che oggi vedono il lavoro di infermiere come estremamente gravoso, poco retribuito e senza evidenti sbocchi di carriera –  ha dato vita nel 2022 a due momenti di analisi e confronto: gli Stati Generali della professione, una consultazione pubblica aperta a tutti gli infermieri iscritti all’ordine, e la Consensus Conference, alla quale hanno partecipato i massimi stakeholder della sanità italiana.

I risultati  sono stati consegnati al Parlamento e alle istituzioni per discutere e tracciare le linee dello sviluppo della professione.

Questi risultati si possono riassumere in una serie di istanze: l’inserimento delle prestazioni infermieristiche nei Livelli essenziali di assistenza, anche con indicatori per confrontare e misurare i risultati dell’assistenza infermieristica a livello nazionale;  il superamento dell’esclusività degli infermieri dipendenti per ampliare l’offerta assistenziale al territorio, con la massima attenzione al mantenimento dell’equilibrio del sistema; lo stop a modelli di assistenza basati su prestazioni limitate al caso specifico, sostituiti da modelli organizzativi per la presa in carico della persona e dei loro caregiver.

Fondamentale per raggiungere questi obiettivi è il cambiamento radicale della formazione, con specializzazioni e percorsi universitari ad hoc anche interprofessionali in alcune aree quali ad esempio nell’ambito delle cure primarie e sanità pubblica, cure palliative, geriatria e così via.

Tutti questi elementi, evidenziati dagli Stati Generali e dalla Consensus Conference, sono le basi su cui la Federazione vuole costruire il futuro dell’infermiere, dell’infermiere di famiglia e di comunità e del servizio sanitario nazionale, per tutelare il diritto di cura per tutti i cittadini, su tutto il territorio nazionale.

Romani (AUSL RE): “Gli infermieri sono pronti, vanno sostenuti”

L’esperienza dell’Emilia-Romagna e la lezione appresa: il modello funziona, non si torna indietro, sostiene Sonia Romani, responsabile Professioni Sanitarie, Dipartimento Cure Primarie AUSL Reggio Emilia.

Come sta cambiando il ruolo dell’infermiere, di pari passo con l’evoluzione della sanità territoriale?

Sonia Romani

La sanità territoriale, sta sempre di più, sviluppando un modello che coinvolga la famiglia e la comunità nel percorso di cura. Risulta pertanto evidente come la figura dell’infermiere possa diventare rilevante in questo ambito. Il Medico di Medicina Generale (MMG) rappresenta la figura di riferimento e cardine per il percorso di cura del paziente e l’infermiere una figura con cui integrarsi per una presa in carico completa.

In particolare nelle patologie croniche, il coinvolgimento delle famiglie e della comunità consentono la gestione domiciliare di situazioni complesse che possono evitare l’ospedalizzazione. Per fare questo, il personale infermieristico deve acquisire conoscenze nuove (grazie a Master o percorsi professionalizzanti interaziendali) e contestualmente le aziende devono rivedere i modelli organizzativi, in modo da consentire il superamento degli interventi prestazionali e favore modelli pro-attivi mirati a prevenire l’insorgenza di eventi acuti e/o complicanze. La proattività e la prevenzione molto spesso si agiscono o si dovrebbero agire proprio nella collettività, nei luoghi di vita informando la popolazione.

Nella sua esperienza, quali sono le principali criticità che si riscontrano in questo sviluppo?

Vedo gli infermieri pronti per questa nuova sfida

Molto spesso sono gli stessi professionisti che guardano al cambiamento con diffidenza; in questo caso, però, vedo un gruppo professionale pronto a questa nuova sfida. In particolare chi già lavora sul territorio, nei servizi domiciliari e negli ambulatori comprende la grande potenzialità che ha il territorio.

