La rural health è un tema di grande attualità (è nato da poco anche un intergruppo parlamentare sulla prevenzione e le emergenze sanitarie nelle aree interne), che riguarda l’accesso e la qualità dei servizi sanitari per le comunità che vivono in zone rurali o remote, e che offre diversi spunti di riflessione. A livello globale, si stima che almeno due miliardi di persone nelle aree rurali non abbiano accesso ai servizi sanitari essenziali. È una delle cause per cui si assiste allo spopolamento di queste zone e all’emigrazione delle persone verso gli spazi suburbani.
La carenza di operatori sanitari adeguatamente formati è la causa principale della mancanza di cure appropriate in queste aree. Uno dei temi fondamentali della rural health, infatti, è proprio il reperimento e la formazione dei futuri professionisti. In Italia e in Europa, per preservare borghi, montagne e isole dall’abbandono, non basta dare prospettive lavorative per le giovani generazioni, ma serve anche un’assistenza primaria efficace. Spesso si pensa che le priorità delle aree rurali siano meno importanti rispetto a quelle urbane e si tende ad adattare l’ambiente rurale ai modelli cittadini, invece di fare il contrario.
Ne parliamo a TrendSanità con Ferdinando Petrazzuoli, medico di Medicina generale, Presidente dell’EURIPA (European Rural and Isolated Practitioners Association), membro del direttivo del WONCA Europa, docente presso la Scuola di specializzazione in Medicina di comunità e cure primarie dell’Università di Napoli “Federico II” e ricercatore presso il Dipartimento di Scienze cliniche, Università di Lund in Svezia.
Quanto conta la formazione dei medici rurali?
«Sono un medico di famiglia a Ruviano, un piccolo paesino rurale della provincia di Caserta, con meno di 2mila abitanti e affronto ogni giorno le difficoltà specifiche delle aree rurali. Le sfide sono diverse e complesse, spesso sottovalutate rispetto a quelle urbane. La prima, forse la più importante, è la costante riduzione delle spese sanitarie e la chiusura dei piccoli ospedali. Negli ultimi trent’anni, l’Italia ha visto un progressivo accentramento dei servizi sanitari nei grandi centri urbani, lasciando scoperte le aree rurali. Le cure domiciliari e l’assistenza territoriale non riescono a compensare adeguatamente queste carenze e la conseguenza è la “desertificazione sanitaria” che colpisce gravemente le popolazioni rurali. In Italia ci sono più di 5mila piccoli comuni rurali sotto i 5mila abitanti, che rappresentano il 70% del totale dei comuni italiani. Questo vuol dire che la formazione sulla rural health dovrebbe essere un aspetto importante nel percorso medico. Da noi manca un modulo specifico per la medicina rurale nei corsi di formazione, mentre in altri Paesi è obbligatoria».
Quali sono le capacità da acquisire?
«I medici devono essere in grado di adattarsi alle esigenze specifiche di queste comunità, che richiedono un rapporto di fiducia e una maggiore tolleranza verso i bisogni dei pazienti. Le differenze tra medicina urbana e rurale non sono enormi ma significative. Il rapporto di fiducia tra medico e paziente è fondamentale nelle aree rurali, dove il medico deve essere percepito come parte della collettività. Si richiede un approccio più personale e la capacità di gestire le aspettative e le ansie dei pazienti. Mantenere i giovani medici di famiglia nelle zone rurali è una delle principali sfide e vanno superati gli aspetti negativi del lavoro nelle aree rurali e remote, come l’elevato carico di lavoro e l’operare a volte da soli in zone lontane, la scarsa possibilità di crescita professionale, le poche opportunità ricreative e di prospettive di lavoro per il partner e la scuola per i figli».
Come è cambiata la struttura famigliare e quanto ha inciso sull’assistenza agli anziani?
«Sessant’anni fa, nelle comunità rurali c’era la coabitazione di più generazioni all’interno della stessa casa. In una masseria, era comune trovare tre o quattro generazioni che vivevano insieme. Quando una persona anziana si ammalava, l’assistenza era fornita principalmente dalle donne della famiglia, che non lavoravano fuori casa e potevano prendersi cura dei malati. Oggi, invece, la situazione è cambiata drasticamente. Gli anziani che vivono nelle zone rurali sono spesso soli o vivono con il coniuge e spesso hanno superato gli 85 anni. I loro figli, se presenti, vivono lontano, nelle grandi città o all’estero. L’assistenza familiare è allora spesso affidata a badanti esterne, con tutte le difficoltà logistiche e limitazioni nell’accesso ai servizi medici. È uno scenario che non riguarda solo le cure per specifiche malattie, ma rappresenta un problema sociale più ampio: l’isolamento e le scarse possibilità di socializzazione. Un isolamento che può portare a problemi di salute mentale e fisica, aggravati proprio dalla mancanza di interazioni con gli altri, con la comunità. Per affrontare questi problemi, si sta introducendo il concetto della “Prescrizione Sociale” (Social Prescribing), che affianca alle cure mediche quelle sociali e include attività ricreative e socializzanti come portare gli anziani al cinema, a ballare, ai musei o a fare attività fisica di gruppo all’area aperta, ecc. È una strategia che si dimostra molto efficace nel migliorare la qualità della vita delle persone e per potenziare il benessere biologico, fisico e psicologico, spesso anche più dei farmaci».