Certo nessun professionista, di nessuna categoria, da solo, può raggiungere un obiettivo. Occorre costruire reti, integrarsi con altri professionisti. Non solo gli MMG, precedentemente citati, ma anche gli assistenti sociali, gli specialisti, le associazioni di volontariato, la parrocchia, le pro loco e tutti coloro che intervengono o potrebbero intervenire nel percorso di contatto e di “aggancio” con la popolazione ammalata, ma soprattutto con quella che ancora non sa di esserlo. Quest’ultimo aspetto è forse il più complesso, richiede tempo, apertura mentale e capacità di adattamento. Sarebbe troppo facile pensare che solo il numero di risorse (certo in questo momento storico elemento di criticità) possa essere determinante nella realizzazione di questo approccio.

Come pensa che si possano superare?

Serve innanzitutto fornire ai professionisti gli strumenti per agire questo cambiamento e sostenerli

Fornire ai professionisti gli strumenti per agire questo cambiamento e sostenerli. Raccogliere dati che dimostrino il valore dell’assistenza territoriale, ambiente storicamente impegnato “a fare”, ma non abbastanza a dare evidenza di ciò che si fa. Paradossalmente, l’incubo in cui siamo caduti in questi tre anni ha proprio dimostrato come, lavorando insieme, professionisti del territorio e dell’ospedale siano riusciti nel gestire a domicilio un elevato numero di pazienti, lasciando i letti ospedalieri ai pazienti acuti e in pericolo di vita.

Nella Vostra Regione la figura dell’infermiere di comunità è già stata sperimentata da tempo: con che risultati? In che modo pensa si possa prendere spunto da un’esperienza come la vostra?

Confermo che nella Regione Emilia Romagna esperienze e progetti sull’inserimento dell’infermiere di comunità nel territorio si stanno sviluppando. La nostra AUSL ha inserito tre unità, nell’ambito di un progetto finanziato per le aree interne, con particolare riferimento alle zone disagiate dell’area montana (grande distanze, bassa densità abitativa). È stato avviato un progetto sperimentale a cui è stato anche affiancato un progetto di ricerca per avere poi la possibilità di raccogliere dati utili alla diffusione del modello. Il progetto è partito nel 2019 e nonostante la pandemia è riuscito a portare questi infermieri all’interno della comunità con il sostegno delle amministrazioni locali e dei MMG. Sono riusciti ad organizzare iniziative con associazioni di volontariato, a intercettare situazioni di fragilità che sarebbero emerse solo nel momento dell’urgenza, hanno orientato la popolazione ai giusti servizi ed hanno raccolto informazioni utili a fotografare la comunità ed i principali bisogni.

A fine 2021 le persone prese in carico sono state 826 (quasi nella totalità over 65enni con una netta prevalenza tra gli 80 ed i 94 aa), 40% maschi e femmine il 60%. Persone ancora in grado di cucinare, uscire per fare commissioni, ma oltre il 70% di loro, ad esempio, non pratica attività fisica. Pertanto sono stati organizzati momenti dedicati ed organizzati i trasporti per favorirne la partecipazione.

Questo è un esempio, ma sono anche andati nei bar, nei centri sociali per parlare, rilevare qualche pressione e dare qualche informazione sui corretti stili di vita; a questo scopo hanno anche organizzato serate dedicate.

Il modello è vincente, non si può tornare indietro

Cosa ci ha insegnato e cosa ci sta insegnando questa esperienza. Il modello è vincente, non si può tornare indietro. Sicuramente le risorse che abbiamo potuto mettere in campo con questo finanziamento non saranno altrettanto facili da reperire, ma abbiamo la possibilità di aprire lo sguardo e fare in modo che chi già lavora sul territorio utilizzi “gli occhiali giusti”. Proveremo a riorganizzare qualche attività per liberare tempo e permettere i contatti e le integrazioni a cui abbiamo fatto riferimento. Occorre iniziare credo da chi gestisce e coordina i gruppi, consapevoli che non tutti i professionisti sono pronti, ma ce ne sono parecchi disposti ad accettare questa nuova sfida.

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Adriana Riccomagno
Giornalista professionista in ambito sanitario