Come riorganizzare e cure primarie nelle zone remote?
«La riorganizzazione delle cure primarie deve tener conto delle esigenze specifiche delle comunità rurali. L’accentramento dei servizi in un unico centro, anche se a pochi chilometri di distanza, può rappresentare un grosso ostacolo per gli anziani, che preferiscono avere i servizi essenziali come il supermercato e la farmacia a portata di mano, quindi anche le cure mediche. Nelle zone rurali italiane poi il livello di alfabetizzazione sanitaria è spesso basso. Ciò implica una maggiore difficoltà nel seguire i consigli medici e gestire le malattie senza ricorrere costantemente al medico. Anche le campagne di prevenzione e screening incontrano diverse difficoltà. Le percentuali di successo degli screening ufficiali sono più basse rispetto alle aree urbane, spesso a causa della mancanza di strutture adeguate. L’organizzazione in mobilità, come i camper per gli screening, ha avuto un certo successo, ma è una soluzione temporanea. Un esempio virtuoso viene proprio dal mio piccolo paese che ha istituito un centro antidiabetico comunale per tamponare le carenze dell’assistenza medica locale e riducendo il ricorso ai centri privati. Ha dimostrato che una struttura sanitaria di prossimità può rispondere più efficacemente alle esigenze della popolazione. La chiusura dei piccoli ospedali nelle aree rurali è una questione controversa. Sebbene la gestione dei costi sia una preoccupazione legittima, occorre però trovare un equilibrio tra pubblico e privato per garantire le cure. La retorica dell’appropriatezza e delle “regioni virtuose” spesso non tiene conto delle reali esigenze delle comunità locali, trattando la sanità come una spesa passiva anziché un investimento in termini di salute pubblica e occupazione. Inoltre, la scarsità di medici e infermieri porta a un sovraccarico di lavoro per quelli che restano e il rischio di burnout è dietro l’angolo. Molti professionisti sanitari, quindi, lasciano le zone rurali per trasferirsi in altre aree, aggravando ancora di più la scarsità di personale. È un circolo vizioso di cui si parla poco e coinvolge non solo i medici ma anche tutti gli altri operatori sanitari. Sono in particolare le nuove generazioni di personale sanitario quelle che soffrono di più. Molti giovani medici, ancora in formazione, si trovano a gestire un carico di lavoro importante, spesso senza l’esperienza necessaria, e questo li porta talvolta a dimettersi dopo pochi mesi o a lavorare in modo inefficace. Un aspetto, spesso sottovalutato ma devastante, è il carico burocratico che grava sui medici, che non solo li distoglie dalla cura dei pazienti, ma aggiunge stress inutile. Compiti amministrativi, come compilare moduli e report, sono percepiti come privi di valore clinico e generano frustrazione».
La telemedicina o le nuove tecnologie emergenti possono essere una valida risorsa o ci sono ostacoli concreti?
«Le nuove tecnologie offrono grandi opportunità per le aree rurali. Durante la pandemia di COVID-19, molte persone anziane hanno imparato a utilizzare strumenti come WhatsApp per comunicare con i medici. Tuttavia, restano sul tavolo problemi concreti, come la connessione internet spesso inadeguata che ostacola l’uso efficace della telemedicina, proprio laddove potrebbe apportare i maggiori benefici. Questo divario digitale è una barriera che va affrontata per permettere l’accesso equo alle cure. La telemedicina offre tanti vantaggi ma non può sostituire completamente il contatto diretto con il medico. La prossimità resta un valore fondamentale, specialmente per le persone anziane che spesso non sono disposte a spostarsi per ricevere cure mediche. È necessario un cambiamento nel welfare orientato alla comunità che include le cure domiciliari, l’integrazione di nuove tecnologie e la formazione continua dei professionisti sanitari».
Quali sono i bisogni delle comunità rurali?
«Gli investimenti nella sanità rurale devono essere orientati alle concrete esigenze delle comunità locali. Spesso, le decisioni sono prese da chi vive in ambienti urbani, senza una reale percezione dei bisogni delle comunità rurali, un approccio top-down che spesso porta a soluzioni inefficaci o nocive. Le comunità e le autorità locali, come i sindaci, sono “attori” da coinvolgere nell’assistenza sanitaria, perché conoscono le esigenze locali. Come dicevo, nel mio piccolo paese, è stato proprio il sindaco a lottare per ottenere il centro antidiabetico che offre anche servizi cardiologici. Questo dimostra come l’impegno locale possa superare le resistenze burocratiche. La comunità può fare molto, sia attraverso le autorità, sia tramite le reti sociali di solidarietà, che sono profondamente radicate nella mentalità rurale».